Ad una prima impressione, gli spettacoli di Elvira Frosini e Daniele Timpano assomigliano ad un grande « Bignami » compulsato quasi con voluttà: una drammaturgia di citazioni, di date, di resoconti in cui storia, arte e politica si scontrano e si fondono senza sosta. Gli attori, col loro corpo e la loro voce, catalizzano la massa di informazioni per restituirla allo spettatore – e al lettore –, in un vortice di sketch e di tirate interminabili. A prima vista, l’estetica scenica e la spiccata dimensione civile di questi spettacoli parrebbero collocarsi nell’alveo di quel fenomeno prettamente italiano che viene definito teatro di narrazione1: un attore/narratore2 su una scena spoglia, ridotta all’osso – una sedia, un leggío –, che racconta una storia, attingendo spesso alla Storia con la « S » maiuscola, e all’attualità. Ma ciò è valido per i nostri artisti?
Elvira Frosini e Daniele Timpano, coppia nell’arte e nella vita, attori/performers, drammaturghi e registi, appartengono al denso panorama teatrale romano impostosi all’attenzione del pubblico e della critica a partire dagli anni 2000 grazie ad una serie di spettacoli d’argomento storico e sociale. Queste creazioni, sullo sfondo di un contesto politico a dir poco agitato, agiscono come una cartina di tornasole degli umori di una società quanto mai inquieta, scossa da prospettive economiche sconfortanti, da fenomeni di immigrazione mal gestiti, infine da una crisi di identità blandamente rincuorata da commemorazioni ufficiali, come le celebrazioni per i centocinquant’anni dell’unità d’Italia, nel 2011.
Ho deciso di prendere in esame i testi di quattro spettacoli: due sono interamente scritti da Daniele Timpano (Dux in scatola, 2006; Aldo morto: tragedia, 2012); un terzo, Risorgimento pop, del 2011, scritto da Timpano e Marco Fumaroli3; infine Acqua di colonia, del 2016, di Timpano e Elvira Frosini4. Questa drammaturgia, impegnata in una dialettica corrosiva con la realtà italiana, offre interessanti spunti di riflessione su numerose questioni socio-politiche.
Elogio del frammentario: crisi dello storicismo e post-narrazione
Il continuo va e vieni tra passato e presente, la sovrapposizione di elementi di cronaca contemporanea e di eventi passati perfettamente fusi in sequenze ora asciutte, ora generose, caratterizzano quella che potremmo definire drammaturgia sincronica. Con l’espressione drammaturgia sincronica si intende invitare il lettore a considerare superata la prassi della diegesi progressiva, in virtù delle numerose digressioni in cui incespica il racconto, dei momenti in cui le informazioni sembrano affiorare tutte insieme. Si tratta di date ed eventi storici precisi a volte rimaneggiati, con l’aggiunta di dettagli verosimili, o stravolti da situazioni e personaggi di fantasia5. Questa drammaturgia è un’operazione di epistemologia della Storia come strumento di conoscenza, sulla cui bontà si fonda gran parte del cosiddetto teatro civile contemporaneo. Il continuum storico è interrotto dai carotaggi su cui Frosini e Timpano si soffermano, sottolineandone i punti problematici, i paradossi.
Nel quadro della scena italiana del XXI° secolo, segnata dal successo del teatro di narrazione, il lavoro di Frosini/Timpano sembra indicare un percorso inedito. Il nostro duo di autori e attori sciorina date e dati in un disordine apparente – un affastellarsi d’informazioni, di digressioni, di spunti di riflessione –, affidando ad un tono parodistico documentatissime ricostruzioni storiche e storiografiche. Gli artisti portano in scena la loro identità, i loro propri pensieri e le loro contraddizioni; l’identità può talvolta nascondersi dietro quella di personaggi storici o inventati. Gli spettacoli presi in esame si presentano talvolta come un cantiere aperto, uno scorcio sulle prove durante le quali ci si interroga sulle possibilità di messinscena di questo o quel fatto storico, questa o quella vicenda. Un continuo oscillare tra l’apparente oggettività delle fonti e il racconto di come quei fatti siano giunti a noi.
