Un librettista alla ricerca dell’autorialità: le strategie editoriali di Giovan Andrea Moniglia (1624-1700)

Résumés

La questione della litteralità del libretto d'opera e dello statuto del librettista di fronte alle istituzioni letterarie è una delle problematiche principali della storia dell'opera. Una della le vie possibili per esplorare il rapporto fra libretto e la « grande » letteratura è quella di ripercorrere le strategie editoriali utilizzate dai librettisti. Infatti, accanto alle edizioni di libretti separati, in formato ridotto, la cui funzione è quella di aiutare lo spettatore a seguire lo svolgimento dell'opera cantata durante la sua realizzazione, dove il testo poetico resta sottomesso alle esigenze della musica e, spesso, a molteplici riscritture, esistono altri tipi di edizioni di libretti d'opera che valorizzano la creatività dell'autore nella produzione lirica. La doppia edizione delle Poesie dramatiche (sic) di Giovan Andrea Moniglia (1624-1700), qui analizzata, è un esempio significatico e misconosciuto di questa pratica, attraverso la quale il libretto acquisisce una propria autonomia e lo statuto di opera letteraria.

The matter of literalness (literality) of the opera libretto and of the librettist statute confronted with the literary institutions is a major question in the opera history. One of the means to explore this relation between libretto and « high » literature, is that of the editorial strategies used by librettists. Besides editions of separate booklets in reduced size, the office of which beeing to help the spectator during the performance in following the development of the sung work, and where the poetical text remains subordinated to the music exigencies and often to manyfold rewritings, there exist other types of opera librettos editions, which emphasize the « Poet » creativeness in the lyric production. The twofold edition of Poesie dramatiche (sic) by Giovan Andrea Moniglia (1624-1700) which is analysed here, is a meaning and very unknown example of this proceeding through which the libretto gains its autonomy and a literary work statute.

Plan

Texte

Il libretto d’opera alla frontiera della letteratura

Uno dei problemi più complessi affrontati da chi si occupa di storia dell’opera e di drammaturgia musicale è quello del rapporto che passa tra il libretto e quello che possiamo chiamare la « grande » letteratura.

Sin dai primordi, il testo dell’opera in musica, o per riprendere la terminologia delle origini, il « poema » destinato a essere intonato, viene considerato dai creatori come dotato di una specificità propria. Già Orazio Vecchi, agli albori del melodramma, dando alle stampe la sua « invenzione », la commedia harmonica o commedia in musica, madrigalesca, l’Amfiparnaso, pubblicata a Venezia nel 15971, sente il bisogno di segnalare, in un’articolata prefazione, la distanza che passa tra la sua strana creatura e il genere canonico della commedia regolare recitata senza musica. Pur recuperando scenette e personaggi tipici dal baule dei primi comici dell’arte, il Vecchi inizia il suo ragionamento coll’inserire la sua « commedia » all’interno della definizone più classica della commedia regolare, cioè applicandole il criterio del « castigat ridendo mores » : così viene per prima cosa affermato che la sua non è un « passatempo buffonesco » come sono le commedie che allora trionfano sulle scene, quelle opere sconcie e plebee che gli zanni portavano dappertutto in Europa, ma è « lo specchio dell’umana vita », un’opera morale che unisce « l’utile col diletto », a fini di educazione del pubblico. Una commedia riallacciata quindi idealmente alla commedia erudita, nella quale però il lettore e auditore troverà ben altro perché essa non fu « mai tentata da altri », una commedia la cui scrittura è sottomessa alle esigenze del canto e che, quindi, deve essere considerata a parte, con altri criteri di giudizio. Dopo di che Vecchi s’impegna a definire le caratteristiche della scrittura di tale commedia « harmonica ». La prima, e più importante, è l’inevitabile incompiutezza della narrazione e della pittura dei personaggi e situazioni, che, dato lo scorrere più lento della parola cantata, devono per forza restare solo abbozzati, e non dipinti per intero e con tutti i dettagli; la seconda è l’intonazione delle parole colla musica, che in fin dei conti concede all’opera una finalità diretta più « all’affetto che alla moralità », a una ricezione e a un’esecuzione diverse da quelle legate alla commedia recitata. Una commedia nè erudita nè buffa, che quindi non può soddisfarsi delle regole classiche, ma deve per forza crearsi le proprie regole.

Lo stesso possiamo dire per Ottavio Rinuccini nel 1600 quando cerca di definire il suo poema drammatico destinato alla musica, Euridice. È una favola e, appoggiata su questa denominazione espressa nel titolo, può essere ricondotta al genere cortigiano della pastorale e ai grandi modelli, come quello della Favola di Orfeo del Poliziano; ma è una favola « per musica » . Come Vecchi per la sua commedia harmonica, nello spazio di riflessione poetica offerto dal prologo e attraverso la personificazione della Tragedia, Rinuccini prende anche lui qualche distanza con le regole del genere tragico, situando il suo poema in un altro spazio non ancora definito, o definito solo da quello che non è più:

Non sangue sparso d’innocenti vene,

Non ciglia spente di Tiranno insano,

Spettacolo infelice al guardo humano,

Canto su meste e lagrimose scene.

Parallelamente a Rinuccini, nel tentativo di definire in modo più preciso questo spazio indeterminato, e di dargli una legittimazione all’interno di un abbozzo di poetica del nuovo stile, Emilio de’ Cavalieri, conscio della destinazione essenzialmente rappresentativa del nuovo stile di canto, il « recitare cantando », fa stampare a Roma da Alessandro Guidotti la sua Rappresentazione di anima e di corpo con una prefazione del Guidotti nella quale le caratteristiche proprie della « composizione » o « poema » – ad esempio, la partizione in atti e scene, la metrica, la stesura delle narrazioni e dei dialoghi, il numero di personaggi ecc. – appaiono strettamente connesse alla resa scenica dell’opera e rielaborate in funzione della parola cantata e dello spettacolo.

Quindi, se il libretto può essere considerato, nel senso lato della parola, un « testo », e se in questo senso può essere letto e studiato come qualsiasi altro testo, esso è, e resterà, sempre un testo da ascoltare più che da leggere, con delle regole proprie che dipendono dalla intonazione dei versi e delle frasi, e dalla recitazione cantata. Questa specificità insuperabile situa il libretto d’opera, o più largamente la poesia per musica, in una zona del letterario che con Alberto Asor Rosa possiamo chiamare zona « frontiera » 2, quella in cui prendono posto le letterature impure, che lo stesso Asor Rosa chiama la « letteratura-in-musica », parallela alla « letteratura-in-teatro »3, cioè i testi di per sè « incompiuti » che Gérard Genette chiama « opere performative »4. In realtà, per essere ancora più precisi, il libretto – in quanto testo poetico drammatico da recitare cantando – richiederebbe la creazione di un’altra zona e di un’altra nozione – la letteratura – in « teatro-in-musica » .

Non si tratta qui di tentare un’ennesima riflessione sul rapporto tra musica e poesia nel melodramma o sulla preminenza della musica o della poesia nella creazione lirica. Pensiamo che la famosa interrogazione di Richard Strauss nella sua ultima opera, Capriccio, e di molti altri, Wort oder Ton?, sia un’interrogazione che rimane e rimarrà un aporema senza soluzione, che attraversa tutta la storia del melodramma dalla nascita fino ai nostri giorni, con perpetui rovesciamenti e svolte legate ai contesti culturali, artistici e sociologici in perpetua mutazione. Si tratta piuttosto di interrogare i modi coi quali, nella storia dell’opera, il così detto libretto, o poema per musica, rivendica o tenta di acquistare uno statuto autonomo di « testo da leggere », di testo che può esistere al di fuori della musica, all’interno – e non solo alla frontiera – del vasto campo della Letteratura.

L’edizione dei libretti come fonte di letterarietà

Questa valutazione dello statuto letterario (o della letterarietà) del libretto d’opera può essere affrontata all’interno del testo stesso, coll’analizzare il suo funzionamento drammatico, le strutture della narrazione, la scrittura delle situazioni e dei personaggi in quanto caratteri e situazioni drammatici. Si sa che il libretto è, nella stragrande maggioranza dei casi, un adattamento, o una riscrittura di un’opera letteraria. Spessissimo, è la riscrittura secondo i codici melodrammatici di un testo drammatico anteriore ma anche di un racconto, o parte di un racconto, o romanzo, o poema epico. Il libretto è quasi sempre « l’altro » di un testo letterario, quello che spesso dà proprio a questo testo un’eternità che forse non avrebbe mai avuto senza il passaggio sulla scena operistica; un « altro » che dà ai personaggi romanzeschi o teatrali preesistenti una vita nuova, più duratura e famosa del personaggio fonte, che quindi partecipa della fortuna di questi testi. Questo ci dovrebbe bastare per conferire senza esitazione al libretto una sua leggittimazione negli studi letterari attraverso lo studio delle riscritture librettistiche di opere della letteratura e della letteratura teatrale.

Un altro approccio, sociologico più che strettamente letterario, è lo studio dello statuto degli autori dei testi destinati alla musica e al teatro musicale all’interno delle istituzioni letterarie e editoriali del loro tempo5. Il che significa non solo considerare come il librettista collabora – o no – con il compositore, e quindi il margine di indipendenza che può affermare o imporre nella creazione collettiva, plurale, dell’opera, ma anche cercare di capire come rivendica lo statuto di letterato. Cosí, lo studio di un libretto richiede sempre da parte dello studioso, oltre a quello delle fonti letterarie e delle riscritture, la definizione del modo con il quale il librettista si è avvicinato al testo fonte, in particolare se a richiesta di un musicista o di un promotore culturale, o di propria iniziativa. Questo vuol dire considerare la posizione del librettista nei confronti della propria creazione; considerare se scrive solo libretti – vale a dire se è un professionista del libretto (come molti autori del pieno Seicento a Venezia, e certamente molti grandi librettisti del Settecento e primo Ottocento: Da Ponte innanzitutto, e Foppa librettista privilegiato di Rossini), oppure se è autore e librettista, cioè per riprendere una distinzione usata da Adriana Guarnieri Corazzol per la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, sia librettista-scrittore, sia scrittore-librettista6; considerare anche se, in questa posizione ambigua che stabilisce in ogni caso una distinzione tra « scrivere » e « scrivere libretti », l’autore stabilisce – come fa ad esempio Goldoni a metà del Settecento – una gerarchia netta tra la scrittura di testi letterari « veri », nobili, seri, e quella di questi testi « mostruosi » e imperfetti, quali vengono definiti i libretti d’opera alla fine del Seicento dai letterati riformisti7.

