Vostra di questa rissa è la cagione,
ed a me per difesa e per vendetta
carico d’oppugnarvi ora s’impone.
Prendete pur de l’armi omai l’eletta,
ch’io non posso soffrir lunga dimora,
da lo sdegno de l’animo costretta.
La spada, che ’n man vostra rade e fora,
de la lingua volgar veneziana,
s’a voi piace d’usar, piace a me ancora:
e, se volete entrar ne la toscana,
scegliete voi la seria o la burlesca,
ché l’una e l’altra è a me facile e piana.
Io ho veduto in lingua selvaghesca
certa fattura vostra molto bella,
simile a la maniera pedantesca:
se voi volete usar o questa o quella,
ed aventar, come ne l’altre fate,
di queste in biasmo nostro le quadrella,
qual di lor più vi piace, e voi pigliate,
ché di tutte ad un modo io mi contento,
avendole perciò tutte imparate.
(Veronica Franco, Terze Rime, XVI, vv. 106-26)1
La vicenda è nota. Questi versi fanno parte del capitolo con cui Veronica Franco risponde al duro scherno di Maffio Venier che l’aveva oltraggiata con i capitoli Franca, credéme, che, per san Maffio e An, fia cuomodo? A che muodo zioghemo? e soprattutto con la sonettessa Veronica, ver unica puttana2. Veronica rilancia chiedendo un duello, smontando le accuse con pacatezza e acribia, soprattutto facendosi forte delle proprie capacità di poetessa. Nei versi riportati elenca infatti tutte le specialità in cui è ferrata, altrettante armi tra le quali l’avversario potrà scegliere: la prima è «la spada […] de la lingua volgar veneziana» di cui Maffio è maestro e in cui sono scritti quei testi con cui egli aveva inteso «demoli[re] […] l’immagine di “cortigiana onesta”»3; poi la lingua toscana «seria» e la «burlesca»; infine accenna alla lettura di «certa fattura» di Venier «in lingua selvaghesca», la quale è detta essere «simile a la maniera pedantesca». Non mi pare produttivo intendere «pedantesca» come riferimento generico all’uso spregiativo che il termine pedante ha in Maffio: che «Desputar co loquazi e co pedanti» figuri al v. 79 tra le disgrazie elencate nella lunga sonettessa Haver un par(e) che non crepa mai, gustoso priamel contro gli importuni, è nulla più che un luogo comune, già per esempio dei capitoli di Francesco Berni o di Giovanni Mauro (dispregio che più tardi troverà una forma più distesa nelle terzine del Pedante di Cesare Caporali4). Soprattutto in questo modo non si vede come questa «fattura» si possa distinguere dal veneziano e dalla poesia burlesca. Qui si parla invece di una «lingua selvaghesca» e si dovrà allora interpretare la «maniera pedantesca» nel senso del linguaggio fitto di latinismi ridicoli che nella commedia cinquecentesca (da Francesco Belo a Pietro Aretino e più tardi a Giordano Bruno) e poi nella lirica (specialmente nei Cantici di Fidenzio di Camillo Scroffa) rappresenta lo strumento linguistico principale per parodiare e ridicolizzare, per l’appunto, la figura del pedante5, «il maestro di scuola presuntuosamente fiero delle sue cognizioni e portato a parlare una lingua infarcita di latinismi, quale prodotto tardivo e scadente dell’Umanesimo»6. Per questo – pedanti anche noi – non ci soddisfano le spiegazioni che vengono date dagli interpreti. Nel suo commento alle Rime della Franco, Stefano Bianchi chiosa «selvaghesca» con «burlesca»7 e non meglio fa Margaret Rosenthal, prima nella sua monografia del 1992, dove ritiene che la Franco si riferisca alla Strazzosa, la canzone di Maffio Venier che inizia Amor, vivemo tra la gatta e i stizzi, e poi nell’edizione americana delle Terze Rime, dove «burlesca» è tradotto con «comic», «selvaghesca» con un poco motivato «mock-heroic» e «pedantesca» con «the style that mixes Italian and Latin»8. Ma la canzone di Maffio nella quale la studiosa americana vorrebbe riconoscere il riferimento della Franco rientrerebbe piuttosto nella categoria dei testi in lingua veneziana, mentre nello sfoggio delle armi per il duello la «fattura molto bella» «in lingua selvaghesca» è detta essere simile al pedantesco. A me pare insomma di doverlo interpretare come un genere – o almeno un insieme di tratti formali e magari anche tematici – precisamente individuato e diverso tanto dal veneziano, quanto dal petrarchismo bembiano e dal burlesco alla Berni. Non scriverei queste righe se per comprendere il significato di questo hapax ci soccorresse il Grande Dizionario della Lingua Italiana, in cui il lemma selvaghesco non è riportato, nonostante la Franco figuri tra le fonti.
