Il libretto d’opera alla frontiera della letteratura
Uno dei problemi più complessi affrontati da chi si occupa di storia dell’opera e di drammaturgia musicale è quello del rapporto che passa tra il libretto e quello che possiamo chiamare la « grande » letteratura.
Sin dai primordi, il testo dell’opera in musica, o per riprendere la terminologia delle origini, il « poema » destinato a essere intonato, viene considerato dai creatori come dotato di una specificità propria. Già Orazio Vecchi, agli albori del melodramma, dando alle stampe la sua « invenzione », la commedia harmonica o commedia in musica, madrigalesca, l’Amfiparnaso, pubblicata a Venezia nel 15971, sente il bisogno di segnalare, in un’articolata prefazione, la distanza che passa tra la sua strana creatura e il genere canonico della commedia regolare recitata senza musica. Pur recuperando scenette e personaggi tipici dal baule dei primi comici dell’arte, il Vecchi inizia il suo ragionamento coll’inserire la sua « commedia » all’interno della definizone più classica della commedia regolare, cioè applicandole il criterio del « castigat ridendo mores » : così viene per prima cosa affermato che la sua non è un « passatempo buffonesco » come sono le commedie che allora trionfano sulle scene, quelle opere sconcie e plebee che gli zanni portavano dappertutto in Europa, ma è « lo specchio dell’umana vita », un’opera morale che unisce « l’utile col diletto », a fini di educazione del pubblico. Una commedia riallacciata quindi idealmente alla commedia erudita, nella quale però il lettore e auditore troverà ben altro perché essa non fu « mai tentata da altri », una commedia la cui scrittura è sottomessa alle esigenze del canto e che, quindi, deve essere considerata a parte, con altri criteri di giudizio. Dopo di che Vecchi s’impegna a definire le caratteristiche della scrittura di tale commedia « harmonica ». La prima, e più importante, è l’inevitabile incompiutezza della narrazione e della pittura dei personaggi e situazioni, che, dato lo scorrere più lento della parola cantata, devono per forza restare solo abbozzati, e non dipinti per intero e con tutti i dettagli; la seconda è l’intonazione delle parole colla musica, che in fin dei conti concede all’opera una finalità diretta più « all’affetto che alla moralità », a una ricezione e a un’esecuzione diverse da quelle legate alla commedia recitata. Una commedia nè erudita nè buffa, che quindi non può soddisfarsi delle regole classiche, ma deve per forza crearsi le proprie regole.
Lo stesso possiamo dire per Ottavio Rinuccini nel 1600 quando cerca di definire il suo poema drammatico destinato alla musica, Euridice. È una favola e, appoggiata su questa denominazione espressa nel titolo, può essere ricondotta al genere cortigiano della pastorale e ai grandi modelli, come quello della Favola di Orfeo del Poliziano; ma è una favola « per musica » . Come Vecchi per la sua commedia harmonica, nello spazio di riflessione poetica offerto dal prologo e attraverso la personificazione della Tragedia, Rinuccini prende anche lui qualche distanza con le regole del genere tragico, situando il suo poema in un altro spazio non ancora definito, o definito solo da quello che non è più:
Non sangue sparso d’innocenti vene,
Non ciglia spente di Tiranno insano,
Spettacolo infelice al guardo humano,
Canto su meste e lagrimose scene.
Parallelamente a Rinuccini, nel tentativo di definire in modo più preciso questo spazio indeterminato, e di dargli una legittimazione all’interno di un abbozzo di poetica del nuovo stile, Emilio de’ Cavalieri, conscio della destinazione essenzialmente rappresentativa del nuovo stile di canto, il « recitare cantando », fa stampare a Roma da Alessandro Guidotti la sua Rappresentazione di anima e di corpo con una prefazione del Guidotti nella quale le caratteristiche proprie della « composizione » o « poema » – ad esempio, la partizione in atti e scene, la metrica, la stesura delle narrazioni e dei dialoghi, il numero di personaggi ecc. – appaiono strettamente connesse alla resa scenica dell’opera e rielaborate in funzione della parola cantata e dello spettacolo.