Parte della risposta a queste ultime domande va ricercata nelle pratiche editoriali applicate al libretto d’opera. Non dimentichiamo che la parola libretto appare per designare la forma materiale che si dà a quello che all’inizio viene chiamato « poema », cioè un « libro in piccolo », di formato ridotto, per lo più senza apparato paratestuale (se non, in certi casi, una piccola avvertenza al lettore), e con rilegatura modesta, il quale lo spettatore usa per seguire le parole che, cantate, non può afferrare a pieno. Lo statuto del libretto si afferra quindi prima di tutto col riflettere sui modi coi quali, nel corso della storia dell’opera, questo « testo » singolare viene pubblicato, diffuso, fissato e riconosciuto, sulle forme materiali utilizzate per la stampa del libretto indipendentemente della sua trascrizione sulla partitura, e sulle strategie eventuali usate dal librettista per superare il disprezzo che, dopo i primissimi esperimenti della fine del Cinquecento e dei primi anni del Seicento, resta legato a questo tipo di scrittura, e per affermarsi come solo scrittore o autore.

Varietà editoriali: libretto in partitura, libretto d’uso, edizioni di lusso, raccolte

Dopo i primissimi esperimenti, a Firenze, nel 1600, la posizione di poeta di corte assunta dal Rinuccini gli permette di proporre una pubblicazione simultanea dei due libretti già scritti da lui, sotto forma di edizione letteraria, a fini di riconoscimento e di miglioramento del nuovo genere8, parallelamente all’edizione ufficiale delle due partiture, nelle quali il « testo » dell’Euridice appare sotto le note. Lo stesso potremmo dire per il « poema » per musica di Alessandro Striggio, Orfeo, pubblicato a Mantova nel 1607, oppure ancora delle opere scritte da Giulio Rospigliosi per il teatro dei Barberini a Roma negli anni 1632-36.

Ma questa situazione priviliegiata non si ritrova poi esattamente riprodotta in altro ambiente.

Lo statuto cortegiano di Rinuccini, Striggio, Rospigliosi, e di qualche altro, sparisce pochi decenni dopo quando la creazione melodrammatica transita dai centri di produzione « aristocratici », nei quali le opere sono create e promosse all’interno di celebrazioni spettacolari encomiastiche di cui si deve conservare la memoria colla stampa, alla gestione mercantile dei teatri pubblici veneziani, aperti a un pubblico pagante, più largo, meno colto, senza fini celebrativi. Proprio in ambiente veneziano, il poema – parola che ancora riallacia il testo alla letteratura alta – diventa il « libretto », lo stesso diminutivo conferendo alla poesia melodrammatica uno statuto minore – perché non regolare, e non autonomo – riguardo alla poesia « tout court ». Proprio a Venezia, vengono fusi, in un’unica parola, il genere (il « poema in musica », termine usato ancora nel ’700, perfino nella satira veneziana di Benedetto Marcello, Il teatro alla moda, del 1721) e l’oggetto cartaceo materiale che contiene questo testo, considerato talmente funzionale o utilitario da essere spessissimo ridotto alla pubblicazione di un semplice canovaccio col quale lo spettatore può seguire l’intreccio, o addiritura mai pubblicato e messo in circolazione sotto forma manoscritta9. Rari sono a Venezia gli esempi di pubblicazioni alte dei testi di rappesentazioni per musica, come troviamo in contesto cortegiano e mecenatistico, a Firenze, Mantova, Roma, Ferrara, con il testo completo, arricchite da un largo apparato paratestuale (dedica, prefazione, descrizione delle scene) e da illustrazioni10. Unici esempi veneziani sono le fastose descrizioni stese dal conte Maiolino Bisaccioni, storico, scrittore e librettista, per gli spettacoli rappresentati nel Teatro Novissimo, negli anni 1641-1644, La finta pazza, La Venere gelosa e Il Bellerofonte, con macchine e scenografie del « mago » Jacopo Torelli, di formato grande, dove però la poesia cantata appare in forma ridotta e frammentata, e che sono intitolate « apparati scenici per lo Teatro Novissimo », chiaramente diretti a valorizzare il lavoro dello scenografo11.

Lo scarso valore letterario del libretto è testimoniato dal modo col quale oggi una gran parte di quelli editi per l’uso dello spettatore in teatro, in piccolo formato e senza illustrazioni, sono consultabili nelle biblioteche. Moltissimi di questi libretti, soprattutto della fine del Seicento e del Settecento, sono rilegati insieme in uno stesso volume di « varia », e raggruppati senza vero criterio di selezione (uno stesso editore, stesso tipo di spettacolo serio o buffo, argomenti di stessa derivazione, stesso librettista). In certi casi, il fattore comune sembra essere il luogo di rappresentazione, il che segnala indubbiamente la preponderanza della scena teatrale sulla biblioteca, o la libreria, nella diffusione e la catalogazione del libretto e, quindi, la prepon-deranza dello spettacolo realizzato sulla scrittura del testo. Il libretto appare davvero ridotto allo statuto di opuscolo, senza valore letterario, e al librettista, che non appare sempre mensionato sul frontespizio, viene negata qualsiasi autorità sulla sua creazione.

Eccezionali in questo contesto – e proprio per questo risultano di grande interesse per il problema sollevato in questo studio – le raccolte di libretti di uno stesso librettista, stampate col nome e cognome dell’autore, e un titolo generale, da uno stesso editore, con formati più grandi e rilegatura più accurata. Di queste raccolte che ovviamente strappano il libretto all’anonimato e all’effimero della rappresentazione, dando al librettista una vera autorità sulla sua creazione, conosciamo quelle promosse da librettisti che sono prima scrittori o anche scrittori. La pubblicazione contemporanea dei due libretti separati dalla musica di Rinuccini, Dafne e Euridice, alla quale si è già accennato, apre sicuramente la via a una pratica più costruita, che sarà poi illustrata in vari modi. Sono poi i librettisti veneziani a diffondere questa pratica e tra i primi Benedetto Ferrari e Prospero Bonarelli, negli anni 1644-1647, che raccolgono i loro testi di opere per musica di vario tipo12. Più famosa certamente è quella di Giovan Francesco Busenello, accademico Incognito, poeta e romanziere, e scrittore di libretti per Cavalli e Monteverdi, che decide, nel 1656, di pubblicare insieme una selezione di cinque fra le sue opere per musica, presso l’editore Giuliani a Venezia, sotto il titolo generale di Delle Hore ociose13. Una pratica che giunge poi al suo apice con Pietro Metastasio, poeta cesareo della corte viennese, di cui possediamo numerose raccolte delle opere per musica, sia pubblicate da sole, sia unite alle altre opere poetiche e teoriche dello scrittore14. Più segreto e stranamente trascurato è l’esempio della raccolta Delle poesie dramatiche (sic) di Giovan Andrea Moniglia, edita alla fine del Seicento a Firenze, che presenta delle caratteristiche originali che vanno utilmente rilevate e approfondite.

Il caso Moniglia

Nessuno oggi conosce più Giovan Andrea Moniglia, fiorentino, tranne qualche amatore dell’opera secentesca, che avrà intravisto il suo nome sulle locandine di regie recenti dell’Hipermestra di Francesco Cavalli15, e de Il Podestà di Colognole di Jacopo Melani. Eppure come si vedrà, Giovan Andrea Moniglia (1624-1700) può essere considerato una figura maggiore nel campo della scrittura librettistica nella seconda metà del Seicento. Scrive libretti per circa trentacinque anni dal 1652 al 168716, nell’ambito di diversi teatri fiorentini, a servizio dei granduchi di Toscana. Ancora giovane, e benché medico di formazione e di professione17, viene reclutato dal suo protettore il cardinale Giovan Carlo di Toscana, fratello del granduca Ferdinando II, per le fastose produzioni del nuovo teatro della corte medicea, il teatro della Pergola costruito in sostituzione del vecchio e trasandato Stanzone delle commedie del Buontalenti, situato all’interno del Palazzo degli Uffizi18. In questo nuovo luogo teatrale vengono rappresentati, tra il 1657 e il 1664, due grandi feste teatrali e diversi drammi musicali seri e giocosi, tutti di mano del nostro librettista. Dopo il 1664 e la morte del cardinale protettore del teatro, Moniglia stende nuovi drammi per musica sia a richiesta degli altri fratelli del granduca Ferdinando II, Mattias, Leopoldo, sia per il principe Francesco Maria, fratello minore di Cosimo III, e il suo teatro dell’Accademia del Casino. E scrive ancora i libretti per il piccolo teatro costruito nella villa di Pratolino, a iniziativa del principe ereditario Ferdinando, figlio di Cosimo III, grande amatore di spettacoli teatrali, lirici, protettore di artisti e di cantanti. La sua produzione non si limita al contesto di produzione fiorentino, anzi varca, dopo il 1664, le frontiere del Granducato: è sollecitato a scrivere anche per festeggiamenti di altre corti principesche19 e parecchi suoi libretti sono adattati all’uso di Venezia, ripresi, trasformati ulteriormente anche per Firenze, e continuano ad essere rappresentati in varie città italiane e perfino a Düsseldorf in traduzione (Giocasta regina d’Armenia), con musiche diverse, fino almeno al 175520.

Moniglia può essere considerato l’erede diretto dei primi inventori del melodramma, non solo perché è fiorentino, ma perché scrive all’interno di un sistema ancora privato e commendiatizio, per il quale l’opera in musica resta un fatto eccezionale e ufficiale e, in quanto tale, deve essere fissata e offerta all’ammirazione di tutti anche dalla pubblicazione.

