La tentazione dell’abbandono

La messinscena della crisi in due pièces a confronto

Résumés

Il contributo intende mettere a confronto due testi teatrali molto diversi tra loro che indagano, con tecniche e un’estetica differenti, l’argomento della crisi economica e sociale: Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, e Fuori gioco di Lisa Nur Sultan. Il tema comune – il racconto di un suicidio – è solo il punto di partenza per un discorso più ampio sugli atteggiamenti possibili di fronte alla crisi: abbandono o accetazione? Rivolta o compromesso?

This contribution intends to compare two very different theatrical texts that investigate, with different techniques and aesthetics, the subject of the economic and social crisis: Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni (We're leaving so as not to give you any more worries) by Daria Deflorian and Antonio Tagliarini, and Fuori gioco (Out of the Game) by Lisa Nur Sultan. The common theme – a story of a suicide – is only the starting point for a broader discourse on possible attitudes in front of a crisis: renunciation or acceptance? Revolt or compromise?

Plan

Texte

« La grande recessione » inizia nel 2007: la crisi dei subprimes (i prestiti ipotecari ad alto rischio) della fine del 2006, seguita dalla crisi finanziaria, diventerà, ben presto, un fenomeno mondiale che non risparmierà che pochi paesi nel mondo. Quella che è considerata come la più grande crisi economica, dopo « la grande depressione » del 1929, ha già più di dieci anni. Anni durante i quali il mondo politico e finanziario ha cercato (o forse sarebbe più politicamente scorretto dire che ha fatto finta di cercare) delle soluzioni, durante i quali la società ha tentato di sopravvivere, tra speranza e abbandono, tra ribellione rabbiosa e critica razionale. Prima che una nuova crisi, quella sanitaria, si aggungesse a un tessuto già fragile e rimettesse in causa un’intera civiltà.

La scena contemporanea italiana, che attraverso la nuova drammaturgia è spesso lo specchio della società che la genera, si è fatta portavoce di questa « crisi », con scritture e progetti molto diversi. Fra questi testi, spicca uno dei grandi successi delle scorse stagioni, Lehman Trilogy, pièce-saga di Stefano Massini, testo pluripremiato dal prestigioso Premio Ubu nel 2015, come miglior spettacolo (grazie all’ultima regia di Luca Ronconi) e come miglior testo (premi a cui se ne devono aggiungere altri come « miglior allestimento scenico » per lo scenografo Marco Rossi, e come « miglior attore » a Massimo Populizio). Lehman Trilogy immerge lo spettatore nella saga del capitalismo dall’arrivo, l’11 settembre 1844, di Henry Lehman, emigrato ebreo tedesco negli Stati Uniti dove viene accolto con un « Welcome in America. And good luck! » e il fallimento della banca Lehman Brothers, il 15 settembre 2008. La bancarotta trascina nella sua tragedia le borse mondiali e diventa il simbolo della crisi di tutto un sistema che sembra essere sfuggito al controllo di chi lo ha fondato e forse ad ogni intervento umano.

Un testo fondatore, dunque, che – se non parla direttamente del crack del XXI secolo che verso la fine – introduce nella sale teatrali il tema della « crisi », che sarà trattato in termini molto diversi, attraverso generi e toni quasi opposti. Dal primo testo dichiaratamente legato alla grande recessione, Crack Machine di Paolo Mazzarelli e Lino Musella del 2011 (premio Hystrio drammaturgia), si possono individuare diverse pièces che scelgono modelli drammatici molto diversi: la saga appunto della Lehman Trilogy di Stefano Massini, la testimonianza in 7 minuti ancora di Massini, del 2015, o il tono umoristico – è il caso di Fuorigioco di Lisa Nur Sultan –, una certa fantasia intelligente e delirante, come in Zombitudine della compagnia Frosini-Timpano, o ancora lo pseudo dialogo della performance, come in Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni della coppia artistica Deflorian-Tagliarini.

Questo studio si prefigge di analizzare due testi che, pur nella loro totale diversità, affrontano punti cruciali attraverso un approccio tematico comune: Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni della compagnia Deflorian-Tagliarini e Fuorigioco di Lisa Nur Sultan.

Due testi a confronto

Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni1 è il titolo di una pièce-performance creata dalla coppia formata da Daria Deflorian, attrice e regista teatrale, e Antonio Tagliarini, ballerino e coreografo, che dal 2008 – parallelamente con altri impegni artistici – hanno formato una compagnia e scritto e pubblicato vari testi. Lo spettacolo ha vinto il prestigioso premio Ubu 2014 nella categoria « Novità italiana o ricerca drammaturgica ».

La loro produzione è finalizzata all’analisi della relazione con la realtà, per sondare la legittimità di mostrare sulla scena le storie altrui e l’esperienza personale. Come si legge nell’introduzione di Graziano Graziani al volume edito da Titivillus: « L’intero arco del loro percorso artistico come duo si iscrive in un tentativo di parlare della realtà, facendo i conti con la distanza che l’artista – e noi con lui – ha rispetto ad essa »2.

Nel 2014 è uscita, presso l’editrice Titivillus, La Trilogia dell’invisibile, cioè: Rewind; Rzeczy/cose e Reality; Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni. Questi tre testi proposti nell’antologia sono ispirati a fatti reali o a esperienze artistiche e letterarie e i progetti-performance che ne scaturiscono sono dunque riflessioni su queste esperienze, su queste letture, condivise con i colleghi attori e successivamente col pubblico. La danza di Pina Bausch è alla base del primo testo Rewind. I diari di Janina Turek del testo Reality sono il punto di partenza per una analisi delle azioni del quotidiano e della rappresentazione della morte in scena. Infine, un’immagine del romanzo noir L’esattore (Bompiani 2012) dello scrittore greco Petros Markaris, che ambienta i suoi polizieschi sullo sfondo di una Atene in piena crisi economica, è il punto di partenza per il testo che verrà qui trattato.