Un primo aspetto caratteristico dell’operazione artistica di Frosini/Timpano, l’elemento ricorrente sul quale poggiano molti dei loro testi, è sicuramente la riflessione, con relativo disvelamento impietoso, sul linguaggio della politica e della comunicazione di massa; una retorica mostrata come ormai logorata dal tempo, spompata, incapace di rinnovarsi, di indicare nuove strade, nuovi valori da condividere, incredibilmente statica. Il lessico, le parole d’ordine imposte dalla stampa, dai telegiornali, dall’agone politico, digerite in maniera acritica e passate al senso comune, sono un materiale estremamente duttile. Nel lavoro di drammaturgia, questa verbosità ambiente viene dunque utilizzata e sfruttata proprio in virtù del fatto che questa tanto più si fa roboante, tanto più suona vuota, producendo strani effetti di risonanza.
Il racconto non sta in piedi. I fili logici e cronologici che tengono uniti gli eventi e i personaggi presenti negli spettacoli che più ci interessano non si sviluppano in modo regolare, ma si offrono a noi sotto forma di matassa. Non sono narrazioni: si tratta piuttosto di tentativi di racconti, di storie abbozzate e subito incagliate in una secca. Si tratta del fallimento di ogni tentativo di proporre, da artista a spettatore, un discorso didascalico compiuto. Credo che il lavoro di Frosini/Timpano possa riconoscersi in un approccio pienamente post-novecentesco per due motivi: il primo anagrafico, in quanto si riflette su spettacoli degli anni 2000 e 2010; il secondo, più pregnante, poiché affronta e rivela la perdita di coordinate della classe media6 italiana – europea, occidentale –, ancora occupata ad elaborare il lutto del secolo breve, delle ideologie, a voltare la pagina dello storicismo, secondo l’accezione ampia suggerita a suo tempo da Karl Popper7. In questa denuncia della posizione delle grandi vulgate, o delle controinchieste « lineari », vince l’idea del frammentario.
Il dialogo Risorgimento pop nasce e debutta tra il 2010 e il 2011, quindi nel pieno dei preparativi per festeggiamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia, con tutto il corollario di parate e di documentari alla televisione. Le parole che raccontano il paese, o con le quali il paese si racconta, sono messe insieme dai nostri artisti in collage tanto più divertenti quanto più desolanti. Dietro questo lavoro si sviluppa una riflessione su uno Stato, una nazione, l’Italia, in cui anche i rari eventi, i rari momenti che vorrebbero incarnare una parvenza di unità, diventano trampolini per regolamenti di conti tra fazioni politiche, o rinfocolano polemiche tra Nord e Sud dello stivale8. Si tratta di un racconto strampalato dei fatti del Risorgimento: la storia d’amore tra Giuseppe Garibaldi e Anita, romanzata come una telenovela sudamericana, è lo sfondo di un’epopea claudicante, fatta di luci e d’ombre, che ha portato all’unificazione degli stati italiani.
La dimensione pop, rivendicata dal titolo, è data dai numerosi aneddoti e dalle divagazioni, da Masaniello a Britney Spears, che intralciano lo svolgersi del racconto. All’inizio dello spettacolo, in uno slancio di eccessiva onestà, il performer Timpano svela la ragion d’essere di Risorgimento pop.
Timpano: Tre furono i motivi che ci spinsero a realizzare uno spettacolo sul Risorgimento! […] Primo motivo: ricordare all’Italia e agli italiani molti dei suoi valorosi patrioti che lasciarono la vita sui campi di battaglia combattendo per essa, per l’Italia, e sopperire così alla totale assenza, nel popolo italiano, di una qualunque memoria storica relativa al processo risorgimentale […] Secondo motivo… […] No. No. […] Terzo motivo e ultimo… – Con un sospiro, togliendosi gli occhiali – Campare infine un po’ anche noi col nostro guadagno precario di teatranti, vendendo lo spettacolo nella ricorrenza dei 150 anni dell’unità d’Italia9.
Riprendendo la riflessione sul teatro di narrazione, possiamo dire che uno spettacolo come Risorgimento pop gli sta accanto. Una vera e propria parodia che è possibile leggere in due modi: la confessione contrita che abbiamo appena letto, non solo fa il verso al teatro inteso come servizio pubblico – « rivediamo insieme la Storia d’Italia » –, ma denuncia allo stesso tempo la dimensione economica dell’arte al servizio dello Stato.
Tra i bersagli grossi di questo spettacolo troviamo, come dichiarato da Timpano nella citazione precedente, la memoria collettiva degli italiani, nella quale i pochi eroi nazionali si aggirano come fantasmi senza dimora. A questo proposito, lo spettacolo dedica molto spazio alla figura di Giuseppe Mazzini, sicuramente il più repubblicano tra i padri fondatori10, ma largamente dimenticato, come dimostrava almeno fino al 2011 lo stato d’incuria del cimitero che ne accoglie le spoglie11.