Si deve tuttavia considerare che, benché gestito da un’accademia strettamente legata e controllata dal potere mediceo, e dedicato alle sole rappresentazioni della corte, il teatro della Pergola è il prototipo del teatro « moderno », che integra nella sua architettura e nelle attrezzature sceniche, le innovazioni più recenti dei teatri romani, ferraresi, veneziani (palchetti, arco di scena, macchine, dispositivi per i cambiamenti di scena, stanzini per i cantanti) e dispone anche di cantanti fissi stipendiati dal cardinale e richiesti dalle grandi corti europee21. Questo offre a Moniglia la possibilità di superare la tradizione, di integrare nella sua drammaturgia e nelle forme di spettacolo cortigiano (in particolare la « festa teatrale » ), tematiche, personaggi e situazioni che integrano le novità del modello veneziano del dramma per musica, e di scrivere testi che possono essere intonati da maestri forestieri (così l’Hipermestra, festa teatrale, di cui la musica viene chiesta sin dal 1653 al veneziano Francesco Cavalli per inaugurare il teatro della Pergola), cantate su altre scene, ed esportate poi verso altri teatri. Non solo, ma ciò gli permette anche di inventare forme del tutto nuove – come i dramma civili o civili rusticani, commedie in musica dialettali, in tre atti, composizioni da lui chiamate espressamente « opere giocose » 22 – proposte per i divertimenti della corte durante il Carnevale, tra il 1657 e il 1664, che possono essere considerate anche musicalmente come proto-drammi giocosi. Anticipa in un certo senso la figura del Metastasio, non solo perché, come lui, stipendiato da una corte e a servizio di principi, ma perché produce i suoi libretti in quello spazio di tempo situato alla cerniera tra due fasi decisive della storia del libretto (gli ultimi trent’anni del Seicento), nel momento in cui la questione della « dignità letteraria » del libretto, che si era persa dopo il 1640 all’interno del sistema di produzione impresariale veneziano, comincia ad essere riflessa, teorizzata. Nel momento insomma in cui vengono emesse, all’interno di riflessioni sulla poesia e la letteratura23, le varie condanne accademiche del dramma per musica e le soluzioni per migliorare la sua « imperfezione » che porteranno alle opere riformate dello Zeno e di Metastasio. In Moniglia confluiscono quindi il passato, il presente e il futuro dell’opera, il melodramma fiorentino, il dramma veneziano e i primordi del dramma « riformato » .

Il caso Moniglia è tanto più singolare, e quindi pertinente, poiché contrariamente a Rinuccini o a Busenello e più tardi a Metastasio, lui non è esattamente un letterato. Anzi un suo biografo racconta come la sua attività di scrittore per la scena era denunciata e derisa dai letterati fiorentini che consideravano con molto disprezzo sia il suo insegnamento di medicina, sia i suoi parti teatrali, e come lui abbia suscitato a lungo a Firenze delle controversie piuttosto burrascose, fino ad essere sopranominato Curculione, cioè un verme che divora la frutta e la rende marcia24. Di non musicabile restano solo due testi stampati, una commedia dal titolo piuttosto « spagnoleggiante », All’amico non si fida ne la moglie ne la spada del 1668 (Roma, Blupardi), e L’Adelaïde, dramma regio sacro, in prosa, rappresentato nel Teatro Cocomero degli accademici Infuocati, nel 1689 (Firenze, Vincenzo Vangelisti)25, e un testo rimasto manoscritto, Il Laurindo26.

Eppure, pochi anni dopo la sua morte, per quasi tutto il Settecento, lo troviamo elevato a livello di modello, citato e lodato nelle ulteriori storie della letteratura. Così Pier Jacopo Martello, nel già citato Dialogo della tragedia antica e moderna, salva il Moniglia dalla folla di quelli che lui chiama con parole assai sprezzanti i « verseggiatori » o, peggio ancora, i « testori di versi », servili, rifiutando loro lo statuto aristotelico di Poeta27. Moniglia, detto senza derisione da Martello il « severo Moniglia », viene citato con l’insieme delle sue opere e posto allo stesso livello dei suoi contemporanei, Francesco de Lemene e Giuseppe Domenico de Totis28, e di Apostolo Zeno. L’elogio maggiore riguarda i suoi drammi per musica « toscani » che, secondo Martello, si ergono decisamente al di sopra della mole indistinta dei drammi « forestieri », « cattivi », veneziani, genovesi, milanesi, bolognesi, reggiani.

Negli stessi anni, Moniglia viene anche citato come poeta e scrittore modello nella Storia della volgar poesia (1713) di Gianni Mario Crescimbeni e nei due volumi da lui consacrati agli Arcadi29. Il Crescimbeni stende una nota biografica lunghissima dove viene precisato che Moniglia « successe a Francesco Redi come medico di corte » e che lo accompagnò nei suoi vaggi dove appunto « ebbe campo di provvedersi di buone notizie e di conoscenze di letterati ». Lasciando da parte i suoi trattati di medicina, Crescimbeni dà anche largo spazio alla sua « erudizione particolare nella Toscana Poesia [...] », alla celebrità acquisita con la sua « poesia Comica », cioè teatrale, e ricorda le varie accademie che, oltre all’Arcadia nella quale fu iscritto nel 1692 sotto il pseudonimo Nardilo Azonio30, lo accolsero nei loro cenacoli, attestando con questo la legittimità della presenza di Moniglia in una storia della volgar poesia: « avendo egli sin dall’adolescenza frequentato l’accademia degli Apatisti31, onde di lui viene fatta menzione dal fondatore [...]; ammesso all’accademia della Crusca, e sovente vi ritornò colle sue Rime e Prose » . Ovviamente ne parla anche il fiorentino Giulio Negri, nell’Istoria degli scrittori fiorentini, nel 1722, ma gli elogi più significativi sono quello di Francesco Saverio Quadrio nella grande Storia e ragione d’ogni poesia del 174432 e quello del Tiraboschi nella Storia della letteratura italiana33 che, pur evocando ancora le sue controversie, lo ricordano come autore di « drammi per musica » .

Siamo quindi di fronte a un complesso esempio di integrazione di un librettista non scrittore, non letterato, nelle cerchie accademiche più prestigiose, proprio per la sua produzione librettistica, ad un esempio di riconoscimento dell’autorità letteraria di un librettista, persino da parte di chi mette in dubbio il valore letterario di questo tipo di produzione. Il Moniglia ha senza dubbio, ancora prima del Metastasio, permesso al libretto d’opera di varcare, in modo positivo, questa « frontiera » che mezzo secolo dopo un autore drammatico-librettista di portata europea come Goldoni non riuscirà da parte sua a varcare totalmente.

Strategie editoriali: dare al libretto « nuovi ornamenti » letterari

Di questo particolare, quasi unico, statuto di librettista elevato al rango di letterato, sono testimoni le edizioni dei suoi libretti, del tutto esemplari delle strategie adoperate per la conquista di questo riconoscimento. I libretti di Moniglia ci sono pervenuti sotto una doppia forma.

Sotto forma di opuscoli separati pubblicati intorno alla prima rappresentazione, per una unica opera. Queste edizioni « princeps » sono di due tipi a seconda dell’importanza dell’evento celebrato:

1) le feste teatrali del 1658 (Hispermestra) e del 1661 (Ercole in Tebe), e il balletto a cavallo Il Mondo festeggiante del 1661 (documento allegato: vedi tabella), esistono separatamente in edizioni di lusso, in 4°, con copertina di velino, pubblicati sia nella Stamperia ducale (o alla Condotta) per Hipermestra e Il Mondo festeggiante, sia nella nuova Stamperia all’Insegna della Stella per Ercole, con una descrizione dettagliata dello spettacolo e arrichiti da un apparato di illustrazioni delle scene e macchine34;

2) i drammi civili rappresentati nel Teatro della Pergola durante il Carnevale35 e i quattro drammi per musica del Casino di Francesco Maria de’ Medici e di Pratolino36 sono disponibili in edizioni di formato piccolo (in 12, standard del libretto), a volte senza il nome del librettista37 e con l’indicazione che certi versi stampati possono non essere recitati per abbreviare la rappresentazione38, tuttavia con le abituali dediche e argomenti e una rilegatura sempre ricca, che ricorda la destinazione cortigiana39. Si noti che non tutti i drammi per musica del Moniglia, seri o giocosi, godono di una tale edizione « princeps », situazione abbastanza comune a quell’epoca, come abbiamo detto. Se non stupisce l’assenza di tale edizione per le feste teatrali o i drammi richiesti per eventi non direttamente legati alla corte ed ai principi medicei (La Semiramide, La Giocasta richiesta dal Cesti, La Pietà di Sabina, Il Teseo, Il Germanico sul Reno), più strano appare la non pubblicazione « princeps » di due drammi per musica, Il Ritorno di Ulisse e Enea in Italia, tutt’e due su argomenti già trattati a Venezia da Claudio Monteverdi40, e rappresentati durante le permanenze carnevalesche della corte a Pisa, negli anni ‘67 e ‘70, per i quali ci resta parecchia documentazione manoscritta, persino una descrizione minuta della rappresentazione e del luogo dello spettacolo per Enea in Italia, nella quale i meriti del poeta, Moniglia, e del compositore Jacopo Melani, sono pienamente riconosciuti41. Tuttavia, è vero anche che le rappresentazioni pisane sono più private che pubbliche e non sono politicamente importanti come le celebrazioni della Pergola. Ci sono inoltre due drammi-balletti, pensati per offrire un divertimento alla principessa francese Margherita Luisa, sposa del principe ereditario Cosimo, e cugina del re Luigi XIV, che aveva sposato il principe Cosimo nel 1661. Può darsi che appunto questa destinazione spieghi la non pubblicazione dei testi separati, se consideriamo che già a quell’epoca, i rapporti coniugali della coppia principesca – che doveva salire sul trono nel 1671 alla morte di Ferdinando II – erano assai burrascosi42. Invece risulta davvero strano che non sia stato stampato, sotto questa forma separata, il dramma civile rappresentato alla Pergola durante il Carnevale del 1659, Il vecchio balordo, allorché questi fu recitato in una occasione politicamente importante, per una visita di ambasciatori moscoviti, con gran apparato di macchine43.