Nel romanzo greco due scene rappresentano il suicidio per disperazione, gesto estremo che colpisce gli abitanti di quello che è divenuto il paese in agonia per antonomasia, riflesso e spauracchio per l’Europa in crisi; uno riguarda una giovane coppia che sceglie lo sfondo del Partenone per togliersi la vita lasciando una lettera che descrive l’impossibilità di guardare al futuro. L’altra scena, forse più straziante, vede come protagoniste quattro pensionate che decidono di uscire di scena, data la loro impossibilità di affrontare la crisi. La frase è citata nella pièce, una situazione che potrebbe sembrare grottesca, per la sua assurda caricatura, se non rappresentasse il suicidio collettivo di quattro vecchiette:

Siamo quattro pensionate, sole. Senza figli, senza un cane. Prima ci hanno ridotto le pensioni, la nostra unica entrata. Poi avevamo bisogno di un dottore per farci prescrivere le medicine, ma i dottori erano in sciopero. Quando, finalmente, siamo riuscite a prendere la prescrizione, in farmacia ci hanno detto che non danno le medicine perché la mutua è in debito e quindi avremmo dovuto pagarcele con le nostre pensioni ridotte. Allora abbiamo capito che siamo di peso allo Stato, ai medici, ai farmacisti e a tutta la società, quindi...3

A partire da questa dichiarazione, lo spettacolo performance si sviluppa attorno a qualche tema centrale e ai due possibili atteggiamenti che si possono assumere di fronte alla situazione che si sta vivendo.4

Attraverso un tutt’altro linguaggio, quello della commedia amara (mezzo estremamente efficace di mettere in luce difetti e debolezze della società e di portare alla riflessione, come illustri esempi ci hanno insegnato), il secondo testo preso in considerazione sembra affrontare le stesse problematiche, trattandole, in fondo, in un modo non poi così diverso.

Fuorigioco5 è la seconda commedia scritta dalla giovane drammaturga Lisa Nur Sultan, sceneggiatrice per la Tv e il cinema e autrice per trasmissioni di satira. Dopo il successo di Brugole (testo inedito del 2009), dove dei trentenni si confrontavano con la precarietà e la crisi di aspettative, attraverso un umorismo disperato, Lisa Nur Sultan dedica questa seconda commedia alle domande e ai dubbi dei quarantenni disillusi. Lo spunto per la trama e per una riflessione sulla società italiana contemporanea – in tempo di crisi – è la partita semifinale dei campionati europei del 20126. Quella stessa sera, Mario Monti e Angela Merkel, a Bruxelles, parlavano dell’avvenire dell’Europa. Ma l’Italia ha gli occhi su SuperMario Balottelli, per battere quella Germania che costringe l’Europa a stringere la cinghia. Il calcio come celebrazione catartica, quindi, come gesto scaramantico per non fare «la fine della Grecia», come dirà uno dei protagonisti.

Mario e Anna stanno per sistemarsi a guardare la partita, quando si accorgono che un’altra coppia, silenziosa e composta, ha scelto il cornicione vicino alla loro finestra per gettarsi nel vuoto. Su questo sfondo tragico e nazionalpopolare insieme, due coppie si affrontano sui problemi di coppia, della società, dei giovani, della religione, di Dio, del sesso... per la durata di una partita. Lisa Nur Sultan, attivando i meccanismi della commedia all’italiana – che sa ridere del tragico – invita lo spettatore alla risata e alla riflessione, a non prendere troppo sul serio le vicende e i piccoli difetti del quotidiano, per dedicare più attenzione a temi di fondo, collettivi e trasversali.

Anche questo testo si apre su un gesto suicida, offerto al pubblico fin dalle prime immagini.

Fuorigioco, Compagnia universitaria I Chiassosi.Regia di Jean-Claude Bastos, 2017. ©JP Montagné

Fuorigioco, Compagnia universitaria I Chiassosi.
Regia di Jean-Claude Bastos, 2017. ©JP Montagné

Fin dall’inizio, la questione del suicidio è trattata in modo comico e tragico al contempo: se la situazione è quasi burlesca nei primi minuti della pièce – per il contrasto tra la rigidità dei potenziali suicidi e l’incredulità derisoria dell’altra coppia – la mise en abîme in cui Adriano racconta la cattiveria della gente nei confronti dei suidici dei treni, sfiora il cinismo e il dramma.

Adriano [...] Se esiste l’inferno guarda, è pieno di quelli che muoiono sotto i treni.
Laura E perché?
Adriano Per le maledizioni che gli tiran dietro i pendolari!
Laura Esagerato…
Adriano Ma tu non hai idea, di cosa son capaci i pendolari. Io li ho visti. Stavo sul treno una mattina, e a un certo punto ci fermiamo. Tutti tranquilli, non è una novità. Poi però non riparte. Dopo mezz’ora ci dicono che siamo fermi perché uno si è buttato sotto, non si capisce bene se l’abbiamo schiacciato noi o il treno prima, ma comunque non si cammina perché sui binari ci sono… – vabbè –
Laura Ci siamo capiti.
Adriano Tu dovevi vederli. « Eccheccazzo, ogni giorno ce n’è uno! » « Ma perché non lo fanno la notte, che la mattina la gente deve andare a lavorare! »
Laura Dio santo…
Adriano Ti giuro. Pendolari mannari. Se gli dicevano « Venite giù a raccogliere gli organi interni così partiamo prima » questi correvano giù a pulire.7

Il fatto che questo episodio sia raccontato dall’aspirante suicida crea un effetto di straniamento: proprio perché menzionato da coloro che fanno del suicidio il baluardo della loro protesta sociale, nega allo spettatore l’empatia e concede una lettura anticatartica. E permette, infine, che lo spettatore si guardi allo specchio e cerchi – lungo tutto lo spettacolo – di posizionarsi rispetto ad una scelta, ad un atteggiamento.