Non si tratta solo di degrado materiale, ma anche spirituale: «nessuno si raccoglie sulla tomba di Mazzini», denuncia Daniele Timpano dal palcoscenico. La poca cura dello Stato nei confronti del politico è designata come una delle cause e dei sintomi dello scarso sentimento di unità nazionale che caratterizzerebbe gli italiani. Il che ci porta ad un ultimo appunto su Risorgimento pop, che tratta dell’attualità: questo spettacolo permette, in fondo, un’analisi precisa sull’eco che la stagione risorgimentale trova nelle rivendicazioni secessioniste del Nord, ma anche del Sud, attraverso i cosiddetti neo-borbonici, nostalgici del regno delle due Sicilie. Il tutto, naturalmente, è supportato da citazioni di discorsi presi da tribune elettorali o da manifesti programmatici, nell’eterno scontro tra Padania e Mezzogiorno12. In un’epoca litigiosa come la nostra, in cui il senso della Storia non costituisce più un argomento, i valori e le figure risorgimentali non possono essere maneggiati senza essere inevitabilmente malmenati.
Il tono parodistico e scanzonato di Risorgimento pop, vera e propria danza macabra in chiave comica13, è completamente abbandonato e si fa amaro nel monologo Aldo morto. Tragedia. Il tema principale è naturalmente l’omicidio del segretario della Democrazia cristiana, Aldo Moro, rapito e assassinato dalle Brigate rosse nel 1978; o meglio, il modo in cui la figura ormai mitica di Moro sopravvive nella memoria degli italiani, attraverso interpretazioni artistiche e giornalistiche14.
All’epoca dei fatti evocati, Daniele Timpano aveva tre anni. Le immagini legate a quell’evento, uno degli atti finali dei cosiddetti anni di piombo – con il susseguirsi di inchieste, di allusioni a servizi segreti deviati, gli arresti dei brigatisti –, si rincorrono e si intrecciano con ricordi d’infanzia, alimentando una cacofonia di impressioni, di interpretazioni, di domande ancora senza risposta.
Le numerose questioni sollevate dall’autore, sempre vive nella mente di quegli spettatori che erano adulti negli anni ’70, non lasciano certo indifferente quella parte di pubblico che, troppo giovane all’epoca, ha sentito il racconto di quei fatti dai propri genitori, o si è informata grazie ai documentari televisivi, attraverso le dichiarazioni di terroristi pentiti, la cui immagine è stata talvolta edulcorata dalle produzioni cinematografiche e da improvvide dichiarazioni15.
Cercare di comprendere la storia italiana di quegli anni, prima ancora che raccontarla, significa imbattersi in una palude di cronache giudiziarie, di dichiarazioni di personalità politiche e non, di personaggi e di resoconti contraddittori. Non a caso, in Aldo morto, il personaggio cui Daniele Timpano affida una parte di questo racconto ha i tratti di Adriana Faranda, implicata nel rapimento di Moro, e dichiaratasi contraria all’assassinio. Ma laddove il teatro di narrazione ci ha abituati a rivelazioni di documenti a lungo secretati, ha tentato di colmare le lacune della vulgata storica16, ecco che Frosini e Timpano scelgono di sottolineare i punti nevralgici delle storie che affrontano. Il personaggio della terrorista non fornisce quindi la sua testimonianza, ma si limita a pubblicizzare il libro in cui narra la propria detenzione in carcere, dal 1979 al 1994. Cioè, la sua vita dopo il caso Moro. Un’altra figura chiave della stagione del terrorismo trova spazio in scena: Renato Curcio. Il fondatore delle Brigate rosse ha i tratti del robot del cartone animato giapponese Mazinga Z, diffuso dalla televisione italiana a partire dal 1979.
Personaggio controverso, Curcio si lancia in un monologo autocelebrativo ai limiti dell’agiografia, una parabola che va dalla mai rinnegata lotta armata alla sua attività di saggista.
Niente applausi, compagni. Io. Sono qui come un lavoratore questa sera […]. Ora sono fuori. Le brigate rosse sono solo un capitoletto della mia esistenza […]. Ma io non mi sono mai pentito […] non ho sbagliato. Solo. La società è cambiata. Non ci sono più le condizioni. Ma avevamo ragione […]. Io sono un intellettuale. Io scrivo romanzi. Saggi. Io faccio il direttore editoriale. Io faccio ricerca sociale […]. Siamo una cooperativa. «Sensibili alle foglie» […]. Noi sforniamo 10 titoli l’anno ormai. Noi vendiamo anche settemila copie a volume. Noi siamo una realtà. Noi siamo una squadra. Noi siamo il futuro. Io. Sono il futuro. Io sono rinato. Re-nato è ri-nato. Omen nomen17.
