Corrado Govoni è noto in quanto autore particolarmente prolifico, ma se tale caratteristica gli è senz’altro riconosciuta per la poesia, con i circa duemila componimenti in una ventina di raccolte, dovrebb’essergli riconosciuta pure la sua produzione in prosa. Il poeta ferrarese scrisse infatti una decina di romanzi (di cui sei pubblicati fra il 1920 e il 1926 e l’ultimo nel 1960) e altrettante raccolte di novelle. Inoltre, Govoni è anche uno degli scrittori italiani del Novecento di cui si possiede il maggior numero di inediti, la maggior parte conservati nel Fondo Govoni presso la Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara1. Il fondo venne costituito in due tappe. La prima è nel 1967, con la donazione degli eredi (i figli Ariele e Mario), dopo la morte del poeta il 20 ottobre 1965, del migliaio di volumi appartenuti a Govoni (per l’esattezza 1076 volumi, che rappresentano solo una parte della ricca biblioteca d’origine, venduta in seguito alle difficoltà economiche attraversate in vari periodi, a partire dagli anni ’20 e fin dopo il secondo conflitto mondiale). La seconda donazione è del 1972, quando la Biblioteca Comunale di Ferrara acquisisce il corpus dei manoscritti e del carteggio2.
Così, nel complesso, il Fondo Manoscritti Govoni della Biblioteca Ariostea è costituito di circa 5000 pezzi, tra dattiloscritti, quaderni, manoscritti « abbastanza ordinati », gruppi di fogli e fogli sparsi. Il fondo è fin dall’inizio costituito da « […] un insieme eterogeneo di materiali, raggrupati in album e buste, che conservano il “disordine d’autore” con il quale sono pervenuti alla Biblioteca Ariostea. Il fondo, infatti, pervenne alla Biblioteca ammassato alla rinfusa in pacchi e cassette, che furono successivamente sciolti per una migliore conservazione e per un primo approccio alla conoscenza dei documenti: furono numerati i pezzi sparsi – ossia fogli, mazzi di fogli, fascicoli, quadernetti – di cento in cento, riponendoli in buste secondo questa suddivisione. Ognuna delle buste fu poi numerata e dotata di un sintetico inventario. […] »3.
Solo di recente, a partire dal 2006, Angela Ghinato, con la collaborazione di Tania Bertozzi per la sezione « romanzi », ha iniziato e portato a termine un inventario4 sistematico del Fondo che rende conto ormai del materiale donato, tra manoscritti, dattiloscritti, carteggio, fotografie e raccolta libraria. I pezzi del materiale sono stati sistemati secondo sei sezioni (poesia, romanzi, novelle e racconti, teatro, corrispondenza, archivio personale), ciascuna con il proprio schedario analitico.
Il Fondo Govoni della Biblioteca Ariostea di Ferrara
L’opera di Govoni, come viene più volte evocato nelle numerose analisi critiche, attraversa in modo abbastanza ovvio una fase « crepuscolare » (con la raccolta Le fiale, del 1903) e una fase « futurista » (con le Poesie elettriche, del 1911). Gli anni 1919-1925 segnano poi una svolta nella produzione poetica, lasciando maggior spazio alla prosa, proprio nell’arco di questo periodo5 (cfr. la breve bibliografia qui acclusa per le opere in prosa). In seguito, Govoni riprende l’attività poetica, ma sempre accompagnandola dagli scritti in prosa.
Tale movimento nella poetica dell’autore coincise in sostanza con il suo trasferimento da Ferrara a Roma, già nel 1919: città dove diventò vicedirettore della sezione libro della SIAE e segretario del Sindacato Nazionale Scrittori e Autori, titoli di apparente prestigio ma che nascondono una realtà alquanto più squallida per lo scrittore. Infatti, questi impieghi da « protocollista statale »6 furono innanzitutto per Govoni un espediente per fronteggiare le sue difficili condizioni economicheche continueranno dopo la fine della guerra e comunque una fonte di amarezza, come lo ha evocato più volte (per esempio, nel 1937, Govoni commenta un suo disegno di un millepiedi in quanto « autoritratto di impiegato statale kafkaiano »).
Le sue ultime raccolte poetiche di una certa rilevanza sono Rarefazioni e parole in libertà (Milano, Edizioni Futuriste « Poesia ») e L’inaugurazione della primavera (Firenze, La Voce), due libri che gli hanno recato una certa notorietà. Dopo la parentesi del richiamo alle armi nel 1917 e della fine della guerra nel 1918, Govoni cerca visibilmente una nuova via poetica, dedicandosi più alla prosa che alla poesia: nel 1916 pubblicava cinque componimenti nel volume Ferrara per i soldati d’Italia, presso gli Stabilimenti Tipografici Riuniti di Bologna, e nel 1918 usciva la raccolta delle Poesie scelte, presso la casa editrice Taddei di Ferrara.
Oltre l’importante produzione in prosa (novelle, raccolte di novelle e romanzi)7, nel periodo tra le due guerre, pubblicò una serie di testi che suonano come altrettanti omaggi al fascismo, tra cui « Lo sghignazzatore » (dedicato a Italo Balbo) e « Al Duce invulnerabile » (pubblicati nel Corriere Padano, 1926), più un encomiastico Saluto a Mussolini (Roma, Ed. Al Tempo della Fortuna, 1932), la « rapsodia fascista » La crociera celeste (Rivista di Ferrara, 1934) e il Poema di Mussolini (Cucciagni, 1937). Questo apparente « impegno » politico corrispondeva comunque più che altro a una necessità vitalizia, rispondente a una certa difficoltà nel gestire i propri affari, già rivelatasi a Ferrara dopo la morte dei genitori8, anche se, per certi aspetti, tutto il suo atteggiamento sta ne « […] l’ambizione di meritarsi le giustificazioni e le onorificenze del fascismo [che] lo spingono, nel 1932, verso una prospettiva di poeta-vate nelle poesie di Il flauto magico, pubblicate dall’editrice Al Tempo della Fortuna […] o, addirittura, verso la celebrazione del duce [con] Saluto a Mussolini e il Poema di Mussolini »9. È in sostanza la ricerca di un riconoscimento che perdurerà negli anni successivi « […] in cui, pure, vanno puntualmente deluse le aspettative legate alle promesse mai mantenute di imminenti incarichi alla Reale Accademia d’Italia e di elargizioni cospicue al fine di risollevare una condizione economica divenuta nel frattempo quasi disperata »10. Questo « impegno politico » gli venne poi rimproverato in quanto « compromissione », pure dopo che il figlio Aladino, impegnato nei ranghi della resistenza ai nazifascisti, era stato fucilato alle Fosse Ardeatine.
Dalla « sincerità » alla censura
Fatto sta che all’inizio degli anni ’20, i problemi economici di Govoni lo spingono a chiedere a Mussolini (il quale, in piena coerenza con la sua politica dittatoriale, controlla tutte le richieste degli impiegati statali) una somma di denaro che sarà quasi subito l’occasione di un equivoco tra il dittatore e il poeta: un disguido che segnerà poco dopo l’emarginazione dello scrittore. Il carattere « politico » di quell’equivoco non è stato chiaramente stabilito, ma la vicenda prendeva lo spunto da un « ringraziamento mancato » del poeta a Mussolini: un ringraziamento aspettato in cambio delle somme di denaro concesse. Mussolini, in seguito a vari scambi epistolari amministrativi, decretò la disgrazia di Govoni, lasciando alla gerarchia amministrativa l’impegno di castigarlo, costringendolo in particolare a dare le dimissioni dal suo impiego alla SIAE, insieme ad altri due colleghi (Guido Milanesi e Pietro Mascagni)11.
