Nella primavera del 2019 venni a conoscenza di un annuncio per un convegno organizzato sul tema della domesticità. E immediatamente pensai alle badanti, figura centrale della società italiana degli ultimi trent’anni e di conseguenza molto presente in vari testi di teatro contemporaneo che avevo avuto l’occasione di leggere o studiare.
Le badanti rappresentano in modo lampante la situazione dell’Italia, ne sono lo specchio e la conseguenza. La società italiana contemporanea si trova in effetti segnata non solo dalla crisi economica, forte ma in fin dei conti piuttosto recente, ma anche da una crisi della natività ben più radicata che si può far risalire agli inizi degli anni ’80. Sono infatti lontani i tempi dell’ultimo baby boom italiano e le istantanee di genitori in fila tutta la notte davanti alle scuole per poter assicurare ai propri figli un posto sui banchi delle elementari1. Si assiste ormai a una stasi delle nascite se non a una vera e propria diminuzione, dovuta a vari fattori tutti legati all’universo femminile, come la diminuzione della popolazione femmina, la precarietà dell’impiego, l’étà matura di concepimento2. La realtà della donna italiana è cambiata rispetto all’immagine stereotipata della « mamma » tradizionale: non per forza una yuppy in carriera, ma una donna che lavora e che subisce pesantemente ancora il diktat della scelta tra lavoro e figli. Questa situazione ha portato nel 2016 a una campagna pubblicitaria promossa dal Ministero della Salute (e vivamente criticata), chiamata « Fertility Day »3, che suonò come un appello maldestro e disperato.
Questa peculiarità della natività italiana, fa sì che, da decenni ormai, le persone anziane sono quindi più numerose dei bambini che nascono. Inoltre, la nuova cellula familiare non può occuparsi delle persone dipendenti e le infrastrutture non possono coprire tutte le esigenze delle famiglie: è in questo circolo vizioso che si è creata la figura della badante.
Il termine « badante » come viene inteso oggi, è una restrizione del termine già esistente e che significa (o significava, vien voglia di dire) « sorvegliante »4, come specificato dall’enciclopedia Treccani:
badante s. m. e f. [part. pres. di badare]. – Persona, priva di particolari qualificazioni, che accudisce anziani, malati o persone non autosufficienti.
Attestato dal 2002, il termine prima di uso burocratico entra a poco a poco nel vocabolario comune e ripassa ufficialmente nel testo della legge per la regolarizzazione del personale straniero. È una parola che ha una connotazione molto particolare, perché indica non solo un mestiere, ma anche una appartenenza geografica ridotta e uno statuto sociale in evoluzione. Da uno studio del Censis (Centro statistico italiano), si notava che nel 2013 le badanti erano ormai quasi 1,5 milioni in Italia (contro meno di 1 milione nel 2001), un numero che si considera arriverà a oltre i 2 milioni nel 2030. Le badanti hanno occupato e consolidato un posto ormai indispensabile nella società, al punto che sembra che gli italiani comincino a considerare il mestiere di badante uno sbocco professionale possibile5.
Ma chi sono le badanti? Per il 77% sono donne e in gran parte rumene, moldave, russe, quasi tutte insomma di origine e lingua slava6. Spesso di età intorno ai 30/40, partono dal loro paese d’origine, affidando spesso i figli ai nonni e vengono sole in Italia per essere assunte da un numero crescente di famiglie, in modo legale o ancora in nero7.
Nella raccolta di saggi Donne globali. Tate, colf, badanti a cura di Barbara Ehrenreich, e Arlie Russell Hochschild, si legge:
La bambinaia filippina, la collaboratrice domestica pakistana, la badante peruviana colmano il « deficit di cura » dei paesi ricchi, ma lo ricreano nel loro paese d’origine. Si tratta di un fenomeno nuovo, in cui i problemi di disuguaglianza prodotti dalla nuova economia globale si sommano alle difficoltà che le migranti incontrano nei paesi d'arrivo e alle conseguenze della loro lontananza sulla famiglia d'origine, in particolare sui figli; ma in cui emergono con prepotenza anche molti aspetti concreti e simbolici della vita quotidiana delle donne occidentali.8
Questa loro situazione personale ha un impatto molto forte sul tessuto sociale del loro paese d’origine e sulla loro stessa esistenza. In uno dei testi che verranno qui analizzati, Sindrome italiana di Lucia Calamaro, si definisce l’Italia « il paese delle badanti »; nel finale detto « diagnostico » si legge:
La ripetizione di problemi di depressione in badanti che tornavano a casa dopo aver lavorato in Italia ha convinto due psichiatri ucraini (Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych) a studiare clinicamente il fenomeno, denominandolo « Sindrome Italiana ».
La sindrome presenta: stati ansiogeni e depressivi, una profonda frattura dell’identità, accompagnata da un affievolimento del senso della maternità percepito in modo colpevole e vergognoso. Queste madri non sanno più a quale famiglia, a quale parte dell’Europa appartengano, come se un’antica armonia si fosse all’improvviso spezzata.
Nei casi più seri, le pazienti presentano comportamenti psicotici, disturbi ossessivi compulsivi, disturbi paranoidi e schizoidi e depressioni; queste, nelle forme più gravi, possono sfociare nel suicidio.