Oltre a queste parziali edizioni « princeps », esiste una raccolta complessiva curata dallo stesso librettista, sotto il titolo Delle poesie dramatiche del Dottor Giovan Andrea Moniglia, accademico della Crusca, che presenta la particolarità di esistere sotto due forme pubblicate a solo dieci anni di distanza, Moniglia vivente:

1) un’edizione in 4°, che possiamo chiamare « di lusso », con copertina di velino e incisioni, apparsa negli anni 1689 e 1690, con i libretti ripartiti in maniera equilibrata44 in tre volumi stranamente pubblicati in tre case editrici diverse (Stamperia di S. A. S. alla Condotta per il primo, Cesare e Francesco Bindi per il secondo, Vangelisti per il terzo, documento allegato: vedi tabella), e con una cronologia non continua (il secondo volume pubblicato l’anno dopo il primo e il terzo, da un editore nuovo). Se consideriamo però che Moniglia dedica la raccolta espressamente al principe ereditario Ferdinando di Toscana45, questa discontinuità della cronologia e la diversità delle case editrici si spiegano perfettamente dalla destinazione delle opere e dalla loro importanza per la corte toscana. Dal momento che la data di pubblicazione del primo e terzo volume corrisponde a quella del matrimonio del principe Ferdinando con Violante Beatrice di Baviera, la raccolta potrebbe anche considerarsi un omaggio personale del Moniglia al principe46, oppure, al contrario, una reazione al fatto che il librettista, dopo aver servito il principe a Pratolino per parecchi anni, non fosse stato scelto per scrivere il libretto della festa teatrale data in occasione delle nozze principesche al Teatro della Pergola47. Vengono raggruppate e pubblicate per prime le grandi opere celebrative della Pergola, le due feste teatrali e il balletto a cavallo, con le descrizioni e le illustrazioni già esistenti – e quindi si spiega anche che a stampare il primo volume sia stata la Stamperia di S. A. S, che aveva pubblicato Hipermestra e Il Mondo Festeggiante. Vengono inserite accanto a queste opere « magne », con una certa coerenza, le due rappresentazioni cortigiane pisane non ancora edite, Il Ritorno di Ulisse e Enea in Italia, forse perché nel 1689 era svanito il ricordo dei dissidi della coppia granducale e, in ordine cronologico, i primi tre drammi scritti per Pratolino e il Casino di Francesco Maria. Logico anche, dal punto di vista del « genere » come pure da quello della destinazione dell’opera, il raggruppamento di tutti drammi civili – tranne uno48 – nel terzo volume: così si spiega anche perché il terzo sia stata pubblicato insieme al primo. Logica e coerente per finire, la decisione di raggruppare nel secondo volume insieme all’ultimo dramma per Pratolino, due testi minori musicati dal padre Lorenzo Cattani, cantati nelle camere della granduchessa Vittoria (Il Pellegrino, e l’oratorio San Geneviefa), e tutti i libretti richiesti da corti straniere, e di dare alla stampe questo secondo volume solo un anno dopo, presso un editore che non aveva pubblicato i libretti « princeps »;

2) una ristampa in 12°, edita nel 1698, due anni prima della morte di Moniglia, sempre in tre volumi, ma tutti usciti dai tipi del Vangelisti che possiamo considerare l’editore privilegiato del Moniglia49, senza le illustrazioni del primo volume. Una ristampa quindi più sotto forma più fruibile, oggi si direbbe « tascabile », che conserva nondimeno tutto l’apparato paratestuale (dediche, prefazioni, lettere di difesa, glossari aggiunti dal Moniglia), e riprende la stessa ripartizione dei vari libretti nei tre volumi, con un’unica differenza: l’aggiunta, senza spiegazione, nel volume di due testi non pubblicati nella prima edizione, né reperibili sotto altra forma, un Inno a San Rinieri, e un « dramma musicale » con il titolo, Il Radamisto50.

Questa doppia pubblicazione, a conclusione della lunga carriera di Moniglia, e in particolare la ristampa « tascabile », dimostra l’importanza da egli acquisita nel panorama letterario fiorentino e più largamente italiano, e non sembra abusivo ipotizzare che questa raccolta e la sua ristampa abbiano contribuito ad assicurare al librettista il riconoscimento unanime da parte dei letterati italiani nei primi del Settecento, che abbiamo ricordato più sopra. Per accertarsene, basta osservare rapidamente le scelte operate dall’autore – e dagli editori – nell’organizzare questa raccolta.

Cominciamo dalla scelta del titolo. Il titolo scelto dal Moniglia, a differenza di quello scelto prima dal Busenello, per esempio, non lascia nessun equivoco sulla qualità che lui intende conferire ai suoi libretti. Col suo titolo metaforico, Delle Hore ociose, Busenello mostra di non voler affrontare il problema della denominazione di questi testi « impuri », destinati alla musica e allo spettacolo. Questo titolo può difatti riferirsi al valore di puro divertimento che l’autore conferisce ai suoi parti – sia dal punto di vista della scrittura e quindi del librettista, sia dal punto di vista della funzione attribuita a tali opere. In tutt’e due i casi, persino dando alla parola « ozio » un valore positivo, umanistico, ci sembra che l’intitolazione diminuisca alquanto l’importanza data dall’autore a queste sue creature e contraddisca un po’ l’impegno preso per pubblicarle in raccolta, non pubblicando altre sue opere letterarie.

Moniglia invece si mostra decisamente più offensivo e chiaro sulla questione del riconoscimento del libretto in quanto opera letteraria riprendendo il termine – già usato precedentemente da Benedetto Ferrari51 – di « poesia », e bandendo dal titolo generale qualsiasi allusione alla destinazione musicale del testo insistendo invece sul loro valore teatrale e letterario.

Questa denominazione positiva che riconosce al libretto la legittimità di figurare tra i generi drammatici, viene completata e confermata, nel frontespizio di ambedue le edizioni, con la menzione dell’appartenenza accademica dell’autore alla Crusca, certificata dall’uso, auto-rizzato dallo stesso arciconsolo dell’accademia52, dell’emblema e del motto degli accademici (« Il più bel fior ne coglie »). Alle opere raccolte sotto tale autorità e qualità eccellente viene così concesso senza restrizioni lo statuto di testo di lingua regolare, che poi l’autore si impegna ad argomentare e confermare concretamente nel ricco e complesso paratesto inserito nei vari volumi.

Una dedica (« Serenissimo Signore ») e una prefazione (« Al cortese Lettore ») aprono regolarmente il primo volume. Il tono generale è quello, molto diffuso in questi testi preliminari, della retorica cortigiana con la quale Moniglia protesta della sua sottomissione verso i principi protettori (le sue opere sono « figlie d’ubbidienza »), e proclama la sua assoluta umiltà letteraria: per giustificare la pubblicazione dei suoi testi, Moniglia usa un procedimento retorico anch’esso molto diffuso, finge di esser stato spinto contro la sua volontà a pubblicare i suoi libretti che, con falsa modestia, nomina « bagatelle ». Falsamente modesto, sì, perché, pur essendo convenzionali, questi due testi preliminari propongono una riflessione di poetica già moderna che chiarisce la posizione di Moniglia nei confronti della scrittura librettistica e giustifica la loro pubblicazione come testi drammatici autonomi. Moniglia esprime in poche frasi la contraddizione nella quale si trova – e si troverà a lungo – il librettista: essere spossessato dei suoi testi, dover accettare che fossero utilizzati e cambiati da altri e insieme volersi autore di essi53. Su questa base, dichiara ovviamente di ammettere la subordinazione dei testi librettistici agli ornamenti più potenti della musica e della scenografia54, suggerendo persino che l’edizione di questi, togliendo loro questi ornamenti fondamentali, potrebbe essere rischiosa perché contro natura. Ma l’edizione stessa in raccolta, col suo titolo, e la tutela dell’Accademia della Crusca, appare proprio concepita per proporre nuovi « ornamenti » utili a rendere queste bagatelle « perfette », anche senza il concorso del canto e delle scene.

Difatti, nuovi ornamenti, non più scenici ma di tipo letterario, possono essere considerate le diverse giustificazioni che lui dà per evidenziare e provare la conformità dei suoi drammi alle regole della poetica aristotelica, e quindi per riallacciarli ai generi canonici riconosciuti dai circoli accademici ai quali appartiene. Nella prefazione troviamo per esempio una serie di espressioni che fanno risaltare il carattere morale delle opere, dette, sì, « figlie d’ubbidienza », e considerate imperfette o incompiute, ma figlie però che non sono « femmine licenziose, lascive » bensì « verginelle ben allevate », « matrone onorate », che hanno per modello non la « soverchia licenza né i motti di Plauto, ma la gentil purità e espressione del costume di Terenzio »55. Qui, Moniglia parla forse più specialmente delle sue opere giocose, ma l’argomento vale per tutti i libretti giacché presentato in apertura dell’intera raccolta. In questo modo, i suoi drammi per musica risultano iscritti nel vasto procedimento di revisione – per non dire riforma – della scrittura drammatica che a Firenze si profila già negli anni stessi in cui Moniglia comincia a scrivere, per esempio sotto la penna di un suo compatriota, e accademico Immobile, Girolamo Bartolommei, autore nel 1658 di una Didascalia ovvero dottrina comica56, dove vengono condannate le commedie « oscene » sregolate dei comici improvvisatori, e rivendicato il ritorno a una commedia « di mezzo » ispirata a Terenzio più che a Plauto, nella quale lo spettatore possa trovare maggiore verosimiglianza nei soggetti e maggiore utilità nei personaggi e nelle situazioni offerte allo suo sguardo.

Ma c’è di più. A queste allusioni delle prefazioni, che lasciano trasparire una posizione risolutamente riformatrice del testo melodrammatico, Moniglia aggiunge due altri testi nei quali la sua posizione viene indirettamente consolidata. Si tratta di due Lettere di difesa delle sue opere allegate ai due drammi per musica, la prima intitolata esattamente Lettera apologetica per lo Quinto Lucrezio proscritto, scritta da F. N. all’autore57 e la seconda Lettera dell’autore ad un suo buon amico a proposito dell’ultimo dramma, Il Tiranno di Colco58.

Può darsi che la prima sia stata scritta dallo stesso Moniglia, come la seconda, in risposta a critiche che gli erano state mosse (gli anni sono appunto quelli delle cotroversie maggiori nelle quali è impegnato)59. Quello che più importa è sottolineare la coerenza delle difese e delle risposte con quello che Moniglia afferma anche nei testi preliminari. Le accuse girano essenzialmente intorno a mancanze di decoro dei personaggi, all’inverosimiglianza di certe situazioni e all’uso erroneo di termini storici messi in modo incongruo nella bocca di personaggi servili. Ad esempio, nel Quinto Lucrezio proscritto, gli viene rimproverato il fatto che un triumviro si presenti a una dama senza essere stato annunciato prima o il fatto che il servo balbettante – Davo, personaggio comico ricorrente nei drammi di Moniglia – pronunci la parola « Imperador »; o, ancora, l’uso erroneo di termini storici per designare certi personaggi (Augusto per il triumviro). Nel Tiranno di Colco, gli errori o difetti rilevati dai critici toccano ancora una volta le inverosimiglianze o mancamenti al « decoro » in particolare intorno al personaggio del tiranno, Clearco: il primo difetto rilevato è che l’autore « non l’abbia mantenuto nella maestà, e decoro dovutogli, facendolo comparire in scena sonnacchioso, e briaco » . Il secondo che « non abbia preparato gli Spettatori a tale unbriacchezza, col fargli alterare ad arte, o in un convito, o in altra occasione, il vino », il terzo che « da lui non si riconosca Damede, benché ricoperto delle vesti di umilissimo Garzone del Giardino » 60.