I particolari della vicenda sono consegnati nel volume di G. Iannaccone, Suppliche al Duce12, che elenca e registra la « corrispondenza filtrata » intercorrente tra i due protagonisti fino all’agosto 1941 (ovviamente gli scritti di Govoni erano filtrati dalla trafila amministrativa). Il caso comincia propriamente il 27 maggio 1931 a Roma, con una lettera di Govoni in forma di supplica, che chiede un aiuto economico. Gli vengono attribuite 10 000 lire e, nel luglio 1931, Mussolini s’informa se Govoni « […] ha mai ringraziato delle 10 000 lire che gli abbiamo dato ? ». L’amministrazione avendo verificato l’assenza effettiva di ringraziamenti, segue una serie di scambi di biglietti al termine della quale Mussolini viene informato di come Govoni abbia pretestato un « disguido postale » come motivo del mancato ringraziamento. Il 29 agosto 1931, un biglietto di Mussolini considera l’« incidente chiuso ». Tuttavia, il 28 settembre, Forges Davanzati, uno dei responsabili amministrativi, denuncia vari atteggiamenti di Govoni, e la delazione viene chiaramente segnalata anche all’interessato, il quale cerca di rientrare nelle grazie di Mussolini in un periodo che corre dal 1932 al 1933. Così, il 30 luglio 1933, Govoni scrive una lettera al Duce in cui allude a un romanzo in fieri e al fatto di vivere una situazione difficile con una « […] dura esperienza di uomini […] », proprio mentre « […] sta conducendo a termine il più vasto e più nuovo romanzo italiano dopo i Promessi sposi »13.
A quel punto, il caso potrebbe concludersi anche con un nulla osta, ma sembra che Govoni sia caduto definitivemente in disgrazia. A dir il vero, si era ovviamente emarginato per via di un comportamento a quanto pare troppo disinvolto sia nei confronti di Mussolini che dei responsabili amministrativi. A conclusione del « malinteso », un biglietto del 17 settembre 1934, non firmato, dichiara: « Corrado Govoni è fior di mascalzone a meno che non sia diventato matto. L’Ufficio Stampa ha sequestrato bozze di un volume antifascista, antimussoliniano, antiumano. Corrado Govoni ha sino ad oggi percepito 2 mila mensili dall’U.S. senza corrispettivo. »
Poco tempo dopo, lo scrittore è costretto alle dimissioni dal suo impiego di vicedirettore della sezione libro della SIAE. La vicenda, che si svolse proprio mentre il poeta stava scrivendo il romanzo che in seguito mai sarebbe stato pubblicato, dà in un certo qual modo ragione a quei versi scritti da Govoni in cui dichiarò: « La vita si vive godendo, o si scrive soffrendo. / Il mio barbaro destino ha voluto che la soffrissi, / vivendola e scrivendola ».
L’illusione di poter contare su appoggi politici era entrata in contraddizione ovvia (tranne forse per Govoni stesso, intento a cercar di sopravvivere) con la sua indole naturalemente orientata all’indipendenza, come lo dimostra per esempio il suo atteggiamento critico rispetto al futurismo e a Marinetti, di cui testimonia una lettera a Aldo Palazzeschi (che si compiaceva di essere il compagno del poeta ferrarese), in cui viene detto: « È superfluo qui che io ti dica quale piccola parte abbia sempre presa nello svolgimento del futurismo in quanto propaganda ed esteriorità, perché tu sai bene che io ho fatto sempre le mie riserve su tutto quello che sosteneva come vangelo Marinetti e che io non ho mai esibito (e tanto meno le ho approvate) nelle così dette serate futuriste »14.
Bisogna pure notare che alcuni passi del manoscritto potevano attrarre l’occhio della censura del regime. Questo vale in particolare per quel brano che mostra il protagonista impegnato in trattative con i membri della Lega locale (alquanto losche per il figlio di un piccolo proprietario agrario), oppure per quello in cui viene alluso a una « battaglia del grano » e a una « guerra » visibilmente poco apprezzate15. Quest’ultimo brano ha peraltro, a momenti, delle connotazioni affini a certe tonalità palazzeschiane che ritroviamo in alcune pagine di Due imperi mancati, quindi particolarmente « politicamente scorrette » e poco gradite dal potere.
Il romanzo a cui alludeva Govoni nella lettera del 30 luglio 1933 è appunto il libro che in seguito avrebbe voluto intitolare Censura, sulla scia dell’equivoco intervenuto (equivoco di una certa importanza per l’autore, come si vedrà), e in piena coerenza con l’avvenuto. Ma il libro rimarrà allo stato di manoscritto, proprio mentre Govoni lo stava correggendo per affidarlo in modo effettivo ai tipi della Mondadori (a quanto pare le bozze della casa editrice erano già pronte): come si può dedurre dagli appunti ritrovati nelle carte di Govoni insieme al manoscritto, dopo la vicenda con Mussolini, il romanzo menzionato nel carteggio con il dittatore era praticamente compiuto e ormai quasi pronto per la stampa quando venne bloccato dalla censura. Govoni vi rimise mano dopo la guerra per rivederlo e ampliarlo, fino ad arrivare al testo che sarà il romanzo pubblicato nel 1960, intitolato Uomini sul delta.
Il manoscritto di Censura: descrizione
Il manoscritto del romanzo conservato nell’Archivio della Biblioteca Ariostea di Ferrara risulta completo, con la grafia di Corrado Govoni, e porta il titolo Censura, affiancato da un altro titolo, cancellato, Vogliamo conoscere anche gli angeli !
Il testo del romanzo consta di 815 fogli, numerati da Govoni sul retro dei fogli o sul margine superiore destro, con lapis rosso o matita. Appaiono varie correzioni, sia nella numerazione dei fogli, sia sul testo stesso, con cassature e aggiunte a matita o a penna, segno di varie operazioni di rilettura. Il materiale è stato suddiviso in 5 buste: p. 1-303; 304-479; 480-655; 656-815.
La carta usata da Govoni è costituita da fogli spessi, senza righe e di taglio variabile: in media, cm 25,5 x 18,5 oppure cm 25 x 17,5 con le pagine 656-674 di taglio cm 25,5 x 12,5. A partire dalla pagina 744, la carta dei fogli è più sottile (spessore normale) e molti dei fogli sono rigati. Quando la carta è rigata, i fogli sono stati tagliati per metà, e Govoni vi ha scritto sopra perpendicolarmente ai righi.
In modo abbastanza ovvio, il manoscritto appare come la bella copia del romanzo: la scrittura è regolare, con pochi allentamenti di tensione grafica (ovviamente, il colore dell’inchiostro varia a seconda delle pagine e a partire dalla pagina 697, l’inchiostro non è più nero ma blu). Le correzioni sono abbastanza frequenti, ma il più delle volte sono correzioni grafiche e di ortografia. Si osserva in particolare la correzione sistematica di « chissà ? » in « chi sa ? » (tranne poche ricorrenze), oppure la correzione di virgolette, o l’espressione di alcune perplessità sul lasciare o meno le virgolette (per esempio p. 326). Le correzioni più importanti sono rare ma comunque presenti, pure esse, sia a livello di rifacimento del testo (paragrafi o brani riscritti)16, sia a livello di spostamenti di brani (capoversi o, a volte, pezzi più ampi)17.