I loro figli, rimasti privi della figura genitoriale fondante, affidati a nonni, parenti o lasciati in orfanotrofio, possono ammalarsi di patologie gravissime, che forse avremmo creduto di poter riscontrare solo in persone adulte. Invece una statistica non ufficiale riferita agli ultimi anni, ed estesa a tutti i Paesi dell’est Europa, parla di decine di suicidi da parte di quelli che sono stati denominati « orfani bianchi ». Il fenomeno è in aumento.9
La badante si rivela essere dunque una figura centrale attorno a cui si concentra un problema sociale – tutto italiano – che passa le frontiere, per andare a creare, altrove, un altro problema sociale. Una crisi (quella della vecchia Italia che chiama le badanti) che genera una nuova crisi (quella degli orfani bianchi e della depressione). Una crisi che ha esasperato il razzismo sonnecchiante ancora qualche decennio fa (non inesistente, siamo chiari!, ma sonnecchiante) di una popolazione che non può fare a meno della forza lavoro straniera. Si crea in questo modo una specie di contraddizione che vede la necessità e il rifiuto dello straniero nello stesso tempo.
Il teatro contemporaneo, vetrina della società, si fa talvolta teatro politico. Non più nel senso che poteva avere negli anni ’70, con una forte connotazione ideologica e uno scopo quasi propagandistico. Se c’è impegno nel teatro contemporaneo (almeno da quello che ho potuto leggere e osservare tramite il filtro che il nostro gruppo di ricerca ha utilizzato da qualche anno, attraverso la tematica di « teatro e crisi ») si tratta di un impegno ad osservare fenomeni sociali che, per mezzo della creazione artistica, vengono messi in evidenza, tramite lo zoom creato dalla scrittura e dalla messinscena. In altre parole: elementi che viviamo ogni giorno, a cui ogni giorno passiamo accanto, che forse ci disturbano e ci interpellano, ma che sono comunque parte della nostra quotidianità e per questo esistono sullo sfondo delle nostre vite frenetiche, vengono improvvisamente messi in primo piano quando si trovano al centro della scena.
Gli autori di questi testi sono pienamente coscienti di mettere sulla scena delle situazioni che non vengono considerate fuori di essa; basta pensare alla scena finale de L’ultima casa, in cui un polemico Scarpa fa dire ai suoi attori, che hanno ormai tolto la maschera:
Gli stranieri, le badanti, i lavoratori clandestini. Non gli rivolgono neanche la parola. Finché si tratta di venire a vederli messi in scena, tutto bene. Ma se li incontrano per la strada... alla larga!10
Proprio perché significativo del tessuto sociale italiano, mi sembra di poter affermare che il fenomeno delle badanti rientra interamente nella definizione che sto cercando di dare al teatro politico contemporaneo.
I testi che si vogliono qui analizzare sono molto diversi tra loro: la loro diversità è in questo caso utile e necessaria, però, se la si utilizza come tassello per ricostruire l’immagine nella sua interezza. Ogni testo, infatti, guarda alla figura delle badanti in modo da metterne in evidenza un aspetto, un problema.
Nel 2008, Tiziano Scarpa, nella commedia L’ultima casa11 metteva in scena un gioco di specchi tra la società dei vivi e il cimitero. Scarpa definì il suo lavoro con queste parole: « L’ultima casa mette in scena la tentazione dell’Occidente di traslocare nella città dei morti »12. I personaggi appaiono volutamente stereotipati perché il drammaturgo fa leva sui clichés della nuova società multiculturale; non sorprende quindi che la prima messinscena italiana sia stata curata da una compagnia veneziana che si ispira alla commedia dell’arte, in chiave rivisitata e contemporanea e che fa uso costante della maschera. La sinossi è lineare fino al momento finale, dove tutto viene ribaltato: un operaio italiano (che non ha niente dell’operaio, come si saprà, ma ha ambizioni di architetto come il famosissimo padre con cui è in conflitto da anni) è affiancato da un operaio immigrato (che non è un immigrato, ma un giornalista che vuol fare un reportage sul lavoro mal pagato), un architetto famoso e visionario, oltre che insopportabile, che si finge paralitico è affiancato da una badante russa (che badante non è, e nemmeno russa, ma una studentessa che ha trovato solo questo stratagemma per poter avvicinare l’inavvicinabile architetto). Il tutto si svolge appunto in un cimitero, quell’ultima casa che forse dovrebbe aiutare a guardare la vita da un altro punto di vista (e infatti l’intermezzo è un inferno burlesco e crudele, che può ridare la vita ai morti, che saranno eternamente zombies).
È invece del 2013 Ferite a morte di Serena Dandini13. Ognuno dei 36 monologhi che compongono questa antologia – sul modello di Spoon River d’Edgar Lee Masters – dà la parola a una donna, morta per mano di un uomo, ma anche di un sistema. La parola post-mortem libera le donne da ogni timore e i monologhi giocano sul tono dell’ironia, del distacco, ma anche della comicità o del grottesco pur conservando tutta la tragicità delle storie raccontate. Il titolo del monologo nel quale appare la figura della badante è « ’Na sera ’e maggio »: catapultata in una casa napoletana e nella vita di un vecchio da accudire, la protagonista sarà vittima della gelosia del figlio dell’anziano. Anche in questo caso, la prospettiva è originale e permette non solo di dare la parola a queste figure domestiche, ma di porre il pubblico in una posizione di distacco, che dà la possibilità di vedere altro rispetto alla quotidianità delle situazioni e di ripensare diversamente anche i rapporti sociali.