Aldo morto è uno spettacolo generazionale, non solo per gli elementi autobiografici della drammaturgia – ricordi personali, accenni alla famiglia dell’autore –, ma anche e soprattutto perché rispecchia l’attitudine dei 30-40enni italiani rispetto alla stagione del terrorismo rosso e nero: a metà strada tra il desiderio di voltare pagina e la voglia di capire, di conoscere il clima di passione politica che ha caratterizzato la gioventù dei propri genitori. Da lì muove un’ultima considerazione sconfortata e sconfortante sulle istituzioni della Repubblica; nelle battute finali, infatti, l’attualità sgorga di prepotenza dalle parole dell’interprete, sfociando in un delirio e una dichiarazione di impotenza, di incapacità di agire, di incidere attraverso l’esercizio della democrazia18.
Nel suo saggio introduttivo a Storia cadaverica d’Italia19, Graziano Graziani descrive gli spettacoli di Daniele Timpano come anti-narrazioni: non solo in quanto i presupposti logici del racconto si trovano a soqquadro, ma anche da un punto di vista ideologico, poiché l’artista smonta « le retoriche di ogni tesi possibile anziché affermare la propria »20. Mi sembra ugualmente giusto suggerire il termine di post-narrazione, nella misura in cui questa drammaturgia frammentaria segna il superamento di un certo teatro di narrazione, il cui approccio alla materia storica, spesso figlio di una formazione e d’un’educazione politica partitica, appare ormai fuori gioco.
Autobiografia di una nazione. Fantasmi di ieri e di oggi
Per il modo in cui si sviluppa la riflessione di Frosini/Timpano sull’attualità, sulle tare della nazione, sul senso civico degli italiani, il riferimento gobettiano pare calzante21. Questa prassi è condotta con una buona dose di lucido disincanto squisitamente romano: i due artisti non adottano nessuna postura morale, non si pongono al di sopra degli spettatori, non sono esemplari. Non la sanno più lunga di chiunque altro; se è vero che i loro testi sono il frutto di letture intense – archivi, romanzi, saggi storici e filosofici –, alla fine ciò di cui si discute sulla scena è alla portata di tutti. I momenti più esplicitamente didascalici degli spettacoli in questione sono immediatamente ridicolizzati, attraverso la ricerca costante di una complicità col pubblico che non porta all’elevazione, ma alla condivisione di un senso di colpa colpevolmente divertito. Tutto ciò esercita un’azione di disturbo nei confronti dello spettatore, che vede mettere in discussione non solo l’ethos dei due attori/performers, ma anche il proprio. A monte di quest’operazione troviamo la ricerca della reversibilità tra l’identità degli interpreti e quella dei personaggi, attraverso alcuni procedimenti: soprattutto tecniche metateatrali – rivolgersi direttamente al pubblico – e astuti, metaforici giochi di specchi che creano ambiguità nella ricezione dei messaggi. Come vedremo, non si tratta di un gratuito épater les bourgeois – che equivale ormai a gigioneggiare –, quanto piuttosto di un gioco profondamente consapevole dei limiti della trasgressione a buon mercato.
La forza d’urto e le polemiche nate attorno al monologo Dux in scatola, per esempio, vengono dal fatto che il giudizio del pubblico resta sospeso anche alla fine dello spettacolo. Il sottotitolo, Autobiografia dall’oltretomba di Mussolini Benito, anticipa la dimensione parodica d’una testimonianza tanto sfrontata quanto interessante: una para-storia raccontata da uno sconfitto ingombrante, le spoglie del vecchio dittatore italiano che si rivolge a noi attraverso il performer Timpano. La cifra dell’interpretazione è a metà strada tra la prosopopea e il medianismo, e alimenta un gioco perverso tra sentimenti contrastanti, dal disgusto alla pietà.