In sostanza, il lavoro di correzione sul manoscritto è indizio abbastanza ovvio di una rilettura attenta del testo, allo scopo di poter consegnare il romanzo in tipografia.
Ai fogli del manoscritto del romanzo si aggiungono quelli degli appunti sciolti che occupano 32 fogli di note manoscritte. In sostanza, questi appunti permettono di seguire il percorso del testo del manoscritto dopo che ne era stata vietata la stampa. Si può pensare infatti che la redazione, compiuta e riveduta nel 1934 (mentre si preparava la stampa, poi bloccata dalla censura), sia stata seguita da un’altra lettura (e forse da una revisione) probabilmente nel 194818, poi ancora da un’altra alla fine del 1960, proprio mentre Govoni stava finendo di scrivere il romanzo Uomini sul delta (nel quale vari pezzi del manoscritto vennero riversati). Infatti, sul foglio n. 1 degli appunti sciolti viene riprodotta a mano una copertina del romanzo, con nome dell’autore, titolo e sottotitolo (« romanzo, o processo a porte chiuse al nostro tempo »). E sullo stesso foglio appare la precisazione con grafia chiaramente di Govoni: « è questa la prima stesura del romanzo Censura: il materiale del quale è servito e servirà per i tre volumi Uomini sul delta: I-La formazione di Tivàr (in corso di pubblicazione), II-Incantevoli donne (terminato), III-Un amore più grande dell’amore (da ultimare) »19. In calce a questa nota, Govoni ha firmato e datato « Roma, 6 dicembre 1960 ». Altri dieci fogli recano informazioni più particolarmente interessanti sul lavoro di revisione in fieri di Govoni. Così, il foglio n. 15 reca alcuni possibili titoli per i tre volumi della trilogia (il romanzo si compone comunque di 815 pagine manoscritte, corrispondenti quindi a circa 500 pagine dattiloscritte): « Censura: / Libro primo: Preludio / Libro secondo: Il mio Dio sei tu / Libro terzo: Tutti a Roma ! »20. Sul foglio 23, Govoni spiega la scelta del titolo, mentre i fogli 24 a 28 elencano i vari capitoli del romanzo con il loro taglio ideale. Il foglio n. 29 riprende la fine del « Preludio » e porta in calce la segnalazione « Roma, 1 febbraio 1934 -XII- »; inoltre, sul retro: « Fine del preludio, che poi verrà successivamente a coincidere con il termine del volume II Adesso viene il bello ! »; e sul verso: « Fra i tanti titoli da scegliere: Romanzo incompiuto ».
Il foglio n. 30 riproduce anch’esso la bozza disegnata a mano di una copertina, con nome dell’autore, il titolo « Vogliamo conoscere anche gli angeli ! romanzo » e la data « 1948 ». Il n. 31 reca vari titoli possibili per il romanzo, tutti cassati: « Incantevole donne, Meravigliose donne, La farina delle donne, L’amore: non c’è altro, Le donne: non c’è altro ». Seguono appunti sul riutilizzo del materiale narrativo: « Queste pagine (circa un’ottantina) sono buone per la prima parte del 2° volume di Uomini sul delta – La farina delle donne – salvo il brano dello “Strullo” che va ripulito fino alla più splendente perfezione (anche se potrebbe benissimo andare così) ». Infine, il foglio n. 32 reca la precisazione: « prima stesura completa del romanzo Censura ».
Dopo la censura: la vita postuma del manoscritto
Questi e altri documenti dell’Archivio testimoniano di un’attenzione costante portata da Govoni al suo libro, e dimostrano che l’autore tiene molto al testo, avendovi messo una particolare motivazione e dedicatovi una cura continua.
Ad esempio, il fascicolo n. 9 della busta R reca il facsimile di una copertina del romanzo, sempre col titolo Censura, con la menzione della casa editrice (Mondadori) e in data del 1945. Ma soprattutto, è testimone di tale preoccupazione, nella busta MB 2.25, il foglio 64, il quale reca la copia di una lettera datata « 12 maggio 1942 –XX– », indirizzata a Garzanti. Vi si legge:
[…] sono veramente lieto che abbiate accolta la proposta della ristampa in edizione definitiva del mio romanzo “O giovinezza, fermati: sei bella”21 e mi accingo senz’altro al lavoro di revisione […] sono disposto a darvi l’esclusiva delle mie opere nuove per un quinquennio, a patto che Voi mi ripubblichiate, entro tale periodo, quelle già esaurite e ricercatissime […]. Le ristampe dovrebbero comprendere per ora tre romanzi, tre volumi di novelle scelte e quattro volumi di poesia. Coi cinque libri nuovi, sarebbero così quindici volumi in tutto che Voi dovreste impegnarVi di pubblicarmi entro il termine dei cinque anni del nostro patto […]
Così, il primo anno del nostro impegno, Voi potreste pubblicare oltre al romanzo Giovinezza il volume delle poesie scelte o quello di poesie inedite più un secondo romanzo in ristampa o un libro di racconti inediti, secondo il turno da Voi gradito. Per il prossimo anno Vi consegnerei il romanzo Storia della Bella Villana a cui lavoro da molti anni e che rappresenterà, non ne ho il minimo dubbio, il più grande successo letterario dei nostri tempi. Sono convinto di aver raggiunto la mia più solare maturità artistica, e di esser capace e degno, per tutti i requisiti espressivi e di sensibilità modernissima in mio saldo possesso, di parlare non ad una cerchia ristretta di iniziati e di delicati inappetenti ascoltatori, come si accontentano di fare oggi troppi scrittori balbettanti ed impotenti, ma ad un popolo intero, intelligente sano e maschio. Ho solo bisogno di trovare in Voi, perché scocchi e bruci la mia ora meridiana, quella comprensione quella stima e fede atte ed indispensabili per manovrar con sagacia e ardimento quella meccanica preziosa della pubblicità che costituisce il segreto fondamentale di tutte le fame popolari dei poeti e delle loro opere.
CG, Roma, via di Frasone 16.22
Questa lettera dimostra abbastanza chiaramente lo stato d’animo di Govoni e soprattutto la sua costante preoccupazione per una possibile pubblicazione del romanzo stroncato dalla censura mussoliniana. Come si legge, il titolo è stato cambiato in « Storia della Bella Villana », ennesima dimostrazione dell’incertezza dello scrittore riguardo al titolo del volume: un altro titolo voleva essere « Padania-Censura »23, e un altro « Vogliamo conoscere anche gli angeli ! »24.