L’interpretazione corretta può ora essere data a partire da alcuni recenti contributi di Fabien Coletti9. Lo studioso ha infatti ricostruito le vicende di un personaggio poco noto, a cui credo proprio sia diretto il riferimento della Franco: selvaghesco è insomma un aggettivo di relazione che sta ad indicare l’oggetto di scherno, non un sinonimo di burlesco ma, piuttosto, vicino a pedantesco, sebbene nemmeno a questo esattamente sovrapponibile. Il termine si riferisce alla canzonatura di quella particolare figura di pedante rappresentata dal genovese Gabriele Salvago (ca. 1510 – dopo il 1573), vissuto tra Roma e Venezia, e nel XVI secolo menzionato soprattutto nella forma Selvago. Il Salvago, meschino adulatore e arrampicatore alla corte papale, era stato prima messo alla berlina da parte di Giambattista Modio, Bernardo Navagero, Giovanni Della Casa e altri10, e successivamente reso autore fittizio (come il Fidenzio Glottocrisio Ludimagistro di Scroffa) di un canzoniere manoscritto marciano di 33 sonetti e di altri dieci sonetti recati da un codice della biblioteca Ambrosiana probabilmente raccolti, questi ultimi, secondo Coletti, da Gian Vincenzo Pinelli, che ne mise insieme con intento denigratorio anche le ridicole lettere. Un gruppo di testi non omogeneo ma che concorre a disegnare il ritratto di un uomo ipocrita e meschino, caratterizzato da un’ambizione smisurata, da un eloquio affettato e macchiato di latinismi inutili (che a differenza del fidenziano non arrivano a fare sistema), ridicolmente incapace di accettare con serenità il proprio invecchiamento, riprensore dei vizi ma frequentatore di prostitute e dedito anche alla sodomia. Se la mia intuizione è giusta, convaliderebbe la tesi di Coletti di un Salvago dalla triste fama di pedante per antonomasia già a Roma e «involontario buffone» negli anni in cui si trova a Venezia, cioè tra il 1565 e il 157311, anni del resto perfettamente compatibili con la produzione letteraria della Franco.
Alla verifica di questa interpretazione osterebbe solo l’evidenza che allo stato attuale degli studi non è noto nessun testo di Maffio Venier identificabile inequivocabilmente come selvaghesco-pedantesco. Le ipotesi che mi pare si possano formulare sono due. La prima è che l’allusione della Franco costituisca un indizio della possibile paternità maffiana dell’anonimo canzoniere marciano, decisamente connotato – ben più dei dieci sonetti dell’Ambrosiana – in senso pedantesco dal punto di vista linguistico, ma che coniuga i copiosi benché ripetitivi latinismi col genere della satira antiputtanesca12. Ipotesi che avanzo con poca convinzione dal momento che gli elementi in nostro possesso non sono sufficienti a verificarla, sebbene non sia del tutto peregrina dal momento che sia Salvago che Venier si trovavano a Roma nel 157313, anno in cui dall’Urbe arrivò a Venezia la lettera a Giacomo Contarini contenente il canzonieretto. La seconda ipotesi è a mio avviso più convincente ed è che per la Franco selvaghesco possa significare uso sistematico di versi sdruccioli che comporta la presenza cospicua di latinismi – e sono questi i caratteri distintivi che lo farebbero assomigliare al pedantesco – magari proprio adibito a satira contro le cortigiane. In questo caso il riferimento non potrebbe che essere al catalogo delle prostitute di Venezia in terza rima che inizia Daspuò che son entrà in pensier sì vario14, composto da Maffio Venier interamente in versi sdruccioli e nel cui veneziano, in effetti, affiorano alcuni veri e propri latinismi: troviamo p. es. nequizia, le serie pacientia : reverentia : eccellentia e reverentia : presentia : licentia, cui si aggiungono termini normali anche in italiano come strepito, o appena più culti come proemio, e altri ancora la cui “latinità” è solo nella lettura dieretica, p. es. memoria, invidia, miseria; inoltre si registrano un gran numero di superlativi in -issimo e qualche suffissazione giocosa (puttanevole, sporcuria, cui assocerei anche taffanario, scelto certo per il suffisso che lo apparenta e fa rimare con primario15 e aversario). Elementi, questi, che concorrono a dare al testo una fisionomia linguistica ben riconoscibile e distinta dalla restante produzione dialettale di Maffio, anche se non dicono nulla su una effettiva consapevolezza da parte dell’autore di muoversi dentro a un preciso “genere”, che del resto la Franco evoca forse ironicamente (possibile che volesse velatamente accusare Maffio di “selvaghismo”?). Questa seconda ipotesi ha inoltre il vantaggio di rafforzare il gioco della poetessa, poiché, riconoscendo – o fingendo di riconoscere – il pregio della «fattura», la Franco dimostrerebbe ancora una volta la propria superiorità, passando sopra con disinvoltura agli insulti che anche qui le si rivolgono ai vv. 76-78: «Veronica, la Franca dal proemio, / Che co ’l suo rasonar che è tanto affabile / Svoda la borsa spesso a qualche boemio»16. Va da sé che, riconosciuta l’esistenza di un gruppo di parodie contro Gabriele Salvago, nessuna delle due ipotesi proposte è strettamente necessaria a svelare il significato del lemma in questione, che è il primo intento di queste pagine, ma entrambe aiuterebbero a comprendere meglio il tipo di componimenti che si possono ragionevolmente associare a questo nome e in cosa potesse consistere il contributo di Maffio Venier a ciò che la Franco intende come «lingua selvaghesca».