Il racconto comincia come la più classica delle favole:
Nella nostra bella Italia, tra le due guerre, fioriva in Italia uno statista meraviglioso: Benito Mussolini. Facciamo uno sforzo d’immaginazione collettiva: fate conto che sia io. – Mi indico – Morto. – Indico il baule – Come tutti i grandi ero alto 80 centimetri e largo 40, un anno dopo la mia morte, che ora vi racconto. 28 aprile 1945, era sabato. No, un momento. Cosa c’è da sapere? In Italia c’era stato – e c’è stasera – il fascismo per vent’anni, ve lo ricordate? Ce l’ho portato io. Poi la guerra, la Resistenza, la Liberazione ma tutto questo stasera c’interessa poco: questa è la narrazione documentata delle avventure post-mortem del più bello degli italiani. Personaggi principali: io. Interpreti principali: io. Altri interpreti: basta22.
Sono sufficienti pochissime frasi per sciogliere la pellicola estremamente porosa tra attore e personaggio: l’invito allo sforzo d’immaginazione richiesto al pubblico, nella più diretta retorica metateatrale, è seguito dalla rapida con-fusione tra Timpano e Mussolini: « Personaggi principali: io. Interpreti principali: io ».
La parola del dittatore – del suo fantasma –, prende subito il sopravvento. Solo qualche timido sussulto del performer ci ricorda che una distinzione tra i due soggetti è possibile. La chiave di tutto lo spettacolo ci è consegnata da subito: in questa prima battuta non c’è soltanto lo scambio d’identità tra il performer e il Duce, il cui fantasma annuncia la propria versione della Storia; in un inciso fulminante, Timpano/Mussolini allude alla persistenza del fascismo nel panorama italiano. Infatti il monologo, informato dalle ricerche di Sergio Luzzatto23, si sofferma in particolare su quanto avviene tutti i giorni intorno alla cripta della famiglia Mussolini, in cui riposa il dittatore24. Raduni di nostalgici e saluti romani, il tutto in una rete di bancarelle e di negozi specializzati in oggettistica fascista: santini del Duce, manganelli, magliette, pseudo-reliquie ecc. Tutto, naturalmente, in barba alle leggi promulgate per contrastare questi fenomeni25.
Il narratore interviene per mettere in guardia il pubblico dai rischi di un’eccessiva compassione nei confronti del dittatore. Si tratta di uno dei rari momenti di Dux in scatola in cui la dissociazione tra l’interprete e il fantasma di Mussolini sembra più netta.
Questa connivenza tra scena e platea è una vergogna. Io e voi siamo d’accordo, eh? Io e te non siamo mica come quei fascisti là fuori, vero? […]. Dio, patria, famiglia, Dante, Leopardi, D’Annunzio, Alfieri, Goldoni, Carducci, e l’enciclopedia Treccani, e le targhe commemorative, e il milite ignoto, e l’altare della patria, e il risorgimento, e Garibaldi: siamo circondati da secoli di «cultura» reazionaria, papalina, paternale, aristocratica, retorica, destrofila e sessista. Ogni italiano dovrebbe gettare la maschera e dichiararsi francamente fascista (vale a dire reazionario, papalino, paternale, aristocratico, retorico, destrofilo e sessista)26.
Ma quest’appello, recitato in chiave comica, risulterà sterile: la parola del fantasma prenderà il sopravvento, inghiottendo alla fine il performer.
Il tema sulla complicità tra artista e spettatore è ripreso e particolarmente sviluppato nello spettacolo Acqua di colonia, la cui prima parte costituisce un gioco di specchi di rara potenza. Quest’opera è strettamente legata all’attualità del fenomeno migratorio sull’asse sud/nord, che spinge decine di migliaia di donne e uomini dall’Africa all’Europa, con o senza documenti; siamo al punto di partenza di una riflessione che interroga il modo in cui la società occidentale ha costruito il proprio sguardo sul resto del mondo. Nelle parole dei Frosini e Timpano i rifugiati politici, i richiedenti asilo, divenuti venditori ambulanti nei centri storici delle città italiane, sono l’incarnazione non gradita di un immaginario da sogno: l’Africa selvaggia delle produzioni hollywoodiane, o di una guida turistica del 1938. Ecco dunque che risuonano sulla scena versi di poesie, passaggi di romanzi, di saggi filosofici, citazioni di film, articoli di legge, arie d’opera, insomma tutto quel che fa parte del nostro patrimonio culturale e che, in un modo o nell’altro, ha contribuito alla stratificazione di stereotipi e di a priori verso i popoli considerati «altri», quando non hanno incoraggiato e giustificato guerre coloniali.