La volontà di Govoni, tutta intenta alla verità delle parole, e particolarmente dei titoli delle sue opere, appare d’altronde in quanto volontà etica sulla prima pagina del manoscritto, dove si legge questa amara ed allo stesso tempo entusiastica « Giustificazione del titolo »: « Il titolo di questo romanzo doveva originariamente essere Censura / L’editore s’inalberò davanti a quel titolo. E s’inalberò ancor più l’Ufficio Censura. Delle censure ce n’è una e basta. Che non si volesse prendere sottogamba il nostro nobile disciplinatore ufficio, e tanto meno farne la caricatura … / Io col nome di Censura volevo dire semplicemente sincerità. Ma da quando questa parola si è unita a ipocrisia ha perduto ogni significato. Da quel connubio mostruoso non è ancor nata, ch’io sappia, la parola nuova che il poeta possa accettare e battezzare e legittimare. Ecco perché in attesa del figlio mostruoso ma virulento, Censura mi pareva la parola adatta ad esprimere la rappresentazione del nostro mondo in convulsione e l’eventuale processo che nella mia immaginazione il lettore sarebbe chiamato a istruirgli. / Ma non sono riusciti a passar sopra alle buone ragioni dell’editore e dell’Ufficio Censura. / E allora, per accontentarli, mi sono ricordato che c’è un personaggio nel romanzo che si chiama Bella Villana. / È una bellissima donna, (per ora, appena abbozzata, ma che avrà un conveniente sviluppo nel seguito del romanzo: perché non potrebbe essere anche il bellissimo titolo del romanzo ?) / Il titolo potrebbe anche significare, l’importanza capitale della donna e dell’amore nella vita. / Se l’editore e la Censura sono contenti, lo confesso candidamente, non lo sono io, perché mi ero affezionato a quel titolo. / Ma la sincerità si sconta. / Evviva dunque la “Bella Villana”, vita sana e figli maschi ! »
Merita ovviamente una particolare attenzione il concetto che rende affini – per così dire sinonimi – i termini « censura » e « sincerità ». Evocazione abbastanza misteriosa, a dir il vero, anche perché, subito dopo, la stessa parola « censura » è dichiarata « […] adatta ad esprimere la rappresentazione del nostro mondo in convulsione », come se in quell’occasione il poeta dal carattere « fanciullesco – ossia primitivo, “giottesco” »25 (come lo definiva Lionello Fiumi) avresse voluto giocare con le parole, ingarbugliando « sincerare » e « censurare » solo per via di una radice comune (ma comunque filologicamente problematica) nel significato di « accertarsi, assicurarsi ».
In seguito, Govoni continua a dedicare la sua attenzione al libro incompiuto26, finché riesce a pubblicare, nel 1960, Uomini sul delta, il quale contiene buona parte del testo del manoscritto iniziale di Censura. Questa preoccupazione si verifica per esempio nei 16 fogli della busta « 35.27f » (sezione « Buste Non Numerate » del Fondo). Il foglio n. 3, per l’appunto, reca una « notizia bibliografica » in data del novembre 1953, destinata a un libro anche quello intitolato Censura: « Quest’opera audace, di cui il presente volume è la prima delle tre parti di cui essa è composta, che vuole essere una specie di processo a porte chiuse del nostro tempo bellissimo e scandalosamente cinico, nel 1932 fu fatta sequestrare e distruggere in bozze per le edizioni Mondadori, per ordine di Mussolini che minacciò il suo autore di duro lungo confino. / Il volume che vede ora la luce per i tipi dell’Editore..., è la copia del romanzo originale “Censura” che fu giudicato disfattista ed antifascista dalla prima all’ultima del milione e centomila lettere di cui consta. / Roma, novembre 1953 ».
Bisogna pur osservare che tale notizia sembra sfoggiare fin troppa ingenuità da parte dello scrittore, come se egli, appunto, non volesse considerare (e come se volesse imporre tale considerazione al suo pubblico di lettori) altro che un atteggiamento di « sincerità », perfino in un periodo durante il quale si può supporre che non fosse proprio l’atteggiamento più sicuramente convincente... soprattutto in materia di censura letteraria.
Questa indole appare anche in una minuta di lettera, senza data (ma probabilmente della fine 1937, essendovi evocata la prossima edizione della raccolta Canzoni a bocca chiusa)27, nella quale Govoni si sfoga a proposito del lavoro svolto:
[…] da parecchi anni intorno a un grande romanzo sociale del nostro tempo, a cui nutro la viva ambizione di legare il mio nome […]; il primo grosso volume <che> era già pronto, ma non uscirà più <perché> finché non saranno […] ultimati gli altri <volumi> due volumi, perché, trattando esso dell’epoca dell’anteguerra, uscendo così isolato, <potrebbe> <presterebbe> si sarebbe prestato facilmente a suscitare l’impressione di una rappresentazione della vita moderna negatrice per non dire disfattista.
Nel passo riportato, i pentimenti nell’espressione (tradotti nelle cassature) mostrano fin troppo i movimenti dell’animo di Govoni, intento ad ammaestrare – per così dire – il proprio sdegno (sincero, ovviamente fino a un certo punto, e che ha comunque un qualcosa di puerile) per la situazione in cui si trova di comporre con la censura e di collaborare (sicuramente con ovvi limiti nella sincerità) a una poetica del fascismo. Govoni prosegue la lettera osservando che « […] Per quanto in materia di libertà artistica io abbia profonde convinzioni che non sono precisamente quelle correnti, mi preme di stabilire che le preoccupazioni morali o politiche non hanno mai costituito il fine né palese o sottinteso di nessunissima mia opera né di poesia né di prosa. »
A questo punto, è anche fin troppo evidente che la linea difesa da Govoni, cioè il suo rifiuto di un impegno « moral[e] o politic[o] », suonano in modo strano, sia per uno che abbia qualche preoccupazione di un’etica della letteratura (per esempio il Jean-Paul Sartre di Qu’est-ce que la littérature ?)28, sia per un aderente (anche tiepido) al fascismo29, pur tenendo conto, ovviamente, delle difficoltà di prendere chiaramente partito, nell’opporre all’ideologia in vigore il rigore di un’etica (che comunque non può essere pura nell’ambito della vita vera) della rappresentazione letteraria. Si può dire che, senza tanto giocare sulle parole, Govoni, « […] poeta ricettivo, operante prevalentemente, se non esclusivamente, attraverso i sensi »30, si lascia un po’ troppo portare dai sensi, proprio in quei campi di valori fin troppo realistici (o per dirla altrimenti « organici ») della politica o dell’etica.
Censura: la diegesi e lo stile
La prima impressione nel leggere il manoscritto è comunque, nonostante lo stato di avanzamento dei lavori di rilettura e di correzione dello stesso Govoni, quella di un romanzo ancora in fieri. Da diversi dettagli, in particolare il finale del romanzo – e ovviamente anche dal fatto che l’autore accenni allo spostamento necessario di alcuni passi della diegesi –, il libro risulta al lettore non del tutto compiuto, allo stesso modi di certi testi di Carlo Emilio Gadda, per esempio Quer pasticciaccio brutto de via Merulana oppure La cognizione del dolore (d’altronde, se Govoni non ha ovviamente lo stile dell’Ingegnere, si possono trovare delle affinità; se non per altro, almeno per le modalità – certo diverse – di un’« immaginifica » poetica del « decomporre il mondo in mille e mille pezzi multicolori, nient’altro che per il piacere di ricomporlo a [propria] guisa »)31. Allo stesso tempo, il romanzo ha una coerenza salda, dovuta più che altro alla presenza continuata di due protagonisti, Don Renato e l’amico Padulla, intenti alle loro peregrinazioni nell’ambito del paesaggio ferrarese, con particolare rilievo dato alle sponde del Po, lungo tutto il testo.
Il testo di Censura è il racconto delle peregrinazioni – regolarmente confluenti in fantasticherie di stampo surrealistico – del giovane Don Renato, appena tornato dagli studi universitari (a Venezia) alla sua campagna natia. Fin dal suo arrivo in stazione, Don Renato ritrova il proprio ambiente odiosamato: i paesaggi padani, la casa dei genitori e una lunga trafila di conoscenze, tra cui l’amico Giorgio Padulla, il monello Pirulin, il vecchio mugnaio storpio Panàra, l’odiata matrigna, Zvana il maggiordomo, la Bella Villana, Bambi – l’ex fidanzata di Don renato –, e altri personaggi del paese, compresi i due animali favoriti di casa Boccafogli (la dimora di famiglia), il cane Ragù e il cavallo Rompicollo.