A questa rapida nota lessicografica vorrei aggiungere un secondo spunto, non nuovo, riportando un brano dell’opera Del modo di comporre in versi nella lingua italiana di Girolamo Ruscelli17. Mi pare utile notare che anche in questo caso l’occasione per riconoscere stilisticamente il nuovo genere pedantesco è un discorso sull’uso sistematico dei versi sdruccioli:
Molto vagamente pur in quest’anni stessi hanno il mio Signor Domenico Veniero et altri nobilissimi ingegni introdotto di scrivere in versi Sciolti, et di Terze rime alcuni soggetti piacevolissimi, et principalmente volendo contrafar la pedanteria. I quali per certo riescono con tanta vaghezza et con tanta gratia, che con ogn’altra sorte che volesse farsi, sarebbe un levarle in tutto del vero esser loro; et non so se questa, né altra lingua habbia sorte di componimento così piacevole. De’ quali io o in questo stesso volume, o (se pur questo venisse soverchiamente grande) in qualche altro spero di farne dar fuori alcuni, che sieno per pienamente dilettare ogni bello spirito.18
Il passo si trova nel capitolo sull’uso dei versi sdruccioli, nella parte dove si descrivono i generi in cui è lecito scrivere con essi un intero componimento. Dopo aver ricordato l’Arcadia di Sannazaro e l’Ariosto comico, Ruscelli sottolinea che questa caratteristica formale è tipica e anzi consustanziale («con ogn’altra sorte che volesse farsi, sarebbe un levarle in tutto del vero esser loro») anche ad alcuni testi composti in versi sciolti e in terzine da Domenico Venier e «altri nobilissimi ingegni», volti a «contrafar la pedanteria». Anche della produzione pedantesca di Domenico Venier non pare sia rimasta traccia, ma la familiarità con cui se ne riferisce testimonia che doveva essere un gioco risaputo, e ci si chiede se piuttosto che di un’errata attribuzione dell’invenzione del fidenziano ciò non costituisca invece indizio di una precoce imitazione in risposta a una lettura divertita dei Cantici, circolanti sicuramente prima della prima edizione datata a noi nota, risalente al 1562, e forse già negli anni ’5019. Il fatto che questa produzione non abbia raggiunto la stampa e sia attualmente irreperibile sarà semmai da annoverare tra le conseguenze di una trasmissione orale e del deperimento di quella manoscritta privata. Può comunque darsi che Ruscelli si riferisse non conoscendone l’autore anche ai Cantici dello Scroffa, ma in ogni caso, quand’anche fosse invalidato da un poco probabile errore di attribuzione il suo riferimento a Domenico Venier (che com’è noto era zio di Maffio e soprattutto sarà poi in buoni rapporti con la Franco20), varrà almeno la segnalazione dell’esistenza già all’altezza del 1559 di questa ben riconoscibile maniera lirica e non drammatica di parodia del pedante, certo perfezionata da Scroffa ma non esclusivamente sua. L’allusione di Veronica Franco alla somiglianza (non uguaglianza) tra due fioriture, «maniera pedantesca» e «lingua selvaghesca», ci restituisce a mio avviso una prova della percezione da parte sua della prossimità tra queste due esperienze di poesia parodica, ma anche della loro differenza e specificità: ereditando alcuni tratti vistosi della parodia di Fidenzio, specializzandola e rinnovandola attraverso l’incrocio con la satira contro le cortigiane, è nata in un secondo momento la parodia di un nuovo personaggio, vecchio frequentatore di prostitute insieme pedante e volgare21, “genere” il cui perimetro si sta cominciando a tracciare e che ruota intorno alla ridicola vittima sacrificale chiamata Gabriele Salvago. Un genere destinato però a una circolazione privata, sotterranea, la cui unica emersione a stampa sembra essere proprio il battesimo tra allusivo e nonchalant datogli da Veronica Franco, parte, anche questo, del gioco a carte scoperte che caratterizza la sua produzione poetica, nella quale la sincerità sul piano erotico-realistico si affianca all’altrettanto aperta esibizione dell’intrinsichezza con l’intellettualità veneziana e della partecipazione alle sue consuetudini.