Ecco allora che viene spontaneo riflettere su questi approcci apparentemente opposti, attraverso l’analisi di questi due testi, per mettere in luce come viene rappresentata la società, tra chi abbandona e chi resta, tra chi protesta e chi si accomoda a una situazione così drammatica.

Prima di proseguire all’analisi, mi sembra pertinente ricorrere al testo di presentazione di un’altra pièce già citata, Zombitudine, della compagnia Timpano-Frosini, nota per la graffiante critica sociale e il tono politicamente scorretto del loro teatro performativo. Daniele Timpano spiega così la situazione iniziale del loro spettacolo:

Un uomo e una donna sono rifugiati in un teatro insieme al pubblico. In questo spazio di illusoria salvezza e resistenza attendono l'arrivo di qualcuno o qualcosa: la fine del mondo? Un nuovo inizio? La Rivoluzione? Forse arrivano gli Zombi.
Gli Zombi siamo noi. La Zombitudine è la nostra condizione quotidiana. Stretti tra l’emergenza di un evento imminente e devastante e una quotidianità claustrofobica si fa fatica a riconoscere il pericolo o la salvezza: la vita da assediati è divenuta normalità. Quella dello Zombi allora è l’immagine della nostra fine, ma è anche un'immagine di speranza, l’unica prospettiva di rinascita, l’unica forma di vita alternativa al dominio di banche, finanza e multinazionali. L’unico Risorgimento possibile per noi e il nostro Paese è un Risorgimento Zombi. Zombi di tutto il mondo uniamoci! »8

È evidente che la « zombitudine » raccomandata è l’ultimo paradosso di una impossibilità di scelta, è il grido disperato e provocatorio di chi constata come Renato Palazzi su Il Sole 24 ore che

[…] pare essere una condizione non solo condivisa da tutti, ma necessaria. Massifica, omologa, lobotomizza tutti indistintamente, inesorabilmente, non si sfugge [...] Ogni tentativo di rivolta è inutile, si risolve in un buco nell’acqua.9

Ogni tentativo di rivolta trova infatti un muro contro cui scontrarsi, sia esso il fattore economico, la fragilità politica, la negligenza con cui vengono trattati i problemi sociali e cittadini. Qui forse i due significati principali di crisi – « stato di perturbazione di un individuo o di un gruppo », ma anche « stato morboso e fenomeno fisiologico » – si incontrano, per mettere in evidenza come questa situazione sia lo specchio di una società malata.

La tentazione dell’abbandono: il gesto teatrale e il gesto politico

Il gesto centrale, il motore dell’azione drammatica delle due pièces è dunque il suicidio. Un tentativo di suicidio, in Fuorigioco, che riprende il gesto topico, legato alla simbologia della Grande Depressione e al crac borsistico del 1929, ripreso poi per la crisi del 2008: il salto nel vuoto. La folla di aspiranti suicidi che salivano sul tetto del palazzo della borsa di Wall Street a New York è probabilmente un mito, tramandato non senza una punta di cinismo; si racconta infatti che si organizzassero appuntamenti a Manhattan per assistere al salto dei banchieri falliti. Un mito che è stato messo in scena da umoristi e fumettisti. In realtà, si è certi che i suicidi per defenestrazione sono stati pochissimi. Si dice anche, però (e in queste dicerie si può sondare la forza del mito) che Winston Churchill, che si trovava a New York nel momento del crack borsistico, descriveva, al Daily Telegraph, come un gentleman si fosse buttato dal 15° piano e fosse stato ridotto in pezzi sotto la sua finestra.

In Fuorigioco, la situazione drammatica, il suicidio di Adriano e Laura, è annunciata da subito, come un’evidenza. Notiamo, infatti, che lo spettatore non sa come Adriano e Laura siano saliti sul cornicione del palazzo: sono lì, semplicemente, come se ci fossero stati da sempre, come degli emblemi di una società che rifiuta, che non ha vie di scampo, che trova una contro-verità a tutte le opinioni e a tutti i consigli per trovare una soluzione.

Se il tema del suicidio è qui trattato in modo umoristico, rimane però un’immagine forte per lo spettatore, perché è sempre presente, simulato per un istante, evocato lungo tutta la commedia, presentato come la sola soluzione dopo l’eliminazione dell’indignazione organizzata (è l’epoca degli indignados e delle proteste in piazza), una conseguenza della vergogna e della tristezza profonda dei personaggi.

Adriano – il filosofo depresso – presenta una serie di riflessioni tutte volte a giustificare il suo gesto: le ragioni sono multiple, collettive e personali. Di volta in volta, sollecitato dalle richieste degli altri personaggi, si difende con argomenti al limite della contraddizione: « È un discorso talmente lungo che mi viene mal di testa solo all’idea di rifarlo. Diciamo che ci buttiamo per non pensarci più »10 o ancora: « Davvero, è penoso parlarne… e diventa pure retorico, sono le solite cose che potete immaginare… Ve lo dico in una parola, e poi non diciamo altro: la CRISI »11.

Se l’atto militante della lotta degli indignados non tenta Laura e Adriano, è perché hanno rinunciato a lottare. Il loro gesto, però, rimane un gesto politico – è almeno quello che credono – perché le giustificazioni che propongono hanno come punto di partenza la situazione sociale.

Laura Non stiamo cercando soluzioni! Siamo arrivati al limite, non vogliamo sapere « cosa succede domani ». Non vogliamo essere complici del disastro.12

Man mano che la loro vicenda si svolge sotto gli occhi dello spettatore, si capirà, invece, che il loro gesto è meno politico di quanto vorrebbero, e che la forza di lottare è stata assorbita nel buco nero della loro crisi di coppia13. Solo alla fine, forse, si intuisce il vero motivo – personalissimo – che li spinge al gesto fatidico:

Adriano Io sono ingabbiato nella mia «fortuna», perché so che se ne vengo fuori, fuori non c’è niente. E sono solo. Perché lo so che pochi mi capiscono. Se domani mi licenzio e tra un anno sono ancora a spasso tutti mi diranno che sono stato un coglione. Per cui, me lo dico da solo, chiudo subito i giochi e buonanotte ai suonatori.14

Questo diventa molto chiaro quando Laura parla dell’ultimo gesto che ha compiuto: la distruzione del computer (gesto di abbandono, di rinuncia), subito equilibrato dall’invio delle sue lettere ai giornali.

In Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni della compagnia Deflorian-Tagliarini la tentazione dell’abbandono è l’oggetto di una mise en abîme tra quel che è raccontato e quel che è rappresentato sulla scena. La difficoltà di parlare della morte, della rinuncia, diventa impossibilità di creare una parola teatrale a partire da una finzione tragica. La pièce inizia così:

Daria Non siamo pronti.
Non è una questione di ritardo, dieci minuti, un problema tecnico…
Pensavamo di non farlo.
(guardano il pubblico)
Non è che non abbiamo lavorato, anzi probabilmente il problema è stato proprio questo: ci siamo persi in un meccanismo mentale fortissimo e (guardando lo spazio) non abbiamo trovato un’azione. Quindi.... 15

Questo « meccanismo fortissimo » di riflessione è identico a quello dei due suicidi di Fuorigioco: anche loro si sono persi in una spirale razionale e cosciente che, come dice Laura, li porta a una impasse: « Ci siamo messi in un vicolo cieco, abbiamo tutte le risposte e vanno tutte contro un muro. A cosa è servito essere più “sensibili”, più onesti, più intelligenti… se ti fa vivere così? ».16

Nel 2013 Graziani presentava la strategia estetica della compagnia in questi termini :

[…] il nuovo lavoro di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini in collaborazione qui con Monica Piseddu e Valentino Villa. Anzi, che « non parte », perché lo spettacolo inizia con l’ammissione di un fallimento: l’impossibilità di mettere in scena questa storia, che anche se inventata (è tratta dall’incipit di un romanzo giallo di Petros Markaris) tratteggia in modo incredibilmente preciso il nodo di disperazione che si avvita nelle biografie dei cittadini più poveri dell’Europa erosa dalla crisi economica. Di quel « vero », sembrano dire i quattro attori, non si può parlare. Non lo si può fare con i mezzi dello spettacolo, cercando di costruire il drammatico attraverso il retorico, cercando la celebrazione nella scontata adesione « politica » del pubblico, nei meccanismi di un dramma che essendo confratello della nostra attuale condizione – l’Italia finirà come la Grecia? – non può che far leva sulle nostre insicurezze quotidiane. […] 17

Valentino Villa, Monica Piseddu, Antonio Tagliarini e Daria Deflorian. ©Futura Tittiferrante

Valentino Villa, Monica Piseddu, Antonio Tagliarini e Daria Deflorian. ©Futura Tittiferrante

La rinuncia che l’attrice Daria Deflorian esprime davanti al pubblico è un gioco di finzione, una retractatio, che si rivela essere il perno attorno al quale si costruisce tutta la performance: a partire da questa dichiarazione di fallimento nasce la riflessione sull’impossibilità di parlare della morte volontaria delle quattro pensionate greche, ma anche di parlare della crisi in generale; i quattro attori (che non hanno nomi di personaggi, situandosi così tra finzione e verità), si ritrovano a raccontare la loro vita, la loro crisi. È Daria che comincia – in una zona di frontiera che è ancora finzione:

Non mi va di trovare la responsabilità, quella maledetta responsabilità per cui devi sempre trovare una soluzione. Ce la devi sempre fare, ti devi tirare su. Io non ce la faccio, basta. È una tale liberazione, un tale senso di liberazione.18

E ancora una volta, salta agli occhi il parallelismo con Fuorigioco, quando Laura e Adriano pensano che il loro gesto li libererà. Solo alla fine della pièce si capirà che « buttarsi non è una soluzione ».

Il passaggio tra il pretesto drammatico, la finzione e la realtà personale – e quindi il passaggio tra il racconto e la performance – è effettuato da Monica, che parla apertamente e chiaramente della sua vita di attrice:

Come ho fatto a non pensarci prima, a non prevedere tutto questo, come ho fatto ad arrivare a questo punto senza un margine, un margine di sicurezza, niente? Ma tra dieci anni che faccio, a 60, 70 anni cosa faccio? Adesso è già tardi, devo fare uno sforzo tutti i giorni, tutti i giorni io mi devo sforzare... 19

È a questo momento che viene annunciato il problema del gesto politico: « Ma non è questo, io posso fare anche lei che muore, ma che cosa ci risolve? La questione è un’altra, è molto più ampia, come lo rendo questo gesto politico? ». Un gesto politico che non ha forse lo stesso impatto di quello di Jan Palach a Praga nel 1969, come notano i personaggi, perché, innanzi tutto, la rinuncia a recitare il suicidio non può essere considerata un gesto così forte, così significativo, ma anche perché la situazione è cambiata e che il suicidio di quattro pensionate greche può passare sotto silenzio, può non essere rivoluzionario. Ma questo gesto, che diventa anche quello dei quattro artisti che lo portano in scena e decidono di parlarne, è innanzi tutto il gesto di resitenza al mondo attuale, al capitalismo, al cinismo, alla stupidità, alla crisi.

La finzione di Markaris diventa realtà in Italia (ritessendo quel filo della paura che la situazione greca ha generato), con il suicidio collettivo di quattro pensionati di Macerata, che si dichiarano « morti per debiti ». Il gesto, che esce dalla finzione, che diventa vero, è legittimamente possibile in scena? È quel che in fondo domandano i performer a se stessi e al pubblico:

E questo non è più un romanzo, questa non è più un’immagine.
E noi cosa ci mettiamo a fare?
I cinque minuti dopo che hanno preso i sonniferi?
La responsabilità del gesto. La potenza del no. Il simbolo.
Ma che rischiamo di dire, che togliersi la vita è anche un diritto?
Una porta che puoi aprire nello spazio soffocante della cupa disperazione. Quando ti hanno tolto tutto tu puoi scegliere? No.20

Ecco allora che la scelta del gesto politico diventa una « non scelta », per cui si può rimettere in discussione la libertà dell’abbandono, come si può rimettere in discussione il gesto teatrale di rappresentarlo.