Tutti gli incontri avvengono in un’atmosfera che sfocia presto nelle fantasmagorie e i ricordi d’infanzia di Don Renato, con alcune colorite scene, dove si può facilemente riconoscere l’estro « immaginifico » del Govoni poeta. Il personaggio di Don Renato è un tardo adolescente in cerca di sé che ritrova casa Boccafogli ridotta a una specie di Casa Usher (molte delle descrizioni del « palazzone » fanno pensare alla dimora di Poe). Mentre i rapporti di Don Renato con la matrigna si fanno sempre più tesi, l’ambientazione storica si disegna intorno alle discussioni su una guerra in corso e all’evocazione degli scioperi leghisti, dei recenti incendi, di una crisi economica che si profila e dell’atmosfera politica.
A partire dalle pagine 480-500, la sceneggiatura si fa più intricata e surrealistica e la vicenda sempre più confusa per via dei tentativi di Don Renato di smascherare gli atteggiamenti della matrigna. Don Renato stringe accordi segreti con i leghisti, mentre il mulino sul Po in piena preoccupa il vecchio Panàra. La fine del romanzo è sottoposta a un’accelerazione sensibile degli eventi che si alternano in una serie di analessi e prolessi e precipitano nella pernacchia-risata finale di un misterioso « spettro vendicatore ». Dopo una scenata con l’ex-fidanzata (Bambi), che finisce col scappare via attraverso la campagna, Don Renato parte alla sua ricerca, si ritrova sull’argine del fiume, sale su una piccola barca e viene a schiantarsi sulle pale del mulino del vecchio Panara. Quasi contemporaneamente, l’avvocato Franzosi muore in casa Boccafogli, morte di cui la matrigna accusa Don Renato (l’avvocato teneva in tasca un assegno per la vendita della tenuta Boccafigli che Don Renato rifiutava di cedere). Finalmente, il vero assassino si rivela essere uno spettro, il quale s’allontana nel buio della notte.
Uno dei particolari del romanzo è il procedere della vicenda a sbalzi, senza un vero e proprio « legato », da uno scenario a un altro (in sostanza, la campagna dell’inizio, la cucina della casa di Don Renato, il locale della Lega, le vie del paese, il salotto di casa Boccafigli, le rive e l’argine del Po, per i luoghi più salienti), come se il romanzo fosse tramato da « scene » come in un dispositivo teatrale. Va ricordato per l’occassione che Govoni ha scritto sette pezzi (tra cui due inediti) per il teatro: e infatti, la coralità delle scene, la loro teatralità, sono elementi salienti della narrazione.
Un altro particolare è quella continua deriva dalla realtà delle vicende e degli incontri di Don Renato al fantasticare del personaggio e il suo continuo andare e venire verso i territori dei ricordi. Questo risultato è in coerenza con la poetica già operante in raccolte come Poesie elettriche (1911), Inaugurazione della primavera (1915) e Rarefazioni e Parole in libertà (1915), come la definisce Gino Tellini: « […] un viaggio destinato, passo dietro passo, a mescolarsi e confondersi con il corpo stesso delle cose; una peregrinazione spontanea, anarcoide e interamente terrestre, dove non conta l’arrivare ma l’andare, compiuta da un uomo che si sente più spettatore che abitante del mondo. Il suo ambito temporale è la contemporaneità, un presente assoluto fuori della storia. Il poeta s’addentra gradualmente nell’agglomerato confuso, nella danza folle e contradditoria della materia sensibile, nelle sorprendenti rifrazioni caleidoscopiche del reale e del fantastico. Ha bisogno di spazi sempre più aperti, dilatati e disarticolati […] »32.
Possiamo infatti ritrovare questa valenza della poetica govoniana, sia nella struttura delle raccolte poetiche, sia in quella delle novelle e dei romanzi e nel manoscritto di Censura. Nei romanzi e nelle novelle, il personaggio govoniano è infatti molto spesso un essere « di passaggio »: proprio come il protagonista di Censura, quel Don Renato che troviamo appunto impegnato nella sua « quête » attraverso la campagna padana e le vie del paese, tutto assorto nei suoi ricordi d’infanzia, che per così dire « arruffano » la narrazione, le danno quel tono estroso molto particolare.
L’estro barocco, derivante a volte verso un’atmosfera surrealista, delle descrizioni (in cui per esempio un muro per strada si fa vivo... nello sguardo di un girovago) è insomma un indizio sicuro della scrittura di Govoni delle sue poesie che ritroviamo in questo romanzo. Le atmosfere tra veglia e sonno, con una pregnante attenzione ai colori, sono dovute in sostanza a un « […] impasto stilistico [che] alterna innocenza e scaltrezza, istintività (apparente) e calligrafismo, disinvoltura en plein air e studio astuto di bulino a lume di lucerna »33, proprio come quanto avviene nella poesia dell’autore.
La prosa « immaginifica » di Censura
Lo sguardo del narratore di Censura consiste in un continuo andirivieni da una focalizzazione interna, secondo il punto di vista del protagonista, Don Renato – che regna sulla maggior parte del romanzo –, a una focalizzazione extradiegetica che dà al testo il suo « rumore di fondo » e collega gli spostamenti continui delle immagini e dei dialoghi, da scenario a scenario e tra i protagonisti.
Considerando il gioco dei contrari che regge il manoscritto (in particolare i contrasti luce-ombra, maschio-femmina), la « prosa lirica » di Govoni (motto dell’editore Taddei quando venne pubblicata la raccolta La santa verde) può essere vista, qui come nella poesia, come fondata su una « matrice gnostica ». Secondo Alberto Bertoni, è da questa derivazione « gnostica » che risulta la sensazione provata dai lettori di vedersi « […] annullare ogni barriera logica tra soggetto e oggetto »34. Tale percezione si ritrova infatti in tutte le pagine dove i protagonisti si profilano in un ambiente dove la natura è percorsa da « ritmi antropomorfici » (Bertoni, 349), in una poetica che ha molto a fare con il cosiddetto « correlativo oggettivo »35, per esempio in questo brano dove il paesaggio s’anima al contatto con lo sguardo del narratore:
[…] Che delizia godersi da solo quella mattina d’Aprile ! Arrivare a casa, poiché il tempo era coperto e prometteva la pioggia, tutto inzuppato da una di quelle profumate acquate di primavera che sembrano penetrarvi nel più profondo dell’essere a lavarvi e a rinfrescarvi l’anima. Andare adagio adagio per non perdere una sola goccia, sostando sotto la doccia cantante degli alberi, perduto quasi del tutto il senso del peso del corpo, sceso nei piedi, diventati per le croste del fango di piombo come quelli dei palombari. […] Il nostro viandante si guardò intorno inquieto e scontento. Qua una fila di pioppi di ambra molata con le cime aguzze appena palpitanti, come se la vita degli alberi si fosse tutta raccolta lassù, già sul punto di esalarsi in un sospiro stanco; laggiù una torre rotonda d’un bel colore amaranto, e più in giù la torre scura del campanile quadrato col candido dente di strega della colonnina della bifora. In quel pallore della pioggia spolverata di un fine pulviscolo grigio argento, indovinava più che non vedesse il suo paese. Il cuore rispose a quella vista con un più fitto battere […]36.