Il testo più recente è quello di Lucia Calamaro, Sindrome italiana, che è andato in scena per la prima volta nel 201814 e che non è ancora pubblicato. Un lavoro collettivo, voluto da tre attrici e scritto da una donna che, ancora una volta, ribalta le prospettive: qui, dopo un lungo prologo in cui viene raccontata la situazione italiana, tre donne italiane decidono di mettersi nei panni delle donne e madri che lasciano il paese d’origine per un lavoro lontano e ingrato. Non lo fanno per una ricerca etnografica, ma bensì perché il lavoro delle badanti è il solo che viene proposto a donne che hanno passato i 40 anni. Abbandonando l’idea di un’Italia benvolente, sorridente e generosa, queste tre donne, si immergono così nell’Italia della politica corrotta, dell’immagine degradante della donna, dei vecchi e delle badanti. L’inizio della pièce illustra con grande crudezza e disillusione l’immagine del Bel Paese.
[...] il paese della cuccagna
Delle bustarelle
Delle veline
Delle marchette
Del « che ci hai un cognato? »
Del chiudi un occhio
Del che te frega
Del non t’immischiare
Della rassegnazione
Del chi te lo fa fare
Del « è sempre andata così »
Del non c’è niente da fare
E dei cuochi, i nostri grandi intellettuali, onnipresenti più del papa
E delle badanti15
In un certo senso le tre protagoniste compiono (« per la durata dello spettacolo », come viene detto nel prologo) un viaggio che le porta da un’Italia da cartolina, idealizzata e inesistente, a un’Italia vera, piena di problemi e con, come solo stato d’animo, un astio rassegnato. E compiono questo « viaggio » verso la presa di coscienza, attraverso le tappe del viaggio e della vita delle badanti, dalla partenza al possibile ritorno. Le attrici e Lucia Calamaro spiegano così:
Volevamo parlare di una cosa che esiste, che tutti conoscono, ma di cui nessuno parla: per empatia, solidarietà, per senso di colpa e anche un po’ per immedesimazione, volevamo parlare della condizione esistenziale delle badanti in Italia.16
E ancora
Ci mancava, di tutto questo sentire che non ci è familiare, l’esperienza. Noi non siamo emigrate economiche, a oggi. Non laviamo gli anziani degli altri, non li imbocchiamo, non ci limitiamo più ad abitare e incarnare il femminile accudente che per secoli ci è toccato in sorte. Non più: noi non lo facciamo perché lo fanno loro. Ma se toccasse di nuovo a noi?17
Esistono altri lavori, evidentemente, che mettono in scena la figura della badante, ma mi sembra che questi sopraindicati – a differenza di altri – siano interessanti proprio perché scevri di buonismo o di vittimismo e perché non riutilizzano ciecamente i clichés che accompagnano la figura della badante. Anzi, li usano in modo ironico o finalizzato alla riflessione, conservando, così una più forte vena denunciativa.18
I protagonisti: immagini della crisi
La straniera
IVO MEZLER Che cosa facevi a casa tua?
IRINA Stessa cosa che qui. Portare in giro vecchio matto e cambiare pannolone.
IVO MEZLER Dì la verità.
IRINA Io ho detto verità.
IVO MEZLER Niente laurea in matematica? In fisica? In ingegneria elettronica?
IRINA (ridacchia sorpresa) E perché?
IVO MEZLER Bah. Dicono che voi siete tutte molto colte. Psicologhe. Filosofe. Scienziate. Che venite qui perché lavare il culo a un infermo da noi è pagato meglio che costruire una diga da voi.
IRINA Sopportare vecchio qui è più difficile che costruire diga là.
IVO MEZLER (ride) Questa volta mi sei piaciuta! (indica fuori scena) Andiamo a cercarlo da quella parte!19
Questo dialogo tra l’architetto e la sua badante ne L’ultima casa di Scarpa è significativo perché apre il discorso su una serie di stereotipi che riguardano appunto le badanti. Come ogni straniero immigrato, esse devono subire lo sguardo degli altri filtrato dai pregiudizi, che vede solamente la funzione, riducendo la persona a una serie di gesti ripetitivi, o, al contrario, scorge un’immagine preconcetta che riunisce una serie di fatti cronaca trasmessi dalla stampa o storie di seconda mano vissute da amici e vicini. Inoltre, questi stereotipi sono ormai – visto che si tratta di un fenomeno ormai ben presente da anni in Italia – un’eredità di un passato recente creato dai predecessori, che vengono tutti riuniti in una sola categoria – « immigrato, slavo » – legato a una lunga catena di fatti di cronaca senza soluzione di continuità, un’immagine che non fa differenze tra la mafia russa e la collaboratrice domestica. Vorrei sottolineare che qui non si tratta di fare del « buonismo » o negare tutte le situazioni scomode o criminali in cui l’immigrato è protagonista, ma per ragioni ovvie lo stereotipo non può essere preso in considerazione come metro di conoscenza.