Anche in questo spettacolo la complicità tra palco e platea non sortisce alcun effetto catartico, ma si traduce in una trappola per lo spettatore. Il candore con cui i due artisti ammettono la propria ignoranza su certi eventi storici che ancora incidono nei rapporti con cittadini italiani discendenti dalle ex colonie27, è solo il primo passo di una lunga introspezione collettiva.
DANIELE: [Al pubblico] Noi siamo colonialisti? Lo siamo stati? Lo siamo ancora? (a Elvira) Oh, chi ci capisce niente.
ELVIRA: Non sappiamo niente.
DANIELE: Queste cose in Italia non le sa nessuno. Nemmeno noi […]. Tu, per esempio, che sai?
ELVIRA: Boh, Faccetta nera? Viale Libia?... Via dell’Amba Aradam a Roma, dove c’è l’ufficio dell’INPS.
DANIELE: Ah, poi c’era la stele… la stele di Axum. Te la ricordi? La stele di Axum, sempre a Roma, vicino al Circo Massimo. Veniva dall’Africa, mi pare. Poi boh, la rivolevano, ce l’hanno chiesta indietro anni e anni di seguito e noi niente, e non lo so, boh, poi mi pare che gliel’abbiamo rimandata, e infatti non c’è più28.
Segue una riflessione sulle soluzioni sceniche da adottare per confezionare uno spettacolo didascalico umoristico, ma niente che assomigli ad un racconto: si immaginano sketch, si abbozzano scenette che effettivamente saranno realizzate durante la seconda parte dello spettacolo. Creare storie, scriverle, mettere ordine in tutto ciò che è conoscenza del passato con lo scopo di illuminare il presente, in un certo modo scrivere la Storia, risulta da subito un’impresa vana. Questa prima parte di Acqua di colonia potrebbe filare così, portata dalla presenza scenica e dalla vis comica di Elvira Frosini e Daniele Timpano. Ma in realtà non fila così. Sulla scena, completamente ignorata dai due attori, siede su una sedia di scuola una donna nera29: questa ascolterà in silenzio la sfilza interminabile di clichés sull’Africa e i suoi abitanti, la retorica condiscendente dell’umanitarismo zelante, fino alle tesi filosofiche intrise di razzismo, da Kant a Croce, da Rousseau a Hegel.
Agli occhi del pubblico, questa presenza agisce come terzo incomodo, come la vittima di un gioco sadico che diverte attori e spettatori. Questi però non possono fare a meno di riconoscere nella donna seduta il bersaglio degli orrori proferiti dai due artisti. Ed è là che lo spettatore si trova con le spalle al muro: il suo divertimento, le risate con le quali reagisce alle battute di Frosini e Timpano, si svolgono davanti agli occhi dell’unica spettatrice muta. Se durante il monologo Dux in scatola i sentimenti oscillano tra la pietà e lo sdegno, lo stato d’animo dominante nel corso della prima parte di Acqua di colonia è la coda di paglia. Il dispositivo messo in moto dai due artisti è implacabile: se non riusciamo a non vedere nella donna nera nient’altro che un parafulmine di quel che si dice in scena, è un problema nostro e della nostra coscienza. D’altronde, lo spettacolo comincia così, con un problema di coscienza:
ELVIRA: Senti ma tu che cosa pensi, no, quando sei al bar, in Piazzetta, da buon finto proletario radical chic artista con le Birkenstock, e ti fai l’aperitivo, e intanto passano dieci, quindici di questi che vendono l’accendino, il carica batterie [...] No, perché io mi innervosisco e comincio a guardare per terra, mi viene voglia di dargli tante botte […], e poi ecco poi mi sento proprio male, ma proprio male […]. E insomma, io a questo qua non lo conosco, perché dovrei sentirmi male ?30
La potenza del gesto artistico di Frosini/Timpano risiede in fondo proprio nel ribaltamento di alcuni codici del teatro di narrazione, che convergono sulla costruzione e la condivisione di un racconto edificante. La tenuta di questo obiettivo può infatti saltare se si mette in gioco la fragilità dell’asse scena/sala. Il teatro di narrazione, il teatro civile specialmente quello affermatosi degli anni ’90 e i primi 2000, si rivolge ad un pubblico ormai conquistato alla causa: tra il palco e gli spettatori si è instaurato un riconoscimento reciproco di posizioni etico-morali largamente condivise. Frosini/Timpano disinnescano con applicazione questi equilibri, lasciando brutalmente lo spettatore solo con le sue contraddizioni, costringendolo a mettersi costantemente in discussione. È un teatro che riattiva una accezione ormai dimenticata della parola crisi, forse la più politica: discernimento.