Sin dalle prime pagine del manoscritto è abbastanza ovvio il legame della prosa con la poesia di Govoni, tutte e due intessute di un « sostrato simbolico » che mira alla costante ricerca del poeta di una « sintonia tra i sensi umani e la natura umana atteggiata in forme umano-divine »37, nella particolare consonanza del poeta palombaro (come appare in uno dei disegni della raccolta Rarefazioni del 1915). Il « lirismo » della prosa di Censura è legato, in modo fin troppo semplice e leggibile, a quello della poesia, poiché è abbastanza ovvia la serie di collegamenti che si possono fare tra le immagini e espressioni liriche del manoscritto e quelle, il più delle volte in relazione diretta, a livello denotativo, delle poesie: corrispondenze in cui ritroviamo i motivi e gli « oggetti » del poeta fino al 1920. Sembra quasi che nel testo di Censura venga a convergere buona parte di quegli oggetti poetici che popolavano i versi de Le fiale, di Armonia in grigio et in silenzio, di Fuochi d’artifizio, de Gli aborti e de L’inaugurazione della primavera, tra « organetti », « crepuscoli », « strade deserte », lune, uccelli vari e piogge... Per rendersi conto e convincersi di queste corrispondenze, basterebbe mettere a confronto un indice dei titoli delle poesie e il « Taglio ideale dei capitoli o canti per i lettori frettolosi e distratti », cioè i fogli 23-28 del manoscritto di Censura38.
D’altra parte, se l’accumulazione (procedimento caratteristico sia del Govoni poeta che del prosatore) accentua la percezione di un certo « panismo » (le manifestazioni del « divino » nella natura, che incutono paura ai viandanti)39 attraverso tutto il testo del manoscritto, l’analogia (altra caratteristica saliente della scrittura govoniana) lega gli « oggetti » (animati e inanimati) nella felicità commossa del soggetto (« Il cuore rispose a quella vista con un più fitto battere »). Sono queste manifestazioni poetiche che vengono a riflettere anche in Censura l’ideale figura dell’artista bambino « […] che s’imbeve di tutte le “forme e i colori” del reale »40.
Infine, come in altri testi, la narrazione introduce la dimensione del sogno e del ricordo (e in sostanza ricordo di un sogno e sogno di un ricordo, allo stesso tempo), « […] in un continuo tentativo di dislocazione dell’esperienza ad un altro stato rispetto a quello “presente” » (Bertoni) che dà alla narrazione quella tonalità surrealista piena di colori, un’altra pecularietà della poetica govoniana. Basterà come esempio di questo ambiente il brano seguente, tratto dalle pagine 87 a 89 del manoscritto che riporta una lunga fantasticheria di Don Renato davanti al paesaggio natio:
I tetti che cadevano in rovina ostentavano una ricchezza di caminoni spropositata, facendo pensare a donne scalze e malvestite con enormi cappelli pomposi in testa; anche le nuvole continue di fumo violetto che se ne svolgevano erano sproporzionate ai magri desinari inodori che si preparavano giù nelle cucine nere. Il cielo che si curvava su quella miseria grigia appariva un tale spreco di sole e di azzurro che faceva persin male alla vista. Se quelle catapecchie prima di tutte ricevevano l’annuncio della primavera dalle croci greche di smalto azzurro delle pervinche al piede delle siepi ancora addormentate; ricevevano anche il primo segno dell’inverno con la neve sporca delle foglie degli alberi, che il vento portava dentro sui focolari nebbiosi sulle tovaglie, sui letti, e intricava tra i capelli delle donne in faccende. Per quelle viottole, fiancheggiate di fossati lunghi e profondi come trincee, ispidi di bardane e di ortiche e di finocchi selvatici ombreggiati di sambuchi in fiore, o pieni di mazzi di bacche d’inchiostro e le stagioni si avvicendavano coi loro particolari doni di suoni e di colori. Dall’acqua limacciosa e marcia di tutti i rigagnoli inquinati che vi si scaricavano spuntavano le pannocchie del diavolo dei gigari, e i gigli rossi che sembravano colorati con la vernice vermiglia dei carri. […] Le stagioni lasciavano al mucchio di amate catapecchie i doni più svariati. Ma c’era una primavera che non tramontava e non passava mai per quelle viottole, quei fossi quei sentieri: l’eterna rosea primavera dei freschi culetti dei bambini, sempre all’aria, dalla mattina alla sera. Frittelle tenere e dure di tutti i colori, maritozzi con croste di cioccolata, cannoni di crema puntati verso il cielo o in posizione di riposo e di dopo lo sparo, con la bocca a terra erano disseminati ovunque, dissimulati di foglie e da pizzichi d’erba, guarniti di confetti d’oro di vespe, impastati di buccia d’uva e di vinacciuoli, con semi di zucchero di cocomero e pignoli di vermi. Vi si invischiava il vagabondo che faceva la posta all’ombra del sorbo ad una ragazza, quando muoveva un passo nell’erba per far la prova dello scatto che avrebbe fatto verso la ragazza che spuntava nel sentiero, per afferrarle e aggrapparsi alla mammella acerba della verde bottiglia di latte ch’ella si era recata a riempire alla stalla vicina. Vi restavano presi alla tagliuola con le mani e coi piedi, le coppie furtive degli amanti che si avventuravano di giorno e di notte in quelle ombre propizie; e se ne andavano maledicendo quella pasticceria schifosa ch’era come la vendetta dell’immondizia umana contro la loro angelica voluttuosa felicità.41
Qui, come altrove nel manoscritto e come in altri testi di Govoni (i romanzi Anche l’ombra è sole e La strada sull’acqua, le novelle di Misirizzi e, ovviamente, le poesie), la sensazione panica del personaggio si traduce non solo in una commossa percezione trassognata del paesaggio, ma pure in una sensazione di deperimento, di decadenza, che Bertoni caratterizza come la « figura metaforica di una caduta »42. Peraltro, è da notare l’andamento, pur esso tipico, dell’enunciato del fanciullino govoniano che funge da narratore, con l’evocazione sinestetica dell’ambiente (sonorità, colori) da una parte, e con quella « relazione ininterrotta e molteplicata » (Bertoni) mediante l’uso di un « raddoppiamento degli “elementi forti” del periodo »43, dal polisindeto al polittoto e all’iperbato come principali figure stilistiche, in lunghissimi periodi che lievitano (in una mimesi della vita) nelle descrizioni, come in quest’altro passo:
[…] Piantatosi saldamente nel mezzo della strada e allargate le gambe poderose, come se stesse preparandosi per sostenere l’urto impetuoso di un terribile nemico invisibile, si cacciò la mano nella tasca interna della fusciacca e, dopo averla strapazzata, ne trasse una scatola cilindrica di metallo biancastro, dal coperchio fiorito di buchi come una grattuggia: lo fece scattare, e ne pescò fuori con due ditacci una specie di stuzzicadente, strofinandolo sull’aspro coperchio inutilmente. Lo buttò via e ripetè la manovra diverse volte, sognando, finché non si decise a riporre la scatola. Alzata una gamba nell’atto di spingere un calcio, si strisciò il pugno chiuso sulla costa del ruvido calzone. Accaparrò le manacce con religione intorno alla bava della fiamma che si era sprigionata come una corona di muffa sulla punta dello zolfanello, come se fosse la sua animula e si trattasse di salvarla dallo spegnimento; e, quando il legnetto incominciò ad ardere e a mostrare la nudità palpitante della brace interna, vi andò sotto col pipetto che gli parve uscito di bocca, tra il cespuglio giallastro dei baffi, a somiglianza di quei bracci, invisibili prima, che si tirano fuori dal muro per servire di sostegno ad una mensola e per un altro uso, e vi si nascondono non appena hanno finito il loro servizio, e incominciò ad aspirare zolfo e fiamma ardente, finché il grumo di taglione calcato fortemente con l’unghia del pollice, non diventò tutto un braciere. Solo allora disfece la capanna protettrice delle mani, e, lasciato volar il minuscolo tizzone del fiammifero, riprese a testa bassa il suo camminare furioso nel vento, con la sciarpa sventolante del fumo bianco delle pipate rabbiose, buttato alla selvaggina sopra una spalla.44
La sensibilità del narratore, in analogia e sinergia con quella del personaggio su cui lo sguardo viene a focalizzarsi, partecipa così all’andamento del testo, tutto teso a un’« organizzazione paradigmatica » dei fatti narrati « […] in un sistema narrativo di chiara specie autoriflessiva »45. Uno dei caratteri più rilevanti del testo di Govoni è quindi ancora una volta in quella sensibilità onirica che si sovrappone alle percezioni del reale. Inoltre, in adeguazione a tale sensibilità, il ritmo del narrato risulta scandito sporadicamente da balzi di quadro in quadro, da un ambiente a un altro: come succede per esempio in uno stacco da un quadro della campagna padana, abitata da presenze fugaci, alla cucina di casa Boccafigli, dove si animano – in una fantasticheria tra veglia e sogno – Don Renato, l’amico Padulla e la procace giovane serva46. Questo ritmo è retto, oltre che dal « tempo narrativo non omogeneo » (Bertoni) inerente alla sovrimpressione della realtà e della fantasticheria nel « pensiero » dei personaggi, anche dallo specifico profilo degli stessi personaggi, autonomi e ben differenziati gli uni dagli altri, di forte personalità, e ognuno con una propria percezione del mondo47. Realtà e sogno intrecciati (più ci si inoltra nel romanzo più le due dimensioni entrano in una specie di dissolvenza incrociata) danno al racconto la fisionomia della fiaba48, quella ovviamente della « giovinezza » ostentata da uno dei titoli ideati per il manoscritto.