La figura della badante, nel momento in cui si trova al centro della conversazione o al centro di creazioni letterarie molto contemporanee (storie che vogliono essere la mimesi della realtà come capita spesso nel romanzo « noir » che – con risultati più o meno felici – sembra essersi dato come missione la rappresentazione della realtà sociale italiana) è vista attraverso gli stereotipi che le sono stati attribuiti nel tempo: non capisce una parola di italiano, ha le caratteristiche della slava più mascolina e brusca o all’opposto della ginnasta perfetta e bionda, nella sua vita precedente occupava una posizione sociale molto diversa, ma soprattutto è infida e ha secondi fini a lungo termine che penalizzano la popolazione italiana (in altri termini vuole sedurre uomini anziani abbienti, farsi sposare ed ereditare, alla loro morte, appartamenti e beni, che spetterebbero di diritto alla famiglia legittima). Ci sono certamente eccezioni, ma in gran parte questo è il ritratto che ne viene fatto, come è ribadito dalla madre napoletana ossessiva di un romanzo recente di Maurizio de Giovanni, Dodici rose a settembre:
E poi queste immigrate sono tutte così, maledette troie venute dall’est a prendersi i nostri uomini, ecco il motivo perché quelle come te resteranno zitelle per sempre.20
Ora, nei testi che ci apprestiamo ad analizzare, si fa leva su questi stessi stereotipi. Prendiamo, per esempio, la questione linguistica; la prima barriera, che è anche il primo segno rivelatore delle differenze tra stranieri ed autoctoni, risulta fondamentale per la costruzione del personaggio teatrale. Nel suo testo, Scarpa gioca allegramente su questa peculiarità, riproducendo i tic linguistici degli immigrati e attribuendo alla falsa Irina gli errori ricorrenti degli slavofoni (come l’assenza di articoli o l’uso improprio di pronomi).
Nel testo della Dandini si fa una menzione più esplicita alla difficoltà d’espressione, ma in modo graffiante e sarcastico:
Scusate il mio napoletano ma non è facile per un’ucraina dire’ ncoppa, pummarola, mammeta ... bucchinara invece l’ho imparato subito.21
Nel testo di Scarpa si fa inoltre riferimento al passato di Irina, a quel « Pezzeinculistan »22, come dice elegantemente l’architetto:
IVO MEZLER (si volta a guardarla) Mi piaci quando dici quello che pensi.
IRINA Io non dovrei piacere a lei, non è professionale.
IVO MEZLER Allora ti licenzio. Così te ne torni a casa tua.
IRINA Io non credo.
IVO MEZLER Laggiù in Pezzealkùlistan, te ne torni.
IRINA Qui per noi è molta richiesta. Di lavoro io trovo quanto voglio.
IVO MEZLER Eh, lo credo.
IRINA Noi andiamo a ruba.
IVO MEZLER E allora perché stai con me?
IRINA Perché lei diverte me.
IVO MEZLER Ti abbasso lo stipendio, se ti diverti.
IRINA Come lei vuole. Io trovo altro vecchio.23
Anche la supposta avidità delle badanti, facilmente conquistabili con regali viene messa in evidenza:
IVO MEZLER Un paio di scarpe? Eh? Un bel paio di scarpe. Non ti ho mai fatto un regalo. Scegli quello che vuoi. Una borsa alla moda. Un vestito. Non lo so. Dimmi tu.24
Il regalo, che cambia radicalmente il rapporto tra il datore di lavoro e l’impiegato, creandone uno nuovo e diverso, si trova anche nel testo della Dandini, ‘Na sera ‘e maggio, in cui il dono delle « scarpe della signora » farà scattare il sospetto e la gelosia dell’assassino.
Nel monologo di Serena Dandini, viene anche accennato il modo in cui la badante viene a conoscenza della realtà italiana e delle possibilità che le si offrono:
Mia cugina abitava a Napoli già da un anno, era badante di una vecchia piccolina che le dava poco lavoro, voleva che la raggiungessi e mi ha trovato un posto. Me l’ha mandato a dire dall’autista del pulmino che fa dall’Italia a Kiev, insieme a un biglietto già pagato.25
Il passaparola della comunità slava ricorda moltissimo la situazione che l’immigrazione interna aveva prodotto negli anni ’50 e ’70: i meridionali che arrivavano al nord per lavoro venivano molto spesso « invitati » da famigliari o compaesani, i pionieri garanti di un futuro diverso26.
Oltre agli stereotipi, ci sono alcuni elementi sociali che vengono messi in evidenza, come l’affido dei figli alla famiglia, uno dei fattori che più pesano nel manifestarsi della sindrome italiana, su cui si fonda la differenza tra l’emigrazione maschile e femminile: se la prima, tradizionale, aveva conseguenze sociali più legate alla comunità allargata, l’assenza della madre porta a conseguenze che toccano più da vicino la sfera dell’intimo, la famiglia, e che si rivoltano contro l’emigrante stessa (attraverso i sintomi della depressione).
L’abbandono dei figli è solo accennato nel testo della Dandini (che è peraltro un testo molto corto e quindi molto denso):
A me dispiaceva lasciare le bambine con la nonna, ma il lavoro è lavoro, se non c’è devi andargli incontro in capo al mondo, specialmente dopo che mio marito era scappato chissà dove.27
L’abbandono è invece al centro del testo di Lucia Calamaro, ne è il punto di partenza. La prima parte è una lunga scena d’addio tra una madre e il figlio. E la distanza, oltre che al senso di colpa, alla vergogna, è motivo ricorrente e sarà anche l’elemento centrale della scelta finale di ritorno.
Mi dispiace
Mi dispiace tanto,
ma come faccio a non andare
qui non ce la si fa
lo faccio per te
per noi
lo faccio per tutti
certo che torno
a Natale e d’estate
lo so che è poco
ma di più non ce la si fa
c’è gente che torna ogni tre anni
o anche quasi mai
e poi sì
per sempre
gente che non torna più
ma io tornerò il più possibile28
E nella scena finale:
Anzi sarò io a fare da quarto paradigma, il paradigma della badante: donna che torna dopo un lungo viaggio per trovare pace e riposo.