A queste accuse Moniglia – direttamente o tramite un suo amico – risponde in modo preciso, citando moltissimi esempi presi ai migliori autori della letteratura antica e italiana (Petrarca, Boccacio61), coi quali esibisce la sua erudizione e la sua conoscenza della lingua greca latina ed italiana62, ma che sopratutto servono a dimostrare la sua conoscenza delle regole di poetica che impongono agli scrittori di sostenere il decoro dei personaggi illustri e di rispettare la « verosimiglianza » :

Io so quanto granve sia l’errore nei componimenti scenici di non sostenere il Decoro delle Persone illustri che si rappresentano, non solamente nei costumi, ma eziandio nella proprietà dei Gesti e della Frase. Non mi sono in tutto e per tutto ignote quelle Leggi, che severamente l’impongono, alla cui osservanza i’ sono con tutto sforzo ben volentieri obbligato. Non è questo l’unico Drama che mi sia uscito dalla penna; pur troppo con mio rossore, il numero, oltre a quegli, che per anco si celano Manoscritti, se ne palesa su questa Stampa, nella quale, benché altri non mai rappresentati, altri rappresentati, ma non usciti alla luce si contenghino, l’ultimo però che io abbia composto, è ‘l presente, e si come in ogni altro da mè, enziandio negli anni giovinili, composto, mi son ristretto entro i principi di quella Scuola, malagevolemente ora mi si rende l’essere incolpato trasgressore di quell’ammaestramento che sempre mi sono industriato di mantenere vigoroso ed inviolabile.63

La sua è quindi una posizione classicizzante, aristotelica, che applica non solo ai componimenti seri, ma anche ai drammi giocosi. Nella prefazione del Podestà di Colognole, in apertura del volume III della raccolta, pur ripetendo che i suoi testi sono poca cosa senza il musico, gli abbellimenti della scena, la grazia dei recitanti, e quindi ammettendo che il lettore si trova davanti a testi « singolari », e imperfetti, egli insiste di nuovo sulla necessaria adequazione tra il carattere dei personaggi e la realtà, e ritorna in modo quasi ossessivo sulla sua osservanza delle « buone regole della Poetica », sul suo rispetto del « costume del personaggio, tanto nel parlare che nelle operazioni » 64 e sul fine morale che assegna con questo ai suoi testi drammatici.

Questa posizione certo strettamente legata all’appartenenza accademica del Moniglia, può aver influenzato la scelta dei testi che decide di far figurare nella raccolta. Come abbiamo detto, e come lui stesso ricorda nella lettera citata precedentemente, certi drammi erano rimasti manoscritti fino alla data della prima edizione della raccolta, e qualcuno non vi fu integrato, come il libretto del dramma civile, Il vecchio balordo, benché, come è stato detto, fosse stato rappresentato alla Pergola, in occasione ufficiale65. Perché l’esclusione definitiva di questo testo già privo di edizione « princeps », che presenta, nel manoscritto, un prologo riflessivo sotto forma di dialogo tra la Commedia e la Musica, nel quale la Commedia si fa il campione di una commedia moralizzata, di un teatro educativo, in perfetta eco alle proposte già citate di Girolamo Bartolommei? Forse nel 1689 questo prologo teorico non bastava a cancellare il carattere un po’ licenzioso dell’intreccio66 né valeva il fatto, ormai sicuramente dimenticato, che l’opera fosse stata data per un’occasione ufficiale della corte. Anche se ripresa probabilmente da certi intrecci di commedie cinquecentesche, la situazione drammatica poteva sembrare a Moniglia non conforme a quanto affermava nel suo paratesto a proposito della « purità o virginità » delle sue « figlie », non proprio adatta alla costruzione della figura di letterato attento alle regole e alla buona morale.

Può darsi anche che la non pubblicazione del Vecchio balordo sia stata decisa semplicemente per mancanza di spazio nel terzo volume, malgrado la scelta di pubblicare una versione ridotta del Pazzo per forza67. Difatti, Moniglia decide di aggiungere un ultimo ornamento di tipo letterario alla stampa dei suoi libretti, ornamento che forse dobbiamo considerare il più importante nella sua strategia editoriale: sono i vari glossari che vengono allegati a ciascuno dei drammi civili del terzo volume, nelle due edizioni successive della raccolta. Come indicano i titoli68, questi glossari sono la spiegazione più o meno distesa delle parole e delle espressioni idiomatiche d’uso fiorentino, usate in particolare dai personaggi buffi, con le quali Moniglia appoggiava tanto la ricerca di verosimiglianza dei personaggi di cui abbiamo parlato sopra, quanto la volontà di distacco dalle forme della commedia, all’improvviso giudicate immorali e non educative. Con questo ultimo ornamento linguistico che riduce i drammi civili a semplici testi conservatori della parlata fiorentina, Moniglia sembra voler togliere ai suoi libretti persino il loro valore drammatico per farne solo testi da leggere. L’analisi dei rimaneggiamenti operati sul manoscritto del Ritorno d’Ulisse per la sua edizione nella raccolta69, come anche la non pubblicazione della descrizione d’Enea in Italia di cui s’è parlato prima, conferma la presa di distanza col testo scenico. Con questa affermazione della autonomia del libretto e del suo valore letterario, Moniglia apre la via alla revisione decisiva del dramma per musica sviluppata in sede accademica degli anni successivi, e all’ulteriore riaffermazione della centralità del libretto nella creazione operistica70.

Note de fin

1 Orazio Vecchi, L’Amfiparnaso, commedia harmonica, Venezia, 1597 (partitura e testo). La dedica porta la data del 20 maggio 1597. Rappresentata probabilmente nel 1594. Orazio Vecchi fu maestro di cappella e professore di musica alla corte di Cesare d’Este. Oltre l’Amfiparnaso, è l’autore de La Selva di varia recreatione (1590), del Convito musicale (1597) e de Le Veglie di Siena ovvero i vari umori della musica moderna (1604), tutte opere in stile polifonico.

2 « Le frontiere del letterario » è l’espressione usata da Alberto Asor Rosa per la sua premessa al volume 6 (Teatro, musica, tradizione dei classici) della Letteratura italiana., Torino, Einaudi, 1986.

3 Ibid., p. 6

4 Gérard Genette, L’œuvre de l’art, Immanence et transcendance, Paris, Seuil, 1994, p. 66 sg.

5 Su questo approccio, vedi Adriana Guarnieri Corazzol che propone di studiare lo « statuto culturale, soggettivo e oggettivo, del libretto ». Uno statuto reperibile, secondo lei, attraverso l’analisi del rapporto che passa tra il libretto (e il librettista) e « l’idea dominante di letteratura e di letterato », in Musica e letteratura in Italia tra Otto e Novecento, cap. I: « Scrittori-librettisti e librettisti-scrittori », Milano, Sansoni, 2000, p. 7-8.

6 Vedi nota precedente. Si deve aggiungere anche la nuova categoria del compositore-librettista che fiorirà poi nel secolo XX per la maggior parte delle creazioni liriche.

7 Cosí li definisce Pier Jacopo Martello nel suo dialogo Della tragedia antica e moderna (L’impostore, riscritto sotto il titolo Della tragedia antica e moderna, dialogo), Roma, Gonzaga, 1715, nella sezione quinta: « Un componimento che per piacere vuol essere sregolato, [...], un’imperfetta imitazione de’ migliori, e in conseguenza un’imperfetta tragedia », p. 172. Il melodramma, secondo Martello, è una composizione che « mai non vivrà, né farà vivere i loro nomi; perché o i drammi saranno novellamente cantati sovra le scene, e sempre vi compareranno deformati dalla sfrenata libidine di novità, che nelle ariette si vuole; o non saranno cantati, ed eccoli in un letargo profondo e mortali sepolti ». Cosí li considera tuttora Goldoni in diversi suoi testi (vedi la prefazione a vari libretti, tra i quali I portentosi effetti della madre natura o De gustibus non est disputandum, e nel libretto metateatrale La bella verità del 1762). Goldoni non parla mai dei suoi libretti nei Mémoires e non li fa pubblicare prima dell’ultima edizione Zatta, in fin di vita.

8 Ottavio Rinuccini, autore della favola Euridice messa in musica contemporaneamene da Jacopo Peri e da Giulio Caccini, aveva scritto nel 1598 una Dafne di cui la partitura è persa, ma che fu poi di nuovo intonata da Marco da Gagliano nel 1607. Nella « Dedica alla Christianissima Maria dei Medici Regina », dell’Euridice, spiega che: « cominciando [...] a conoscere quanto simili rappresentationi in Musica siano gradite, ho voluto recar in luce queste due, perché altri di me più intendenti si ingegnino di accrescere e migliorare sì fatte Poesie, di maniera che non habbiano invidia a quelle antiche tanto celebrate da i nobili scrittori ». Le variazioni tra il libretto stampato a parte e le partiture sono, in questo caso, minime.

9 Il valore del tutto usuale e materiale del libretto separato è segnalato in certi casi dalla presenza di commenti manoscritti nel margine che sono delle reazioni a caldo dello spettatore durante la rappresentazione o subito dopo, vedi ad esempio: Claire Vovelle, « La spontanéité étudiée d’un spectateur anonyme du XVIIe siècle. Analyse des annotations manuscrites sur un livret de G. C. Corradi, La divisione del mondo (1675) », in Les Traces du spectateur, XVIIe-XVIIIe siècle, F. Decroisette éd., Presses universitaires de Vincennes, Saint Denis, 2006, p. 159-187. Sulle riduzioni a scenario, vedi E. Rosand, « The Opera Scenario, 1638-1655: a preliminary survey », in In cantu et in sermone. For Nino Pirrotta on his 80th Birthday, a cura di F. Della Seta e F. Piperno, Firenze, Olschki, 1989, p. 335-346.