Questa pecularietà riporta inoltre a un legame abbastanza ovvio che si può stabilire essenzialmente tra il protagonista (gli altri personaggi di Censura essendo in genere meno tipologizzati) e l’autore stesso, riconoscibile in una specie di « solipsismo che sfiora l’ingenuità » già operante nelle poesie49. A dir il vero, è probabilmente il candore di quell’atteggiamento che portò Govoni ad assumere la sua particolare (ingenua) visione del mondo, specialmente nell’affermare la pretesa a un « distacco » da quelle « forme » richieste dalla politica (quella di Mussolini) retta nell’ambito di una data società. È infatti palese l’anticonformismo di Don Renato, il vero protagonista del romanzo50, intento a difendere il proprio territorio (quello del bambino che era stato) con ogni mezzo, perfino patteggiando e tramando con i membri della Lega (che peraltro detesta, almeno per la loro zoticaggine)51.
Oltre la forte valenza fonosimbolica nel testo che contribuisce a quella particolare colorazione « connotativa » tipica di Govoni52, ritroviamo d’altra parte in Censura un suo caratteristico plurilinguismo, centrato sia su un parlato popolare saporito e una parola « proverbializzante » che sull’uso moderato di un lessico dialettale e di stralci onomatopeici (anch’essi caratteristici del linguaggio infantile, dove la parola dialettale riporta alla « lingua madre » ovvero lingua dell’« origine »). In sostanza, come l’amico Palazzeschi, Govoni coltiva il divertimento: un gioco che in Censura prende la forma di una fiaba, quella dello « spettro vendicatore » che a chiusura del narrato alterna la sua pernacchia finale (anche questi « mots de la fin » poco garbati potevano essere tra i motivi di condanna della censura) con quelle dell’ubriacone Tugnazza per il quale la strada « […] era la fedele amante [che] lo aspettava là fuori con quel suo ragno di nebbia addosso, boccheggiante d’afa, ghiacciata dalla notte invernale »53.
L’intelligenza poetica di Govoni sta comunque, ancora qui, in quegli sprazzi di immagini ripresi dal paesaggio padano ferrarese: sventagliate di immagini portate da una fenomenologia dove un certo universo femminile (la natura govoniana è indubitabilmente donna), a volte avvilente, a volte avvilito, invade tutto, come il polo di « un diabolico della vita » che s’accompagnerebbe a quello di un « “santo” della fantasia »54. Tale fenomenologia da al testo un sapore magico, appunto per una corposità grezza (che a momenti si potrebbe quasi qualificare di « verista »), venata da tratti poetici « gnostici » che restituiscono, tramite l’alchimia delle parole (l’alchimia del plurilinguismo, tra l’altro), l’atmosfera paesana di quegli anni. Come esempio, si possono prendere le immagini con cui il narratore dispiega agli occhi del lettore, in due momenti diversi, il paesaggio dei protagonisti – prima, la campagna percorsa da Don Renato all’inizio del libro, e poi la strada di paese evocata dentro lo sguardo di Tugnazza alla fine (la prima ovviamente più delicata della seconda, anche se rozze entrambe):
Ma la ragazza era già lontana. Al moto della culla di neve che portava sulla testa, ondeggiava dolcemente tutta la campagna, come se accompagnasse con quel dondolio il sonno innocente di un bambino che doveva entrare misteriosamente laggiù in una povera casupola a rallegrarla dei suoi angelici vagiti. A mano a mano che la portatrice di culla si allontanava e rimpiccioliva, il paesaggio andava attenuando il suo dondolio; allorché quella non fu più che un puntino bianco confuso e assorbito dal verde, il paesaggio vibrò appena come nell’onda del riverbero, si ricompose nelle sue linee immobili, sembrò morto. Era troppo tardi per richiamare la ragazza. In quel momento si fece sentire la voce malinconica del cuculo. E gli si spense subito in cuore la gioia allegra accesagli dal passaggio della stiratrice e dalla rievocazione della scena delle ragazze nella casa del maggiore.
(Censura, p. 11-12)
[…] questa stracciona che si lascia prendere e possedere da tutti, freddamente, senza un brivido di piacere, come una donna pubblica gratuita, e si intenerisce solo alla serenata che l’ubriaco le fa sotto il fanale giallo; a lui solo si dà in un abbraccio pieno di passione e di abbandono in cui la dichiarazione di angelico amore è mescolata ai singhiozzi della nausea, i baci ai pernacchi e ai rutti, e lo spasimo delizioso del possesso viene inaffiato e condito dal lurido getto del vomito sul suo immacolato seno di luna.
(Censura, p. 810-811)
La prosa govoniana è qui chiaramente debitrice alla poesia e alla « poetica della visione » (Tellini) del poeta, con i suoi « […] connubi sconcertanti, […] gorghi analogici, […] improvvisi fuochi fatui », nonché con « […] il suo furore di contatto e di possesso quasi erotico nei confronti di uno scenario naturale vividamente chiazzato e acceso »55.