Gesto, decisione, disperazione… in entrambi i testi, a un certo punto, si pone la questione della fondatezza, della giustezza di questo atteggiamento. Di fronte alla fermezza iniziale, a poco a poco, si insinua il dubbio.

In Fuorigioco è il personaggio di Adriano, che per primo esprime questi interrogativi, dopo aver analizzato la propria situazione:

Adriano No Anna, Mario ha ragione. Quello che dice è vero. Lo capisco, lo penserei anch’io. Ma non posso vergognarmi di essere infelice. Posso vergognarmi di essere l’unico delle persone a cui tengo che guadagna bene. E infatti me ne vergogno. Che guadagna bene facendo cose stupide. E me ne vergogno. Ma se da tutta questa vergogna nasce la mia infelicità, bè… ormai c’è e non posso farci niente.

Nel testo Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni ci sono vari momenti in cui viene sollevato lo stesso interrogativo, spesso direttamente rivolto al pubblico, alla frontiera tra finzione e realtà:

[Si avvicina al pubblico guardandolo.]
Ma uno può essere disperato o se ne deve per forza vergognare?
Lo so, lo so benissimo che è una cosa che uno dovrebbe fare a casa sua senza che nessuno ti vede.
Poi in teatro... il teatro è l’ultimo dei posti dove uno può essere disperato, non si fa, non si usa più.
Ma posso essere disperato? Posso?
Posso starmene qui fermo davanti a voi, un’ora senza fare niente? Posso?21

Si rivendica ancora il diritto di dire no, alla crisi, al mondo, alla vita. Ma questa dichiarazione di libertà di scelta genera un sentimento profondo di imbarazzo, che nasce dal confronto con l’atteggiamento opposto, quello di coloro che, lucidi ma meno intransigenti, scelgono di affrontare la situazione, di andare avanti, di accontentarsi.

Accontentarsi di quello che si ha: un gesto da condannare?

Nel testo di Deflorian-Tagliarini, l’atteggiamento dell’opposizione viene presentato all’inizio come giusto. Il coraggio di « dire no », ma soprattutto l’importanza di dire no sono contrapposti alla postura ormai troppo diffusa nella società, la posizione della rinuncia, che finisce col trasformarsi in passività. All’inizio della pièce-performance, si rivolgono al pubblico con una domanda diretta:

Anche perché se abbiamo capito una cosa in questo periodo è l’importanza di dire no.
Si può dire no.
C’è una potenza nel negarsi, nel no.
Che cos’è tutto questo accontentarsi? 22

A questo punto si instaura un gioco drammatico, metateatrale, che a partire dall’annuncio di non voler presentare uno spettacolo « non completamente pronto », scaturisce nel discorso soggiacente più universale e collettivo, sul « non accontentarsi » di quello che si ha.

Atteggiamento che viene, in un certo senso, contraddetto immediatamente dall’azione scenica. La frase dell’incipit, che mette in scena la rinuncia a parlare della protesta silenziosa e piena di dignità delle pensionate, viene smentita da tutti i dialoghi che seguono e che – pur sottolineando la volontà di non fare lo spettacolo – raccontano storie, sollevano polemiche, domandano risposte. Dice Daria:

Lo so, lo so che mi sto contraddicendo, perché dico che non lo facciamo e intanto la tentazione di costruire qualcosa...
Sì, che ce ne siamo accorti, è molto difficile dire no.23

Da questa difficoltà a prendere posizione nasce la contraddizione, che mette in luce il processo creativo che sottende allo spettacolo. Come dice Attilio Scarpellini, in un breve ma utilissimo saggio critico presente nell’edizione italiana:

[...] dire « no » sulla scena significa tornare sul rifiuto originario della rappresentazione e sull’immagine impossibile che lo genera, ribadire che non c’è forma, parola o gesto che siano o saranno in grado di aderire pienamente all’immagine, di sciogliere la distanza che in essa continuamente si ricrea tra la presenza e la rappresentazione [...].24

Nello stesso tempo, la società, quella che si limita alla superficie, che si autocensura per una ormai rodata propensione al cinismo e al disfattismo, è qui accusata di mediocrità e qualunquismo.

Ci abituano: ma dai su, anche se non sei pronto fallo lo stesso, tanto nessuno se ne accorge, è tutto uguale.
E invece no.
No. Noi non ci vogliamo accontentare.25

La tensione che si crea è sottolineata da Giulio Sonno, che mette in risalto la portata universale delle domande che vengono poste :

Ed è proprio da questa continua tensione tra azione e rinuncia che lo spettacolo prende forma e profondità: un movimento impercettibile che porta avanti la non-narrazione attraverso una doppia trazione di spinte centrifughe – abbandonare la scena – e centripete – pur abitarla –. Come nel racconto così nella scena, perché appunto tale è la vita. Ma non si tratta di una denuncia politica, la crisi economica con la sua scia di rovine e morti silenziose non è che un solvente di un artificio più grande. Lo spettacolo di Deflorian-Tagliarini infatti ha un respiro universale, e con estrema sensibilità e intelligenza – magistralmente dissimulate – incarna per l'appunto una questione che attanaglia, da sempre, ogni individuo abbandonato (d)alla vita: perché devo chiedere il diritto di esserci anch'io a questo mondo? […] Prezioso, ironico e intenso, Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni è questo grido, è la sua ragione, è la necessità trattenuta eppure sospirata di manifestare il diritto di esserci.26

Ed ecco che la riflessione sulla crisi sfocia a poco a poco in un interrogativo più profondo, che riguarda il potere della parola (la parola teatrale, ma anche la parola tout court).