Gli dirò che resto
E non mi crederanno
Per sempre dirò
E non si fideranno
Giuro
Ci saranno tutti alla stazione
Sicuro
Vestiti bene
E mi vorranno abbracciare per ore
Tenere tutta per loro
Urleranno così forte
Grazie a dio sei qui, sei tutta qui
Tutta insieme voce e corpo
Non ne potevo più di averti solo a metà
Mi diranno grazie
grazie per tutto quello che hai fatto
Grazie per gli studi mamma
Per la casa
Per il telefono
Per le scarpe
Per la caldaia nuova
Grazie perché sei tornata
mamma non te ne andare più
giura.29
Gli anziani
Indissociabile dalla figura della badante, è l’immagine della vecchiaia. Una vecchiaia molto presente, che viene gestita attraverso un dispositivo che – se è esistente in altri contesti culturali – è diventato in Italia il più utilizzato: è forse una questione di strutture mancanti (soprattutto in alcune regioni), ma nasce anche dalla mentalità italiana che fa fatica a delegare la cura delle persone anziane a istituti e quindi fuori dal contesto domestico.
Mi piace ricordare a questo proposito l’episodio intitolato « Come una regina » del film I nuovi mostri (1977) in cui Alberto Sordi abbandona per le vacanze la madre in una casa di cura: attraverso il grottesco viene denunciato l’atteggiamento verso la persona anziana nella nuova società dei consumi.
Nel testo di Scarpa, il vecchio è oltremodo presente perché è un personaggio megalomane e logorroico. Falsamente paralitico, giustifica la sua finzione con queste parole:
IVO MEZLER Ho bisogno anch’io di qualcuno! Che cosa credi? Non mi vergogno affatto. Mi sono finto paralitico per poter prendere in affitto un’accompagnatrice; una « badante », come le chiamano adesso.
IRINA Lei poteva prendere uguale.
IVO MEZLER Non è vero. Se uno è in grado di badare a se stesso non è previsto che prenda una badante.
IRINA Io poteva fare a lei compagnia senza questa commedia.30
Bisogno di umanità dunque, lotta contro la solitudine, espressa qui con lo stile irriverente di Scarpa, per cui il bisogno fisico non è reale, ma viene creato. Si tratta di una denuncia da parte del drammaturgo di una società che lascia i vecchi « decrescere » da soli? È ancora da dimostrare che si tratti di vera denuncia sociale, ma è comunque una maniera di dare spunti al pubblico per una riflessione che viene amplificata dal fatto di essere in scena.
Il rapporto che si istaura tra i due, nel primo atto, prima dello smascheramento delle vere identità, è in effetti una relazione conflittuale e tesa che presenta però anche dei momenti di comicità, di tenerezza, di confessione.
IVO MEZLER No che non dipende! Io dico quello che mi passa per la testa a chi voglio, dove voglio, quando voglio.
IRINA Dipende se quello ha voglia di ascoltare.
IVO MEZLER Tu adesso hai voglia?
IRINA Io sono pagata per ascoltare lei.
IVO MEZLER Sbagliato. Dovresti pagare per ascoltarmi.
IRINA Lei crede che lei dice cose così interessanti?
IVO MEZLER Per forza. Sono stato zitto tutta la vita!31
Nel testo di Serena Dandini, il punto di focalizzazione è quello della badante. Attraverso il suo sguardo, ingenuo e speranzoso, si possono dedurre alcuni elementi sul profilo del vecchio e sulla relazione che si istaura tra loro:
Quando ho visto il signor Antonio per la prima volta, ho pensato che ero fortunata: elegante, gentile, una casa grande, le finestre sul mare, e anche se molto anziano, sembrava sano come ’nu pisce. Il figlio mi spiega che il vecchio ha bisogno di qualcuno che gli faccia da mangiare, gli prepari i vestiti completi di cravatta ogni mattina perché lui non ha mai saputo dove sono le mutande o le posate… la moglie pensava a tutte cose. Soprattutto, dice che ha bisogno di compagnia, non sa stare da solo, e che lui e la sua famiglia non possono pensare al padre, faticano tutta ’a jurnata e il signor Antonio è pure ’nu poco capriccioso come ’na creatura…32
Anche in questo caso è la solitudine della persona anziana che motiva l’assunzione della badante. Una relazione apparentemente serena, a tratti ambigua, quella tra la badante di Na sera ’e maggio e il signor Antonio: lui le insegna l’opera e la musica napoletana, le domanda di mettere le scarpe della moglie defunta e le concede la possibilità di far venire le figlie in Italia. Il tono sferzante e ironico della Dandini mette a nudo, in un secondo tempo, la vera situazione, in cui due uomini, il vecchio e il figlio, domandano a che la badante si pieghi a un servizietto ‘da contratto’, una forma di ricatto morale per poter lavorare. Ma il rapporto che (nonostante la richiesta di prostituzione che la badante accetta) si viene a tessere tra il vecchio e la straniera sarà anche l’inizio della fine per quest’ultima, uccisa per gelosia, per interesse. La legge della domanda e dell’offerta non ha gli stessi parametri per le due parti: da un lato si domanda tutto fino all’umiliazione, ma non viene accettata nessuna contropartita. La badante deve restare al suo posto, non deve poter accedere ad altro che allo stipendio che le viene concesso. Se si permette di passare una linea sociale immaginaria, ecco che scatta la punizione, che nel testo della Dandini è quella estrema, la morte.