Lo stacco poetico degli anni 1920-30, la « poesia in prosa »
Per tutte le ragioni esposte, Censura è un testo che ci riporta sotto gli occhi il Govoni delle « cose che fanno crepuscolo »56, il quale – magari con una specie di senno del poi – riprende in prosa la sua poetica « crepuscolare ». Infatti, l’atmosfera di Censura tende in varie pagine a un ambiente sentitamente crepuscolare, quello tipico di Govoni, sempre derivante e influenzato dalle letture di Maeterlinck, De Régnier e Rodenbach, con quei toni di « crepuscolo d’un lilla soave » dei Fuochi d’artifizio del 190557. Nella fiaba della Bella Villana, di Don Renato e di Padulla, ritroviamo qualcosa del « […] trovatore tisico della Malinconia »58, con quel tanto di « […] realismo fantastico o di magico quotidiano o di incantesimo domestico »59 che caratterizzano il poeta ferrarese. Le figure di contadini e soprattutto quelle di girovaghi e di mendicanti che traversano il manoscritto sono un altro segno di questo riflusso della poesia nella prosa, sempre accompagnate da tutte quelle caratteristiche manifestazioni già evocate (colori, ritmi, fonosimbolismo e soprattutto immagini), in cui l’analogia conferisce al testo il tipico tremito govoniano tra futurismo e crepuscolarismo60. Com’evocato da Francesco Curi61, l’indole del poeta lo portava a « un giuoco simpatico e divertente », e magari tinto di sentimenti « tristi »: gioco nel quale « la spinta a portar in luce “l’amore profondo che collega le cose distanti” » (seguendo a modo suo la lezione futurista di Marinetti) mette in scena i suoi personaggi in una ricerca del mondo nella quale il mondo viene goduto senza precauzioni, allo stesso modo del Don Renato di Censura, appunto, che prende in giro l’amico Padulla per i suoi timori. L’analogia tra il poeta e il suo personaggio è qui particolarmente forte e dà a un’opera “non finita” quel pregio per altro deluso dalla stessa sensazione di incompletezza.
Questa stretta analogia spiega in gran parte l’importanza che Govoni dava a questo libro rimasto inedito e trasformatosi poi in nella saga di Uomini sul delta62 che riprende vari pezzi del manoscritto. Lo stesso Govoni dichiara nel « Numero unico Natale 1958 » del giornale Il Turòn63:
[…] Considero una specie di poema in prosa la stessa trilogia del grosso romanzo “Uomini sul Delta”, di cui sta per uscire la prima parte che si svolge, come si legge dal titolo, nella bassa ferrarese, ed ha per scena l’eterna accanita lotta tra capitale e lavoro, nel periodo che va dalla prima grande guerra alla guerra partigiana di liberazione ». E più oltre nell’articolo (a pagina due del giornale) si legge questa dichiarazione di poetica: « La poesia è l’arte o facoltà di trasferire sopra un piano di trasfigurazione ideale la rappresentazione di fatti umani e di aspetti naturali con folgorante chiarezza ed immediatezza, con irresistibile efficacia emotiva e comunicativa, per mezzo della più straordinaria forza dinamica possibile, di rottura e di penetrazione dell’espressione […]. Considero […] il vero poeta come il felice e lo sciagurato portatore tra gli uomini del messaggio di pura bellezza, di bontà, di amore o di dolore e di disperazione, affidatagli da misteriosi mani, le quali, prima ancora del cervello gli toccano e riscaldano il cuore.
Se questa dichiarazione di poetica rimane nel generico e non reca neanche vere e proprie novità riguardo al programma di scrittura di Govoni, essa conferma le osservazioni della critica e, soprattutto, enuncia chiaramente una continuità dalla poesia alla prosa dello scrittore ferrarese, oltre l’apparente soluzione di continuità degli anni 1920-1930. Basta per questo notare che varie poesie del periodo seguente alla per così dire “parentesi prosastica” contengono allusioni ovvie all’ambiente di Censura, per esempio in « Organetto » (Canzoni a bocca chiusa, 1938) « […] perché Bella Villana / piangi e ridi col sole e con la pioggia » (il nome ricorre quattro volte nella poesia), oppure ne « La stella pulcinaia » di Pellegrino d’amore del 1941 (poesia probabilmente ispirata a Pascoli) che evoca le « […] putride nebbie della mia padania / col lenzuolo polluto di spettro / tutto leccato da celesti vermi / trovato assassinato nella casa / della bella villanan/ che spara coi capezzoli / di gomma americana ». Poesie in cui riappaiono quindi varie figure iscritte nel manoscritto (lo spettro, la Bella Villana).
E d’altra parte va ribadito che le opere in prosa del periodo degli anni ’20, sia novelle che romanzi, presentano una certa continuità tematica e d’ambiente con il testo del manoscritto (si è già detto del titolo « O giovinezza, fermati: sei bella ! » che appare in Anche l’ombra è sole e in La terra contro il cielo).
Con questa « atmosfera » che attraversa la produzione in prosa, si conferma, completandola, un’osservazione di Gino Tellini a proposito del ritorno alla poesia di Govoni (in sostanza nel 1924 con Il quaderno dei sogni e delle stelle, « […] primo libro pubblicato dopo una parentesi di quasi un decennio ») quando dice: « Il ritorno alla poesia è importante sia perché documenta l’avvio di una nuova, per quanto accidentata, fase operativa, sia perché evidenzia, alla loro genesi, le differenti tipologie tematico-espressive che si sarebbero poi sviluppate e intrecciate, con alterne oscillazioni, nella serie ancora lunga delle raccolte successive »64.
Epilogo
L’interesse di questo « inedito » risiede quindi soprattutto nella prospettiva che apre alla poetica del Corrado Govoni prosatore e poeta. Il manoscritto di Censura permette infatti di riscoprire gran parte delle pecularietà della poetica govoniana o, per lo meno, alcune di esse. La duplice censura che ci presenta il manoscritto al termine della sua avventura – sia la censura effettuale di un potere che quella dell’autore – ci dà l’occasione di scoprire la « sincerità » poetica di Govoni: meta dichiarata dal poeta stesso, sia pure ingenuamente.
Nel manoscritto, la dichiarazione liminare di Govoni suona come una captatio benevolentiae al lettore, avvertenza che fa del testo un rivelatore, una specie di « strada sull’acqua » (appunto secondo il titolo di un altro dei suoi romanzi), cammino rimasto in ombra (poiché « anche l’ombra è sole », secondo un altro titolo govoniano), che rende conto della continuità manifesta dell’opera govoniana in prosa e in versi. La nuova prospettiva poetica govoniana si profila in Censura al di là di una semplice « traccia », il testo della « fiaba » essendo in gran parte compiuto, nonostante avesse ancora bisogno di varie correzioni come osservabile nel manoscritto.
Ovviamente, l’altra vicenda che rivela l’indagine sul manoscritto è proprio la testimonianza di quella « […] tormentosa vita di sdoppiamento […] nell’insanabile drammatico conflitto tra l’esistenza ideale, volubile, indipendente ed estrosa della poesia e quella della realtà quotidiana comune. […]: un conflitto atroce di ogni giorno e di ogni ora, capace di influenzare maleficamente perfino l’area dei sogni, e che mi ha fatto tante volte maledire la mia condizione di poeta »65.
La dialettica del poeta bambino si svela pienamente in quest’opera inedita della maturità, confrontata pur’essa a quella « maledetta realtà » che Govoni evocò in quanto « tarlo implacabile » (come quello di cui si sente il lavorìo nel poema « Io e Milano », ne L’inaugurazione della primavera):
[…] O maledetta realtà,
brutale forza d’inferno
che riesci a insinuarti
fin nei più chiusi sogni,
come un tarlo implacabile ! […]