Se si continua l’esercizio di parallelismi, in Fuorigioco si trova un giudizio simile, profondamente severo, proferito sempre all’inizio del testo (quasi come un manifesto) dalla coppia di suicidi, Adriano e Laura:

Adriano Ma lo so, lo immagino, ma noi non siamo persone da « Mal comune mezzo gaudio ».
Laura « Mal comune mezzo gaudio », diciamocelo, è un po’ il proverbio degli stronzi! Che starebbero male, ma a vedere che stanno male anche gli altri, si tirano un po’ su di morale.
Anna Adesso, messa così…
Adriano Invece per noi è proprio il contrario. Quando vedi che tutti attorno a te stanno male, ti deprimi di più, un po’ perché soffri con loro, un po’ perché ti passa anche la speranza di poter stare meglio. Ci vorrebbe un miracolo collettivo, ma purtroppo non crediamo ai miracoli…27

Coloro che si accontentano, che accettano la situazione o almeno tentano di sopravvivere all’interno degli schemi proposti dalla società sono il bersaglio di critiche aspre, perché sono considerati meno coraggiosi, meno integri, meno coerenti. E, come detto, più mediocri. In una specie di slancio eroico, i ribelli si staccano dal sistema e considerano il loro gesto l’unico degno di essere proposto.

Fuorigioco di Lisa Nur Sultan. Progetto e regia di Emiliano Masala con Giampiero Judica, Elisa Lucarelli, Emiliano Masala, Francesca Porrini ©Manuela Giusto

Fuorigioco di Lisa Nur Sultan. Progetto e regia di Emiliano Masala con Giampiero Judica, Elisa Lucarelli, Emiliano Masala, Francesca Porrini ©Manuela Giusto

La situazione drammatica interroga, d’altra parte, lo spettatore, senza adottare una posizione, ma suggerendo i pregi e i difetti di ogni punto di vista. Fin dall’inizio della pièce, Mario si fa portavoce di coloro che « si adattano alla soluzione » o forse che non vedono nemmeno come potrebbero ribellarsi alla loro condizione (per mancanza di mezzi economici, mezzi intellettuali o forse solo di modelli), e i suoi discorsi sono pieni di luoghi comuni, dettati da una vox populi (che con un po’ di cinismo potremmo definire vox autoritatis) che ci vuol far credere alle possibilità, alle scelte, alle speranze possibili. Mario cerca, con la sua dialettica tentennante e dal suo punto di vista, di far capire – ai suicidi o al pubblico? – che la morte per protesta « non è una soluzione », che « si deve essere più forti degli altri », che l’accettare la realtà è quello che di meglio la vita ci riserva. Solo che Mario lo fa adducendo esempi troppo logori come quello della « vecchia barbona sotto al ponte », che gli fanno assumere una posizione buonista, molto ingenua e priva di razionalità. E Mario si sveglierà da questa « positività insopportabile » (come dice Antonio in Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni) quando l’accontentarsi non riguarda più il mal comune ma la sua vita di coppia, quando si rende conto che è stato il sostituto al sogno più grande della moglie:

Mario Che allora niente ha un senso Anna, se ci sono, se non ci sono. Tu hai deciso di essere felice con quello che la vita ti dà. Qualunque cosa sia.
Anna E dov’è lo sbagliato?
Mario È tutto sbagliato, tutto.
Anna Dovrei fare come loro, che si impongono di soffrire perché non hanno « la perfezione »?
Mario Dovresti credere che questo sia il meglio che ti potesse capitare…
Anna Addirittura?
Mario Sì addirittura.
Anna Non pretendi un po’ troppo?
Mario Io non voglio che ti accontenti.
Anna È una cosa sbagliata? Accontentarsi è una cosa sbagliata?
Mario È una cosa brutta.
Anna Ne sei sicuro?
Anna O forse il trucco è solo non dirselo?

Tuttavia, si capisce presto – e questo in entrambi i testi – che non ci si trova di fronte a un bivio, a una vera scelta etica, ma piuttosto a due rinunce parallele: la rinuncia eclatante e senza appello dei radical chic di Fuorigioco viene contrapposta alla vera rinuncia a lottare di chi si accontenta, di chi entra nel sistema, di chi vede passare la sua vita attraverso un setaccio (come il personaggio di Mario confessa sul cornicione) senza sapere perché alcune cose passano ed altre restano. E di fronte a due rinunce, che sono anche due mezzi di lottare – uno di lotta protestataria che porta all’autodistruzione cosciente e l’altra di lotta nel quotidiano, più meschina, ma più umana – non viene fornita la soluzione, non viene concessa, né a una categoria né a un’altra, un’assoluzione.

Il gesto finale: che possibilità?

L’abbandono di cui si parla (della lotta, della vita, della speranza) è espresso, nella scrittura drammatica, attraverso la creazione di personaggi « concavi », o come si direbbe in francese en creux. Entrambi i testi, in modo molto diverso, mettono in luce contraddizioni e dubbi, sottolineando quella tentazione dell’abbandono (della vita, del gesto politico, del gesto teatrale) che viene considerato oramai inutile.

Sospesi (letteralmente) al sesto piano di un palazzo, Laura e Adriano di Fuorigioco elencano tutto ciò a cui hanno rinunciato, per snobismo o forse solo a causa del vuoto che li abita in quanto coppia: essi sono « vuoti » di progetti, non hanno figli, non fanno più sesso, nessuna prospettiva lavorativa li seduce più, vivono lontano dagli altri e considerano l’entusiasmo o lo slancio di massa – legati alla televisione, al calcio, alla lotta collettiva – come una mancanza, un difetto, un elemento, appunto, « in negativo ».