A parte quel capriccetto il signor Antonio era una brava persona, gli ho chiesto di far venire le bambine in Italia e lui ha accettato, ma a quel punto il figlio non c’ha visto più. La gelosia. La paura di perdere la casa. Forse il caldo, o la puzza che faceva impazzire la città…33
Questa solitudine è destinata a provocarne un’altra, quella della badante stessa. In Memorie di una cameriera, testo del 1997 che Dacia Maraini adattò dal romanzo Journal d’une femme de Chambre di Octave Mirbeau, per un allestimento di Luca Ronconi, si legge: « La solitudine, Madame, non sta nel vivere soli, ma nello stare in mezzo a gente che non ha nessun interesse per voi »34.
Nel testo della Calamaro non viene sottolineata solo la solitudine dell’anziano, ma anche la sua condizione dipendente, raccontata dal discorso solitario della badante:
Essì, stai messo malissimo, passamelo,
completamente imploso
Deve essere dura anche per te, lo so sai
Che colpa ne hai
(lo scuote)
Mi capisci
Mi senti lì dentro
C’è qualcuno?
Io non è che voglio parlare di me, parlerei volentieri di te, se tu ti raccontassi
Non ti fidi?
Guarda che io la tua vita, la prenderei in braccio volentieri…
Ti manca tua moglie?
I tuoi figli quando vengono? Chiamano, chiamano, ma non passano più… ma com’è?
Ma qualche amico vivo non ce l’hai?
O magari ce l’hai ma sta messo come te
Non vuoi parlare eh?
(il vecchio accenna un NO)35
Una pagina in versi liberi, che potrebbe essere chiamata “il lamento della badante”, esprime questa condizione di solitudine estrema, quasi un contagio tra la situazione dell’anziano e quella di chi lo deve accudire:
Non rispondi
Ancora no
È presto
Lo so
Ci vogliono mesi,
dopo un attacco come il tuo
anni forse…
ma io come faccio
non ce la faccio ad aspettarti
ho bisogno di facce parlanti
Ne ho bisogno subito
Sono sette ore che galleggio nel nostro silenzio
Mi senti?
Mi succede sempre più spesso
Parlo da sola
A voce alta
Anche stamattina al parco
Un po’ provo a parlare con te ma poi mi dico i pensieri
Non li penso, me li dico
Faccio espressioni, (ESEMPI DI DISCORSI) le mani vedi?, io gesticolo, mi agito
Io/ mi/ parlo, sempre di più
Sempre di più e a me stessa,
mi parlo e mi rispondo
mi do ragione
mi do torto
mi dico quello che dirò a qualcuno quando e se me lo incrocerò
e me lo ripeto pure
faccio le prove delle frasi, delle parole, delle intenzioni,
qui ci vuole una parola più sofisticata… più così, desueta, ecco, no meno, vediamo se glielo dico più ironica…
mi immagino e dò voce a e un dialogo con nessuno
dò volume, spessore, suono a relazioni che non succedono
eventuali incontri e scambi che si sgretolano al dirli mentre spingo una carrozzina
hai capito come sto?36
I corpi: oggetti della doppia crisi
La relazione che si stabilisce tra questi due estranei, costretti dalle loro esigenze individuali a vivere insieme, ha come punto centrale il corpo. Da una parte il corpo della persona anziana da accudire, dall’altro il corpo della badante, elemento di desiderio, di ricatto. Entrambe le fisicità dei protagonisti sono considerate come oggetti: il corpo inerte dell’anziano, su cui vengono effettuati gesti meccanici di pulizia e di cura, deve subire l’umiliazione del contatto intimo con una persona estranea; il corpo della badante è innanzi tutto un elemento estraneo nella domesticità delle mura di casa, in cui può essere visto come elemento erotico, ma è anche un corpo di donna che si spegne a poco a poco nella ripetitività della routine quotidiana, nella solitudine della nostalgia di un altrove lontano.
Entrambe queste presenze si possono incontrare nel testo grottesco di Scarpa che, grazie ad un linguaggio crudo e un umorismo scatologico, riesce ad alleggerire la rappresentazione della decadenza fisica e del lavoro ingrato.
L’allusione alla possibili avances da parte del vecchio alla badante sono solo accennate e condannate dall’architetto stesso (troppo megalomane e centrato su se stesso per poter pensare a sedurre qualcun altro). Non è quindi il corpo della donna, ma il corpo dell’anziano che è messo in primo piano.
IVO MEZLER Avresti pensato che ero un vecchio sporcaccione in cerca di f… di figliole giovani.
IRINA Lei è vecchio sporcaccione!
IVO MEZLER Cosa?!
IRINA Sporcaccione, sì. Vecchio sporcaccione.
IVO MEZLER Ma come ti permetti?
IRINA Io dico quello che lei è.
IVO MEZLER Ti ho mai messo le mani addosso? Ho approfittato di te?
IRINA Io non ho detto…
IVO MEZLER (continua, infervorato nell’arrabbiatura) Ho forse fatto il marpione? Mi sono mai permesso un’allusione men che corretta, eh?
IRINA No, ma…
IVO MEZLER Sporcaccione! Io! È il colmo!
IRINA Lei ha fatto finta che lei non controllava suo intestino!
IVO MEZLER (sorpreso) E allora?
IRINA Lei ha defecato in suo pannolone! Ogni giorno! Molto abbondante! Sporcaccione!
IVO MEZLER (minimizzando) Cosa c’entra. L’ho fatto per necessità.
IRINA Tutti noi abbiamo quella necessità. Ma nessuno fa necessità volontaria addosso!
IVO MEZLER L’ho dovuto fare, per essere più credibile come paralitico! Ho finto di essere un vecchio che non domina più i suoi muscoli anali.
IRINA Ma così io ho dovuto pulire ogni giorno suo grasso deretano impestato di cacca!