10 Per esempio, per l’Hipermestra di Giovan Andrea Moniglia, rappresentata nel 1658, l’edizione a stampa ufficiale, contemporanea alla rappresentazione, è composta di due parti, con due titoli diversi: prima parte, L’Hipermestra, festa teatrale rappresentata dal Serenissimo principe Cardinale Gio. Carlo di Toscana per celebrare il giorno natalizio del real principe di Spagna... e seconda parte Descrizione della Presa d’Argo e degli amori di Linceo ed Hipermestra [...] che contiene la descrizione minuta dell’andamento dello spettacolo e in particolare del « clou » scenotecnico rappresentato dal grande « abbattimento » alla fine del secondo atto, con quattordici incisioni di Silvio degli Alli.

11 Tutti questi libretti sono diretti allo spettatore. Da segnalare anche i « libretti di scena », distinti dai libretti stampati, diretti agli attori e cantanti, che contengono le indicazioni della disposizione e condotta delle macchine e scenari, senza o con il testo completo dell’opera. È una pratica francese della fine del Settecento, iniziata nel teatro di prosa, estesa poi all’opera, come dimostrano i vari « livrets de scène » del Théâtre-Italien di Parigi. Viene adoperata anche in Italia nella seconda metà dell’Ottocento, per esempio da Verdi nei « libroni » o « disposizioni sceniche ».

12 Benedetto Ferrari, Poesie drammatiche, Milano, G. P. Ramellati, 1644, e Prospero Bonarelli, Melodrami, cioè opere da rappresentarsi in musica, Ancona, appresso Marco Salvioni, 1647. Un librettista come Giulio Rospigliosi a Roma non ha lasciato invece raccolte complessive curate da lui. Invece esistono degli « argomenti » o degli « scenari » per le sue opere, pubblicati tutti dalla stessa casa editrice, la Stamperia della Reverendissima Camera Apostolica, vari argomenti per il Sant’Alessio, nel 1634 e 1635; Argomento del dramma musicale de' santi Didimo e Teodora, 1635; Argomento et Allegoria della commedia musicale intitolata Chi soffre speri, 1637 e 1639, Argomento dell’opera musicale intitolata L’innocenza difesa, 1641, Allegoria et Argomento dell'attione rappresentata in musica intitolata Lealtà con Valore [Il palazzo incantato], 1647, e Scenario di Dal male il bene, 1654.

13 Gli Amori di Apollo e Dafne (1640), La Didone (1641), Incoronazione di Poppea (1642), La prosperità infelice di Giulio Cesare dittatore (1646?) e infine l’ultimo suo libretto, La Statira, principessa di Persia. Non esistono edizioni « princeps » dei libretti di Busenello, se non per La Statira. La Didone circola dapprima sotto forma di canovaccio o scenario. Esiste un’edizione del libretto separato dell’Incoronazione di Poppea che segue la rappresentazione napoletana del 1651. Nella raccolta, mancano almeno due libretti di cui si conservano i manoscritti, La Discesa di Enea all’inferno (incerta data, 1642?), possibile prolungamento della Didone, e un dialogo a tre, Lucrezia romana.

14 Dopo l’edizione Bettinelli degli anni 1733-35 sotto il titolo Opere drammatiche, molteplici sono le edizioni delle opere drammatiche metastasiane risconosciute e controllate dall’autore, tra le quali Naples, Novello de Bonis, s.d., Roma, P. Leone, 1737, Roma, Barbiellini, 1746. Le opere drammatiche sono poi edite all’interno di raccolte che raggruppano tutte le opere del poeta cesareo, tra le quali per il solo Settecento, Paris, Quillau, 1765; Roma, Reale, 1768; e Paris, Veuve Herissant, 1781-82 (Opere complete). Le edizioni « princeps » dei libretti sono quelle realizzate, col testo « originale », nelle città in cui l’opera viene creata o a volta ripresa con altra musica (per Metastasio, Venezia, Roma, Napoli, Madrid, Vienna). L’ultima edizione dei libretti metastasiani, che, presentando contemporaneamente la versione « princeps » e altre versioni stampate dei libretti, permette di capire quali furono le scelte filologiche del poeta per fissare i suoi testi nell’edizione, è quella curata da Anna Laura Bellina, in tre volumi, per l’editore Marsilio, a Venezia, 2002-2004, con Cd-Rom.

15 Proposta al Festival Oude Musiek, Utrecht, nel 2006, da Mike Fentross, con la Sfera armoniosa.

16 Secondo lo stesso autore, che nella « Lettera apologetica al Tiranno di Colco », inserita nel vol. II delle Poesie dramatiche (vedi sotto, nota 52) afferma che questo dramma, rappresentato per la prima volta il 2 agosto 1687 a Pratolino, fu l’ultimo di penna sua. L’Hipermestra, rappresentata nel 1658, fu cominciata in realtà nel 1653, in previsione dell’inaugurazione del teatro nel 1656, ma fu rimandata a causa di un’epidemia di peste.

17 Secondo una biografia manoscritta di Salvino Salvini conservata alla Biblioteca Marucelliana di Firenze (A 181), suo padre era iscritto nel primo ordine dei Nobili di Sarzana ed era stato eletto nel 1600 deputato per la revisione e la correzione di certi capitoli del diritto criminale. Giovan Andrea studia presso i padri della compagnia di Gesù, a Pisa, grammatica e retorica e si diploma in filosofia e medicina. Entrato alla corte a vent’anni, nel 1644 accompagna il principe Giovan Carlo a Roma quando questi va a prendere il cappello cardinalizio. A trentadue anni, diventa suo medico. Il suo nome si ritrova nelle liste dei salariati del cardinale a partire del 1656. Dopo la morte di Giovan Carlo nel 1664, è medico della granduchessa Vittoria della Rovere e succede a Francesco Redi presso il nuovo granduca Cosimo III nel 1671 dopo la morte del granduca Ferdinando II. È l’autore di vari trattati di medicina in latino pubblicati a Firenze. Era decano del Collegio dei Medici e riformatore di questo magistrato. Insegna medicina per più di trent’anni all’università di Pisa.

18 Il teatro della Pergola viene eretto dopo il 1652, dall’allora giovane architetto Ferdinando Tacca, su vari terreni appartenenti all’Arte della Lana in via della Pergola (vicino alla Santissima Annunziata, tuttora in attività), dopo un severo bilancio sullo stato catastrofico dei saloni e sale a disposizione della corte, realizzato dal vecchio Alfonso Parigi, ingegnere del granduca Ferdinando II, nel 1651, in previsione di feste per la venuta a Firenze del duca di Modena nel 1-51 (Archivo di stato di Firenze, Diari d’etichetta, Micellanea Medicea, 357, ins. 70). È un teatro di corte, in gran parte finanziato e gestito dall’accademia degli Immobili, che raggruppa il fiore delle grandi famiglie fiorentine, posta sotto la protezione del cardinale Giovan Carlo sino al 1664, poi sotto quella del granduca Cosimo III. Su questo teatro, vedi il recente catalogo Lo spettacolo meraviglioso. Il Teatro della Pergola: l’opera a Firenze, a cura di E. Garbero Zorzi, P. Marchi, L. Zangheri..., Firenze, Pagliai Polistampa, 2000, p. 83-89,

19 Ad esempio nel 1665, La Semiramide richiesta da Vienna per i previsti festeggiamenti delle nozze del principe Sigismondo Francesco; o nel 1666, Il Teseo, festa teatrale, per le nozze di Giorgio III di Sassonia e Anna Sofia di Danimarca; La Giocasta, regina d’Armenia, richiesta dal musicista e cantanti veneziano Antonio Cesti nel 1669, ma finalmente non rappresentato a Firenze, e il Gernmanico sul Reno di destinazione incerta.

20 Ad esempio La Semiramide, rappresentata a Vienna solo nel 1667, fu ripresa e poi subito edita a Venezia negli anni 1671 e 1674 col titolo La Schiava fortunata (Nicolini editore), e rappresentata con enorme successo in vari teatri, San Giovanni e Paolo, San Mosè. Il libretto veneziano è rivisto da due librettisti rinomati, Matteo Noris, che collabora anche alle feste fiorentine del 1689 – vedi sotto nota 45 –, e Giulio Corradi, con musiche di Ziani). L’opera viaggia anche a Modena (Soliani editore), ed è ancora recitata a Bologna nel 1755. L’editore veneziano Nicolini pubblica anche l’Ercole in Tebe rifatto da Aurelio Aureli con lo stesso titolo nel 1671, per il teatro di San Salvadore, e anche una versione di Giocasta regina d’Armenia rivista da Castoreo, nel 1677, per il teatro di San Mosè. Altro successo, quello della La Pietà di Sabina, scritta per Firenze, ma non rappresentata immediatamente, che diventa poi a Venezia, nel 1718, L’Amor di figlia, rappresentata ancora con questo titolo a Firenze nel 1730; e quello d’Hipermestra (edita a Bologna nel 1658 sotto il titolo Dov’è amore è pietà, poi a Lucca, nel 1680, e ripresa a Roma al teatro Capranica, nel 1679).

21 Vedi F. Decroisette, « I cantanti del Cardinale e l’Europa », in Lo spettacolo meraviglioso. Il Teatro della Pergola, cit., p. 83-89, e Id., « Il sogno teatrale di Francesco Ballarini nella Vienna del Settecento », in I Percorsi della scena. Cultura e comunicazione del teatro nell’Europa del Settecento, a cura di F. C. Greco, Napoli, Luciano ed., 2001, p. 358-372.

22 Nelle prefazioni alle sue Poesie dramatiche (sic) Moniglia usa addiritura il termine « giocoso » per i suoi componimenti in musica civili o rusticali, opponendoli ai suoi componimenti eroici (feste teatrali e drammi per musica). Sembra anticipare con questo l’opposizione dramma serio o regio, e dramma buffo ou giocoso, anche se nei drammi « seri » continua a inserire i tradizionali personaggi comici apparsi nei drammi romani e veneziani, la vecchia nutrice, cantata da un uomo, e il servo codardo e goloso. Vedi « Al cortese Lettore », in Delle poesie dramatiche di Giovan Andrea Moniglia, accademico della Crusca., vol. I, Firenze, Vangelisti, 1698, 12°: « Dopo aver io quella quantità di Musicali Commedie e Giocose ed Eroiche, le quali qui raccolte vedi, composte [...] », p. VII. Il Podestà di Colognole è detto « primo componimento giocoso ». Moniglia usa il termine giocoso nel senso toscano più anziano di poesia campagnola o rustica, come lo usava Lorenzo de’ Medici per La Nencia da Barberino o La Caccia col falcone, e forse anche Ruzzante per certe sue commedie « pastorali » come La Fiorina « comedia facetissima giocosa ». Già nel 1634 Niccolò Villani in un suo Discorso accademico sopra la poesia giocosa, lo aveva applicato a qualsiasi opera « comica » (commedia, parodia, mimo, o poesia popolare). Sui drammi civili, vedi F. Decroisette, « Les drammi civili de G. A. Moniglia, librettiste florentin, entre Contre-réforme et Lumières, in Culture et idéologie après le Concile de Trente: permanences et changements, a cura di Michel Plaisance, Presses Universitaires de Vincennes, Paillart, 1985.