Tutto suona ormai perduto nelle loro parole, perché il loro discorso è ipercritico per anticipazione:

Mario Ora, io capisco che voi siate anche giustamente indignati…
Laura Ma noi non siamo indignati, siamo proprio incazzati neri.
Mario Ma allora perché non vi unite ai movimenti in piazza?
Laura Co’ le tende? Dai su’, c’abbiamo un’età. Ti giuro: mi fa meno fatica buttarmi di sotto.28

Rappresentanti di una classe sociale agiata, colti, i due aspiranti suicidi bobo scaricano la responsabilità del loro malessere sulla crisi morale e intellettuale della società, perché l’errore non può essere che collettivo. Non si prendono quindi la responsabilità di aver contribuito alla crisi, alla loro crisi. Sono messi a confronto con le ristrettezze economiche dell’altra coppia, con la loro mentalità terra e terra (costruita su luoghi comuni, ma in fondo anche sul buon senso), con il loro accontentarsi ad ogni costo. La vox populi è rappresentata sulla scena dalla televisione, attraverso la ripetizione degli slogan di reality show fra i più biechi, ma anche attraverso la voce in diretta dell’altro spettacolo nazionalpopolare per eccellenza: il calcio. La partita che scandisce i 90 minuti dello spettacolo è al contempo la voce della realtà, della società, che la si accetti o che la si neghi.

Adriano e Laura non riusciranno a sormontare la crisi se non separandosi e rinunciando al suicidio. Il gesto finale è quindi quello della rinuncia, un gesto in negativo, scandito da una frase che, benché chiara nella sua constatazione, resta volontariamente ambigua:

[La luce illumina tutti e quattro. Non sono più due coppie, sono quattro individui soli.
90esimo minuto. Il boato esplode nei palazzi vicini. Le strade si riempiono di caroselli di macchine e gente che festeggia.
L’Italia è in finale.
]
Laura Abbiamo vinto.29

Che cosa significa quell’« Abbiamo vinto »? Sicuramente non fa solo riferimento alla vittoria della nazionale italiana, benché – come sosteneva Mario – in quella vittoria ci sia per molti il simulacro del riscatto dell’Italia in piena crisi economica di fronte allo sguardo riprobatore dell’Europa. Laura ha vinto perché non si è suicidata, perché non ha ceduto alla tentazione? O solo semplicemente perché ha capito che la grande crisi era solo una facciata di fronte alla piccola crisi di coppia? Ma forse la domanda più importante resta: a chi è rivolto? Forse si è di fronte all’unico momento in cui, in questo testo con scelte estetiche classiche, la quarta parete si spezza, per creare un inizio di dialogo col pubblico. Lo si può interpretare come un appello alla riflessione, come lasciano presagire le parole che si leggono nella scheda di presentazione dello spettacolo:

E la domanda è sempre quella: accontentarsi è una cosa sbagliata? O è l’unica salvezza?
E allora perché quest’ansia non ci lascia mai?
Non abbiamo risposte, ma intanto, per renderla più accettabile, l’abbiamo raccontata ridendo.
30

Come sottolinea Laura Bevione, in un articolo apparso su Hystrio, dietro l’ironia del testo si cela una vera domanda esistenziale che non può lasciare indifferenti.

Lo snobismo di Adriano, la frustrazione letteraria di Laura, la concretezza di Mario e il pragmatismo sentimentale di sua moglie deflagrano e, al termine della partita trionfalmente vinta dall’Italia, li convincono a scelte esistenziali non previste e che il pubblico può soltanto immaginare. Un finale aperto e tuttavia coerente con uno spettacolo che mira – pur con amabilità e ironia – a decostruire e seminare dubbi, minare sicurezze e luoghi comuni tanto radicati da travestirsi da verità. Così, alla fine, il nostro buon senso, la nostra ragionevolezza informata e politicamente corretta non ci appaiono più in una luce netta bensì contornati da ombre insinuanti.31

Il teatro della compagnia Deflorian-Tagliarini si costruisce, d’altra parte, intorno all’assenza, o meglio alla sfida della rappresentazione dell’assenza. Attilio Scarpellini ricorda :

È afferrando, mancando, plasmando, figurando lo spazio vuoto dell’oggetto che il teatro di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini si è costruito nel tempo [...] nella volontà di restituire alla presenza puntuale della scena non la totalità di quel che c’è (il reale, il sensibile, l’evento) ma la contraddizione di quello che non c’è e che, per definizione, non può essere rappresentato.32

In Ce ne andiamo per non dare altre preoccupazioni, che si apre appunto su una dichiarazione di rinuncia, « la preparazione della morte che è forse l’unica azione presente »33 è messa in scena alla fine, attraverso il buio, la rinuncia all’immagine. La morte che è di fatto quello che non c’è e che il teatro non può rappresentare, viene qui concretizzata con la dichiarazione del « salto nel buio » e con la scomparsa, a vista, della scenografia e degli attori che ne hanno parlato, tra digressioni, aneddoti, autobiografia, per tutto lo spettacolo.

Ci vorrebbe un salto nel buio.
Ma basta che uno lo pensi e già non succede più, bruciato anche il salto nel buio.
Bruciato.
Come si esce da una crisi?
Qualcuno dice che dobbiamo avere il coraggio di chiudere.
Con il neoliberalismo.
Coi consumi.
Chiudere.
Con le carte di credito, di debito.
Chiudere.
Con questa falsa idea di progresso.
Chiudere.
Va bene.
Proviamo.
Chiudiamo.
[...]

Tutti e quattro fissano a lungo il pubblico.
Valentino poi si alza e va a prendere delle stoffe con le quali rende nera una prima sedia, gli altri lo seguono e vestono di nero sedie, tavolo, bicchieri, la bottiglia, le carte di identità, il barattolo dei sonniferi
.34

©Gabriele Zanon

©Gabriele Zanon

A poco a poco, gli attori si vestiranno tutti di nero, indossando un cappuccio per scomparire completamente. L’ultima immagine dello spettacolo, « un fermo immagine in cui tutto è nero »35, è una presenza-assenza molto forte, che lascia risuonare nello spettatore le domande che gli attori hanno fatto al pubblico, sull’impegno, sull’atteggiamento da assumere, sulla forza o la debolezza del gesto.