IVO MEZLER E credi che sia stato piacevole per me farmela addosso ogni giorno, solo per farti credere che ero un vecchio cagone?!
IRINA No, ma però è io quella che poi doveva pulire suo culone pestifero!
IVO MEZLER Non sai che sofferenza è stata per me, che umiliazione. Sprofondare nelle mie miserie…
IRINA Che cosa importa a me se lei affoga in suoi escrementi.37
L’azione del prendersi cura del corpo della persona anziana, nel copione di Lucia Calamaro, è rappresentata in una scena muta, fatta di sole didascalie distribuite ai vari ruoli, e viene intitolata « scena cruda »
SCENA CRUDA (ACCUDIMENTO)
SCENA FISICA in cui le badanti svolgono azioni di accudimento al vecchio.
Senso della fatica/ della ripetizione / della stanchezza.
SANDRA: alza Monica, la mette seduta, porta via i vestiti
MANU: porta in scena il letto e rifà il letto
SANDRA: entra con bacinella e spugnetta
MARI: porta Monica sul letto, la lava e le mette il pannolino
MANU: entra con un bicchiere d’acqua, carica la sveglia, le toglie la dentiera, suona la sveglia e la spegne, le da le medicine
SANDRA: entra con la sedia a rotelle, la veste da vecchietta, la mette seduta, inizia a imboccarla
MARI: porta via il letto
SANDRA: fa sedere Monica sulla sedia a rotelle38
Come viene detto nel titolo, qui è la penosità dei gesti ripetuti che viene messa in evidenza (contrariamente all’aspetto più scatologico di Scarpa). L’accudimento della persona anziana, i ritmi sempre uguali sono un’ennesima azione che porta alla sindrome che dà il titolo alla pièce.
Il corpo della badante, nel testo della Calamaro, è un corpo che soffre, che piange, che lavora fino allo svenimento. E se passa i limiti della sopportazione, lo fa perché la necessità economica è il motore della volontà: nella simulazione di un colloquio di lavoro, all’inizio della pièce, la drammaturga utilizza ironia e cinismo quando fa dichiarare che la badante non ha limiti nel lavoro quotidiano: una sorta di supereroina creata ad hoc per esigenze di mercato.
[…] assolutamente no
nessun bisogno di dormire
nessuna delle tre
ci siamo allenate insieme
non ce l’avete qui in questa Italia le olimpiadi dell’insonnia?
strano
noi sì
modestamente ancora con qualcosa, ce la caviamo pure di là,
abbiamo eliminato questa perdita di tempo dal nostro quotidiano
non dormiamo da anni, né di notte né di giorno e siamo allenatissime
[...]
quindi figurati se ci da fastidio se ci chiama, 7-16-21 volte a notte
anzi ci fa piacere
anzi, ci aiuta a passare il tempo
sennò sai che noia, 10 ore senza niente da fare
poco
pochissimo
quasi mai
mangiare fa male,
si ingrassa,
si vampirizza il pianeta dalle sue risorse
quindi mangiamo quasi niente
tre... no... due no… possibilmente una, ecco una volta al giorno
di preferenza i resti, ci sembra più ecologico
30 chili?
60, 70 chili come niente
Lei ci vede così, mingherline, ma perché noi lavoriamo sulle leve, non sui muscoli
Lo spostamento dei pesi è tutta una questione di leve
Ce lo dice sempre una nostra amica ballerina
Noi spostiamo chiunque
Sì all’occorrenza balliamo anche noi, cantiamo,
ma perché è richiesta una preparazione artistica per fare la badante?39
Molte scene, però, mettono in scena la sofferenza che ne consegue, dalla perdita di femminilità – « Messa così somiglio proprio a una tovaglia. Pratica, pulita, anonima. Una tovaglia di plastica a fiori, quelle che si usano in cucina, che ci passi la spugna, non le cambi perché non si consumano »40 – fino alla sofferenza fisica. Oltre alla scena cruda dell’accudimento, ci sono altri due momenti che scandiscono la discesa all’inferno della badante.
All’inizio, la scena intitolata « Lacrime, memoria dell’acqua », vuole rappresentare il distacco viscerale tra madre e figlio, attraverso un elemento spesso presente nel teatro della Calamaro, l’acqua, legata alla femminilità e alla maternità. Benché la scena sia stata criticata, forse per la messa in scena un po’ macchinosa, ci sono parole toccanti sull’unione simbolica di acqua e lacrime, che contrastano con una mimica quasi clownesca, come si può evincere dalla lunga didascalia:
C’è un tubo d’acqua come quelli per innaffiare che si punta addosso da sola, se lo abbraccia stretto quindi l’acqua le arriva in faccia.... come fosse il figlio che piange, il tubo andrà a ondate, più forte, più lento... spento, sgocciolante, a singhiozzo, un ciclo d’acqua che simuli quello del pianto disperato...
e il faccione ti spiegava che l’acqua, una volta messa a contatto con una sostanza
conserva le proprietà di quella sostanza
anche quando non è più in contatto con lei
la sostanza delle tue lacrime
la sostanza delle mie
se le mischiamo adesso
si ricorderanno
rimarranno tracce di te nelle mie
di me nelle tue41
La seconda scena arriva verso la fine, ed è intitolata: « Sandra al vecchio. Vertigini ». Le conseguenze di questa stanchezza cronica, se in un primo tempo sono un ostacolo al buon svolgimento del lavoro, sembrano anche celare uno stordimento che è l’unica scappatoia alla piatta quotidianità: di fronte allo scandire sempre uguale delle mansioni, anche il giramento di testa sembra essere un segnale che, forse, altrove, la vita è diversa.