23 Vedi in particolare, Ludovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, Modena, Soliani, 1706, il già citato Martello, e più tardi, Francesco Algarotti, nel suo Saggio sull’opera italiana, 1755-1760.

24 F. Bonazzini, in un Diario manoscritto conservato alla Biblioteca Nazionale di Firenze, intitolato Il Bidosso ovvero diario dei suoi tempi, in due tomi, che coprono il periodo 1640-1701, scrive che Moniglia « morì all’improvviso nell’atto di vomitare, odiato dai più dotti della sua professione, i quali tutti deluse con la sferza della sua lingua.... ». Le controversie sono con Giovanni Cinelli e Antonio Magliabecchi, nel 1684, intorno a un affare di cura medica, nel quale Moniglia ottenne l’imprigionamento del Cinelli. Bonazzini nota nel suo Diario il 28 settembre di detto anno, che anche l’editore Vangelisti fu posto in carcere perché « aveva fatto stampare una violenta diatriba polemica di Moniglia contro Cinelli, senza le debite licenze ». In una delle sue satire, Benedetto Menzini sferza anche il medico Moniglia in questi termini : « Chi diavol fu colui che la ghirlanda/ Gli diede in Avicenna o in Ippocrasso/ E d’Esculapio il fè star da una banda? ». Menzini accusa Moniglia di essersi elevato alla cattedra di Pisa grazie alla fama di suo padre, e di essere un cattivo insegnante. Vitupera anche contro i parti letterari di Moniglia, con questi versi: « Anch’io volea cantare d’assalti e d’armi/ E dando a divorar carne d’eroi/ del ventoso polmon far tromba a carmi... ».

25 L’Adelaïde fu scritta per la principessa Violante di Baviera, moglie del principe Ferdinando. Nell’edizione del ‘89, non c’è il nome di Moniglia sotto il titolo. Fu rappresentata ancora a Pistoia nel 1699 e nel 1717.

26 BNCF, cl. VII, 799. Una notazione in prima pagina del manoscritto (« scritto da me D. Cherubino Orelli, Priore di Possignano, questo dí 20 marzo 1657) lascia supporre che questo testo fu scritto anteriormente al 1657. In tre atti, in prosa, con un prologo in versi, e intermezzi alla fine di ciascun atto, dove intervengono personaggi presenti nel prologo, tutti rilevanti della sfera della pastoale: Pan, dio delle selve, due satiri suoi seguaci, Siringa, ninfa di Diana, Delfa nutrice, Amore, Nisa, Ninfa del fiume Licro in Tessaglia.

27 « Non Poeti dunque, ma piuttosto verseggiatori, ma ne meno verseggiatori [...]; non dunque meri verseggiatori, ne veri Poeti, ma non saprei come dirli, [...] che s’invitano a servire il bisogno del melodramma, come al bisogno della tragedia servivano materialmente i coraghi », p. 125.

28 Francesco de Lemene (1634-1704), anch’esso membro dell’Arcadia, che scrisse libretti per Cristina di Svezia, a Roma; Giuseppe Domenico de Totis (1644-1707), librettista di B. Pasquini, La caduta del regno dell’amazzoni, festa teatrale, 1678, e di Scarlatti, tra l’altro, di Tutto il mal non vien per nuocere, Roma 1681 (ripreso a Firenze nel 1686), e L’Aldimiro, 1683.

29 Notizie degli Arcadi morti, Roma, De’ Rossi, 1720-21, vol. 3, p. 293-299, e Vite degli Arcadi illustri, Roma 1727, parte 4, p. 84 e p. 103.

30 Vedi A. Belloni, « Il Seicento », Storia letteraria d’Italia, Milano, Vallardi, 1957, vol. VII, p. 407. È pastore arcade a partire dal 1692 e fino alla morte nel 1700.

31 L’Accademia degli Apatisti era stata fondata nel 1631 a Firenze. Fu integrata poi alla fine del Settecento alla Crusca. Vedi Michele Maylender, Storia delle Accademie d’Italia, Bologna, 1926-1930, vol. I., p. 219

32 Francesco Saverio Quadrio, Storia e ragione d’ogni poesia, Milano, Agnelli, 1744, Parte I, p. 211, e parte V, 353, 471, 502.

33 Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena, 1772-95, vol. VIII, 320, 420 (controversie letterarie), 494 (drammi in musica).

34 Silvio degli Alli per Hipermestra, Stefano della Bella per Il Mondo festeggiante, Valerio Spada per Ercole in Tebe.

35 Vedi sopra, nota 20.

36 Esistono libretti separati de Il Quinto Lucrezio proscritto, drama (sic) musicale fatto rappresentare da’ Signori Accademici del Casino per festeggiare il giorno natalizo del serenissimi principe Francesco Maria di Toscana, Firenze, Vangelisti, 1681, 104 p., in 8°, di Ifianassa e Melampo, drama musicale rappresentato nella villa di Pratolino, Firenze, Vangelisti, 1685, 69 [3] p, in 12°; di Gneo Marzio Coriolano, drama musicale fatto rappresentare da signori accademici del Casino sotto la protezione del Serniss. Principe Franceso Maria di Toscana alla Sereniss. Granduchessa Vittoria di Toscana, Firenze, Vangelisti, 1686, 88 p., e de Il Tiranno di Colco, drama musicale rappresentato nella Villa di Pratolino, Firenze, Vangelisti, 1688, 76 p.

37 Così il libretto separato de Il Quinto Lucrezio proscritto, non porta il nome del Moniglia che è stato aggiunto a mano sulla pagina di titolo (« Del Dottor Giovan Andrea Moniglia »). Nella dedica al principe Francesco Maria sono esaltati i « professori e cavalieri che lo rappresentano, e il « Padre Lorenzo Cattani, maestro di Cappella della Sacra religione dei Cavalieri di Santo Stefano nella città di Pisa », ma Moniglia non è citato.

38 Ad esempio, nella dedica dell’edizione « princeps » de Il Quinto Lucrezio proscritto viene precisato che « i versi segnati da due «  » si tralasciano per brevità ».

39 Ad esempio i libretti « princeps » de Il Quinto Lucrezio proscritto e de Il Tiranno di Colco presentano una rilegatura riccamente decorata: di pelle bianca con intarsi dorati, lo stemma mediceo e la corona granducale per il primo, con una dedica degli Accademici del Casino al principe festeggiato (ma senza mensione del Moniglia); con motivi fiorali dorati su fondo rosso per il secondo. Argomento de Il Tiranno di Colco: « Morendo Lisimaco rè di Colco, lasciò due figli nell’età minore, dei quali il primo nato fu Arsace, e il secondo Clearco. [...] Però Clearco si fece acclamar rè e fece rinserrare Arsace nel recinto d’un giardino... ». Argomento de Il Quinto Lucrezio proscritto: « Turia fu matrona e allora quando per comandamento dei Triunviri Augusto Lepido e Marco Antonio furono poste nuove tavole nella città dei proscritti, si trovò… notato Quinto Lucrezio… che erasi sposato con Turnia… » Gli argomenti dei libretti « princeps » pervenutici rimangono identici nella raccolta, prima e seconda edizione.

40 Di questi due drammi monteverdiani, il libretto Il Ritorno d’Ulisse in Patria di Giacomo Badoer (1640) non fu mai pubblicato separatamente e ci è conosciuto attraverso la partitura, mentre per Le nozze d’Enea con Lavinia abbiamo un libretto anonimo, ma non la partitura.

41 Per Il Ritorno di Ulisse, esiste un libretto manoscritto (copia, BNCF, cl. VII, 72), con la lista dei personaggi e dei cantanti. Per Enea in Italia, esiste una partitura manoscritta della musica del Melani (BNCF, Magl. XIX, 33) e degli abbozzi di descrizione della festa, di mano di Francesco Redi, Descrizione delle feste date dal Principe di Toscana Ferdinando dei Medici in Pisa (Firenze, Marucelliana, 35. 132), e Discorso sul balletto del maritaggio di Enea con Lavinia (ivi, 36, 83). « Era la corte tutta immersa nelle dilettevoli fatiche delle deliziose caccie di Pisa, nel tempo del Carnevale, frammezzate da’ superbi e guerrieri spettacoli del famoso Ponte, quando il Serenissimo Principe di Toscana ebbe piacere che fossero raddolcite da nobil danze di dame e di cavalieri. Nelle quali trovando le Serenissima Principessa un particolare divertimento mostrandovi la sovrumana graziosissima leggiadria della sua real persona, volle il Signor Principe ordinare un Balletto che fosse reso più ragguardevole degli altri da poetica e pellegrina invenzione di cui fu commessa la cura al Signor Gio. Andrea Moniglia, di altissimo grado. Prese questi per soggetto dell’opera il maritaggio d’Enea con Lavinia figlia del Rè Latino, e avendola spiegata in un gentilissimo Dramma fu regolata con soavità di stile dall’armoniose note del Signor Jacopo Melani, musico e compositor molto ben cognito nelle più famose corti d’Europa ».

42 La separazione che era già avverata da parecchi anni sarà effettiva col ritorno di Margherita Luisa a Parigi nel 1674.

43 Questo spettacolo, come tutti quelli dati alla Pergola dall’accademia degli Immobili, sotto la protezione del cardinale Giovan Carlo, sono abbondantemente documentati nell’Archivio privato del Teatro della Pergola, tuttora conservato e consultabile nella Biblioteca del teatro. Questi documenti ci danno un’idea precisissima delle distribuzioni, degli abiti, delle macchine, e delle somme spese per le rappresentazioni. Per Il Vecchio balordo: serie I, 1 A 9: Nota degl’abiti che bisognano per il prologo e fine per i Moscoviti (f. 32).