L’impatto che questa immagine ha sul pubblico viene così descritta da Giuseppe di Stefano:

Ed è bellissima la sequenza finale che inghiotte nel buio oggetti e persone, ricoprendo i primi con un panno nero che li riveste nella forma. Tutto scompare nell’oscurità, come poco prima aveva fatto Tagliarini vestito totalmente di nero fin nel viso e indietreggiando sul fondo. Tutto viene annullato. Rimane solo ciò che abbiamo immaginato. Che abbiamo pensato. Che abbiamo creduto. 36

I testi analizzati non danno, evidentemente, nessuna risposta a queste domande. Allo spettatore sta il compito non di decidere – nessuno dei due testi glielo richiede – ma di riflettere sugli avvenimenti e sulle condizioni creati dalla nostra società. Il fatto di mettere sulla scena, in modo grottesco o in maniera più sussurrata, ma in ogni caso in tono polemico degli eventi che forse si sono letti nelle pagine di cronaca dei giornali, li amplifica, perché li rende ancora più reali. E il pubblico non potrà che prenderne atto e cercare di crearsi una propria posizione, oltre il buonismo o l’atteggiamento scandalizzato, quei filtri che la stampa e la politica mettono tra il vissuto e il narrato e che impediscono, nella quotidianità, di fermarsi a riflettere su quello che questi atti hanno voluto dire.

Note de fin

1 D. Deflorian-A. Tagliarini, La trilogia dell’invisibile, Teatrino di Fondi/ Titivillus Mostre Editoria, Corazzano (Pisa), 2014.

2 G. Graziani, « Evocare l’invisibile », introduzione a D. Deflorian-A.Tagliarini, op. cit, p. 6.

3 D. Deflorian-A. Tagliarini, Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, in La trilogia dell’invisibile, op. cit., p. 89.

4 Lo spettacolo ha debuttato il 7 novembre 2013, al Teatro Palladium, Festival Romaeuropa, Roma. Oltre ai due autori, in scena Monica Piseddu e Valentino Villa.

5 Lisa Nur Sultan, Fuorigioco/Hors-Jeu, traduction de F. Sicamois et S. Resche, Collection « Nouvelles.scènes – Italien », Presses Universitaires du Midi, Toulouse, 2017.

6 Rimandiamo, per altri particolari, a « Fuori gioco, ossia fuori dal gioco », l’intervista alla drammaturga presente in questo stesso dossier. Lo spettacolo è stato presentato al Teatro Orologio nel 2015, con la regia di Emiliano Masala e con Giampiero Judica, Elisa Lucarelli, Emiliano Masala, Francesca Porrini, produzione Proxima Res.

7 Lisa Nur Sultan, op. cit., p. 42, 44.

8 http://danieletimpano.blogspot.com/p/zombitudine.html (consultato il 20/01/21)

9 Renato Palazzi, L’Italiano medio è un morto vivente, 8/12/2013, Il Sole24Ore, https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-12-08/l-italiano-medio-e-morto-vivente-085210.shtml?uuid=ABdwBhi (consultato il 20/01/21)

10 L. N. Sultan, op. cit., p. 56.

11 Ibidem, p. 58.

12 Ibidem, p. 62.

13 Per più ampie informazioni sulla genesi della commedia Fuorigioco, si rimanda all’intervista all’autrice, in questo stesso dossier .

14 Ibidem, p. 84.

15 D. Deflorian-A. Tagliarini, op. cit., p. 87.

16 L. N. Sultan, op. cit., p. 120.

17 Graziano Graziani, http://grazianograziani.wordpress.com/2013/11/16/la-crisi-che-non-si-puo-tacere-e-nonsi-puo-raccontare-lultimo-lavoro-di-deflorian-tagliarini/ 16 novembre 2013 (consultato il 20/01/21)

18 D. Deflorian-A. Tagliarini, op. cit., p. 91.

19 Ibidem, p. 93.

20 Ibidem, p. 105.

21 Ibidem, p. 105.

22 Ibidem, p. 87.

23 D. Deflorian-A. Tagliarini, op. cit., p. 88.

24 A. Scarpellini, « Rappresentare malgrado tutto. Il teatro di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini », in D. Deflorian-A. Tagliarini, op. cit., p. 150.

25 Ibidem, p. 88.

26 Giulio Sonno, sulla rivista on-line di informazione culturale Paper Street, http://www.paperstreet.it/cs/leggi/5035- Ce_ne_andiamo_per_non_darvi_altre_preoccupazioni_-_DeflorianTagliarini.html 4/11/2014 (consultato il 20/01/21).

27 L. N. Sultan, op. cit, p. 58.

28 Ibidem, p. 60.

29 Ibidem, p. 126.

30 L. N. Sultan, scheda di presentazione dello spettacolo, per gentile concessione della drammaturga.

31 Laura Bevione, Kilowatt, l’energia delle buone idee per uscire dalla crisi, Hystrio, 2015.

32 A. Scarpellini, op. cit., p. 144.

33 Ibidem, p. 151.

34 D. Deflorian-A. Tagliarini, op. cit., p. 107.

35 Ibidem, p. 111.

36 Giuseppe Di Stefano, 9/11/2013 http://www.defloriantagliarini.eu/ce-ne-andiamo-per-non-darvi-altre-preoccupazioni/ (consultato il 20/01/21)

Illustrations

Citer cet article

Référence électronique

Antonella Capra, « La tentazione dell’abbandono », Line@editoriale [En ligne], 9 | 2017, mis en ligne le 06 février 2024, consulté le 27 avril 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/1422

Auteur

Antonella Capra

Il Laboratorio (EA4590 Toulouse Jean Jaurès)

antocapra@yahoo.fr

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