Quando ho queste crisi
Una certa insicurezza generale sulla realtà si diffonde nella mente
Niente ti sembra più solito
Ma sei preda, in fondo contenta, del regno dello sbando
(Manu e Mari si vanno a sedere sulla panchina)
per 5, 10 secondi cadi dentro un vortice di per sé impraticabile
e ogni volta ti chiedi se il mondo riprenderà mai il suo posto
o se all’uscita dalla voragine sarà tutto diverso, disgregato, altrove…42
È nel testo di Serena Dandini che si affronta chiaramente l’altro uso del corpo della badante, ossia il suo sfruttamento sessuale. Alla badante ucraina di ’Na sera ’e maggio si chiede qualcosa in più dell’accudimento da routine; la richiesta del servizietto viene fatta con rossore dal figlio:
« Papà tiene solo ’nu vizietto, un’unica condizione irrinunciabile per la sua badante: un pompino a settimana. Uno solo, ma regolare, il sabato pomeriggio »43.
Incisivo il linguaggio della Dandini, che usa volontariamente il turpiloquio per mettere a nudo il ricatto morale a cui viene sottoposta la donna che deve aggiungere alle sue mansioni anche quella di prostituta. A questa richiesta, la risposta è disarmante: « Ho pensato alle mie bambine e ho accettato »44.
Il femminicidio – la definizione data da Marcela Lagarde, parlamentare messicana, nel 2006, copre in effetti ogni « forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotta dalla violazione dei sui diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine » – comincia quindi prima dell’assassinio vero e proprio, comincia con la dignità calpestata, con quella « condizione irrinunciabile » che è ricatto morale.
La rappresentazione straniante
Come ho cercato di illustrare attraverso questi esempi, e come annunciato fin dall’inizio, i testi in esame sono molto diversi tra loro, e mettono in luce, ognuno, un aspetto dei tanti che compongono la situazione e la rappresentazione delle badanti. Ognuno di questi, mi sembra, usa una forma di distanza, forse addirittura di straniamento.
Nel testo di Scarpa, che si diletta ad utilizzare l’arma del grottesco, tutti gli elementi, come l’assurdità dell’ambientazione, le scene alternate da cui « spuntano » i personaggi, la lingua evidentemente artificiale di Irina e il ribaltamento al secondo atto (con Irina sulla sedia a rotelle e l’architetto che la spinge) sono finalizzate a creare un mondo in cui tutto è apparenza e dove tutto viene poi scoperto. Tutti i clichés sulle badanti sono presenti nel testo, ma il tono e lo stile, oltre all’umorismo, fanno sì che lo spettatore possa mantenere quella distanza per riconoscerli in quanto tali e non lasciarsi ingannare da una rappresentazione mimetica e stereotipata della figura in questione.
Nel testo della Dandini, come in tutti quelli che compongono l’antologia di Ferite a morte, la presenza di una forte ironia (che contrasta ma non stride con l’ambientazione – una sorta di limbo – o con l’argomento – la morte delle donne che parlano) è al servizio non solo dei personaggi che raccontano le loro storie, ormai libere, liberate dalla paura e dal dolore, ma serve ancora una volta per porre a distanza la situazione narrata, benché – il più delle volte – tristemente ispirata alla realtà. E questo permette ancora una volta di non scadere nel patetico o nel buonismo, e di trovare un’alternativa alla denuncia violenta o scandalizzata. Il riso, lo sappiamo, è l’arma più preziosa di un teatro di denuncia, che non permette invece l’immedesimazione.
Infine il testo della Calamaro è « ribaltato » fin dall’inizio. Non si tratta di raccontare delle storie di immigrate, si tratta di mettersi nella situazione di queste stesse immigrate, di ripercorrere – fosse solo attraverso la parola teatrale – un viaggio verso l’alienazione. Questo permette di vedere la situazione da un altro punto di vista, usando uno sguardo disincantato che svela aspetti di un paese diverso da quello immaginato o sperato. Il tono, secondo la marca di fabbrica delle attrici coinvolte nel progetto, è alternativamente lirico e ironico, a volte grottesco.
Se si volesse trovare un punto comune, oltre che tematico, a questi testi si potrebbe forse individuare nell’ironia e nel grottesco: l’enormità delle situazioni che vengono raccontate è filtrata attraverso uno specchio deformante, una lente di ingrandimento che mette in risalto questo o quell’aspetto della situazione generale. E che, come mi permettevo di suggerire all’inizio, proprio perché deformato, straniato, messo a distanza può essere infine visto per quello che è. E questo procedimento, che è essenzialmente politico, si oppone al comportamento che si ha nel quotidiano, tendenzialmente portato a sminuire, a non vedere, ad accettare.
Le badanti nel teatro contemporaneo ci parlano quindi non solo di loro, ma soprattutto di noi; ossia di un’Italia non da cartolina, che deve ancora fare i conti con la sua nuova identità multiculturale, che sembra a tratti bipolare perché – come non mai in questo periodo – inneggia al razzismo e all’odio, senza una riflessione razionale su una realtà che è cambiata, con cui si dovrebbe infine fare i conti, senza filtri e senza pregiudizi. Superando infine quello schema padrone/servitore, sorpassato, coloniale, borghese che tanto faceva ridere sulla scena goldoniana, ma che già faceva riflettere ne Le memorie di una cameriera di Dacia Maraini.