44 Esattamente otto nel primo e nel secondo volume della prima edizione (dieci per il secondo volume della seconda edizione), sei nel terzo.

45 Vedi Delle poesie dramatiche…, volume I: dedica con la data del 25 luglio 1689, pp. III-V (seconda edizione, 1698). « Al Principe Serenissimo di Toscana (Ferdinando III). La Real generosità che nell’A.V. S. ho provato mai sempre a mio favore risplendere, m’obbliga con tutta possanza a contentare il mio lodevole desiderio d’ingrandire col nome di sì glorioso Principe questi Componimenti drammatici, i quali devotamente consacro al Sovrano merito di V.A.S. [...] Non è avvenuto a questi umili parti d’una riverente Talia, come già alle Figliuole d’alcuni Popoli del Settentrione, che appena arrivate all’età nubile senza scorta e recapito uscivano dalle case paterne con l’obbligo di non ritornarvi, se non quando onestamente si fussero provvedute di Marito e di Dote, poiché non si concepirono mai nella mia mente senza essere ella secondata dagli alti, e giocondi, comandamenti d’alcuno de’ Serenissimi Principi di Toscana ».

46 A questo proposito si deve notare che il libretto del Pazzo per forza scelto per questa raccolta non è quello « princeps » del 1658, edito dal Bonardi, ma la versione riscritta dallo stesso Moniglia nel 1687 per il teatro di Pratolino, musicata dal Pagliardi, più asciutta, senza personaggi allegorici, e pochi cori, pubblicata anche in edizione separata dal Vangelisti lo stesso anno 1687. I principali rimaneggiamenti sono la soppressione della dedica ai Serenissimi fratelli, e dell’« A chi legge » diventati inutili, del nome dei cantanti che cantarono alla Pergola, del prologo cantato dalla Pazzia, e di parecchi personaggi secondari: Beltramina vecchia genovese, Filandro maestro di casa di Anselmo, Sgaruglia, Bellichino battilani nelle botteghe d’Anselmo, Millone vecchio guardiano dei pazzerelli, pazzi Astrologo, Matematico, Soldato, Ebreo, Donna vedova, Donna maritata, Truppe di Battilani, e Coro di Pazzi. Vengono anche modificati i finali corali.

47 Si tratta del Greco in Troia, il cui libretto fu scritto dal veneziano Matteo Noris, pubblicato nel 1688 con una descrizione di Alessandro Segni e ricchissime illustrazioni, presso gli Eredi di I. della Nave, sul modello tradizionale delle pubblicazioni ufficiali degli spettacoli della corte. Matteo Noris aveva occupato alla corte la funzione di precettore del principe Ferdinando dopo il 1677.

48 Sulla non pubblicazione del Vecchio balordo (vedi sotto).

49 Sulle relazioni tra Vangelisti e Moniglia, vedi sopra nota 21.

50 Leone Allacci lo cita nella sua Drammaturgia, p. 656. Esiste un altro Radamisto (citato anche dall’Allacci), rappresentato a Venezia nel 1658, con musica di Tommaso Albinoni, e libretto di Antonio Marchi. Certi lo confondono con uno Zenobia e Radamisto, rappresentato nel 1665 nel teatro Santo Stefano di Ferrara, poesia di Matteo Noris, musicato da Giovanni Legrenzi (che musica per altro Ifianassa e Melampo, di Moniglia).

51 Vedi sopra, nota 12.

52 « Noi Arciconsolo della Crusca, richiesta fatta per parte dell’Innominato Giovannandrea Moniglia Nostro Accademico, di ristampare le sue Poesie Drammatiche col titolo di nostro Accademico… », colla data del 27 luglio 1689. Ripresa tale quale nella seconda edizione, vol. I, p. 687.

53 « […] quando una gentile e obbligante schiera d’Amici, a’ quali per buona fortuna piacquero queste mie, quali si sieno, Bagatelle, venne, per così dire ad inquietarmi per gentilezza, accioché quelle, che uscite una volta dalle mie mani, non erano più mie, fosser più loro e dandole unitamente alla Stampa me liberassero dalla molestia delle continue richieste, e quelli dalla pena del ricercarle qua e là disperse, togliessero ». (vol. I, Al cortese Lettore, p. VII-VIII).

54 « Le quali spogliate qui del Canto e del Suono (grandi incantamenti dell’animo umano), e d’ogni altra accompagnatura che l’occhio dilettar possa; so che sembreranno ed umili e povere e semplici, e rozze oltre ad essere scarse per loro stesso d’ornamenti » (Ibid., p. VIII). Scrive anche che accolte sulle scene, « ornate di sublime pompa e di vaghezza ammirabile, velarono tra esse in tal guisa le proprie imperfezioni » (Serenissimo Signore, p.V). Questa idea è riformulata ancora nella prefazione del volume III, per il libretto Podestà di Colognole: « Fu acccompagnato da vaghi e ricchi addornamenti, Balletti, Abbatimenti, varietà di Scene, con la veduta rappresenativa di una fiera così numerosa di Popolo di Bottaghe e di ogni mercanzia, che rapiva gli occhi e l’animo dei circostanti… », p. 3.

55 « […] favoreggiando la gentil purità et espressione del costume di Terenzio, ho procurato che il divertimento degli animi sia onorato, nobile il Sollievo, e la Ricreazione innocente », p. IX.

56 Didascalia, ovvero dottrina comica, libri tre, Firenze, nella Stamperia Nuova, 1658.

57 Con la data del 8 dicembre 1681, anno della prima rappresentazione del dramma, Poesie dramatiche, volume I, a pp. 641-654 dell’edizione del 1698.

58 Lettera dell’autore/ ad un suo buon amico, (con la data del 15 settembre 1688, Pratolino) volume II, seconda edizione, p. 71-82.

59 Vedi sopra nota 24.

60 Lettera apologetica dell’autore ad un suo buon amico…, p. 72.

61 Ad esempio quando refuta l’accusa di aver introdotto bevande avvelenate e mortali sulla scena del dramma, cita quanto « Boccaccio scrive nel libro delle donne illustri », a propositio di Giocasta, personaggio del Tiranno di Colco che dovrebbe sposare Clearco, ma è respinta da lui perché lui innamorato di un’altra, lei e cerca di vendicarsi (p. 80).

62 Un solo esempio: quando lui ricorda l’origine e l’evoluzione della parola « tiranno » e il significato che essa ricopre realmente ai suoi tempi: « La voce dunque Tyrannus presso gli Autori Greci e Latini deriva dal dominare i Popoli e nei bassi Secoli s’ascoltò questa voce in buona significazione di Signore, di Rè, di Monarca il quale avesse piena autorità sopra i Sudditi », Ibid., p. 73.

63 Ibid., p. 72.

64 Poesie dramatiche, vol. III, 1698, p. 4.

65 Vedi sopra nota 43.

66 Il vecchio balordo mette in scena una giovane, Lucrezia, che sua madre vuol maritare con un vecchio ricchissimo, ma che si è sposata secretamente a un giovane con l’aiuto della moglie del proprio fratello, ed è rimasta incita. È proprio il suo parto, che avviene alla fine della commedia, a risolvere la situazione e a far cedere la madre.

67 Vedi sopra nota 39.

68 Il Podestà di Colognole: « dichiarazione dei Proverbi e Vocaboli mal proferiti e stroppiati da i Contadini de i Villaggi intorno a Firenze de’ quali nel presente Dramma Rusticale si è servito l’Autore » (p. 86-104); Il Pazzo per forza: « dichiarazione dei Proverbi e Vocaboli propri dalla Plebe Fiorentina, dai qualiche in questo Dramma si sono usati a bella industria » (p. 176-184); La Serva nobile: « DICHIARAZIONE De’ Proverbi e Vocaboli usati dalla Plebe Fiorentina de’ quali per leggittima imitazione si è valso l’autore » (p. 279-298); La Vedova: « DICHIARAZIONE De’ Proverbi e Vocaboli usati dalla Plebe Fiorentina de’ quali per leggittima imitazione si è valso l’autore » (pp. 384-403); Tacere ed amare: « dichiarazione dei Proverbi e Vocaboli propri dalla Plebe Fiorentina, adoprati nel presente Dramma » (p. 484-50)8; Il Conte di Cutro: « dichiarazione dei Proverbi e Vocaboli propri degli Abitatori del Contado e della Plebe Fiorentina adoprati nel presente Dramma » (p. 606 –616).

69 Il manoscritto è strettamente legato alla rappresentazione del 1667, sono indicati per esempio i nomi dei cantanti e delle dame della corte che parteciparono al balletto, che spariscono ovviamente dalla pubblicazione. Le mutazioni di scene indicate nelle didascalie sono anche redatte in maniera più tecnica – o addiritura non precisate – nel manoscritto e stese in modo più letterario, sul modello delle descrizioni ufficiali, nella pubblicazione (ad esempio: un « Ballo d’Amazoni » (sic) nel manoscritto diventa « E col ballo di sette Amazzoni termina il prologo, nel quale intervennero »). Il manoscritto non comporta l’argomento, che è un pezzo obbligato nella pubblicazione.

70 È la posizione di Francesco Algarotti, Saggio sopra l’opera in musica, a cura di Annalisa Bini, Libreria Musicale Italiana Editrice, Bologna, 1989 (stampa anastatica del 1755, p. 8): « Messa in teatro la debita disciplina, la prima cosa che vuol esser ben considerata, è la qualità dell’argomento, o sia la scelta del libretto; che importa assai più che comunemente si crede. Dal libretto dipende la buona o mala risucita del dramma, esso è la pianta dell’edifizio, esso è la tela su cui il Poeta ha inventato e disegnato il quadro, parte del quale ha da esser colorita dal maestro di musica, e parte dal maestro dei balli. Il Poeta dirige gli stessi pittori, e coloro che hanno la cura del vestiario; egli comprende in mente il tutto insieme del dramma, e quelle parti che non sono eseguite da lui, sono però dettate da lui medesimo ».

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Françoise Decroisette, « Un librettista alla ricerca dell’autorialità: le strategie editoriali di Giovan Andrea Moniglia (1624-1700) », Line@editoriale [En ligne], 1 | 2009, mis en ligne le 29 mars 2017, consulté le 03 mai 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/88

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Françoise Decroisette

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