Quindi, se il libretto può essere considerato, nel senso lato della parola, un « testo », e se in questo senso può essere letto e studiato come qualsiasi altro testo, esso è, e resterà, sempre un testo da ascoltare più che da leggere, con delle regole proprie che dipendono dalla intonazione dei versi e delle frasi, e dalla recitazione cantata. Questa specificità insuperabile situa il libretto d’opera, o più largamente la poesia per musica, in una zona del letterario che con Alberto Asor Rosa possiamo chiamare zona « frontiera » 2, quella in cui prendono posto le letterature impure, che lo stesso Asor Rosa chiama la « letteratura-in-musica », parallela alla « letteratura-in-teatro »3, cioè i testi di per sè « incompiuti » che Gérard Genette chiama « opere performative »4. In realtà, per essere ancora più precisi, il libretto – in quanto testo poetico drammatico da recitare cantando – richiederebbe la creazione di un’altra zona e di un’altra nozione – la letteratura – in « teatro-in-musica » .
Non si tratta qui di tentare un’ennesima riflessione sul rapporto tra musica e poesia nel melodramma o sulla preminenza della musica o della poesia nella creazione lirica. Pensiamo che la famosa interrogazione di Richard Strauss nella sua ultima opera, Capriccio, e di molti altri, Wort oder Ton?, sia un’interrogazione che rimane e rimarrà un aporema senza soluzione, che attraversa tutta la storia del melodramma dalla nascita fino ai nostri giorni, con perpetui rovesciamenti e svolte legate ai contesti culturali, artistici e sociologici in perpetua mutazione. Si tratta piuttosto di interrogare i modi coi quali, nella storia dell’opera, il così detto libretto, o poema per musica, rivendica o tenta di acquistare uno statuto autonomo di « testo da leggere », di testo che può esistere al di fuori della musica, all’interno – e non solo alla frontiera – del vasto campo della Letteratura.
L’edizione dei libretti come fonte di letterarietà
Questa valutazione dello statuto letterario (o della letterarietà) del libretto d’opera può essere affrontata all’interno del testo stesso, coll’analizzare il suo funzionamento drammatico, le strutture della narrazione, la scrittura delle situazioni e dei personaggi in quanto caratteri e situazioni drammatici. Si sa che il libretto è, nella stragrande maggioranza dei casi, un adattamento, o una riscrittura di un’opera letteraria. Spessissimo, è la riscrittura secondo i codici melodrammatici di un testo drammatico anteriore ma anche di un racconto, o parte di un racconto, o romanzo, o poema epico. Il libretto è quasi sempre « l’altro » di un testo letterario, quello che spesso dà proprio a questo testo un’eternità che forse non avrebbe mai avuto senza il passaggio sulla scena operistica; un « altro » che dà ai personaggi romanzeschi o teatrali preesistenti una vita nuova, più duratura e famosa del personaggio fonte, che quindi partecipa della fortuna di questi testi. Questo ci dovrebbe bastare per conferire senza esitazione al libretto una sua leggittimazione negli studi letterari attraverso lo studio delle riscritture librettistiche di opere della letteratura e della letteratura teatrale.
Un altro approccio, sociologico più che strettamente letterario, è lo studio dello statuto degli autori dei testi destinati alla musica e al teatro musicale all’interno delle istituzioni letterarie e editoriali del loro tempo5. Il che significa non solo considerare come il librettista collabora – o no – con il compositore, e quindi il margine di indipendenza che può affermare o imporre nella creazione collettiva, plurale, dell’opera, ma anche cercare di capire come rivendica lo statuto di letterato. Cosí, lo studio di un libretto richiede sempre da parte dello studioso, oltre a quello delle fonti letterarie e delle riscritture, la definizione del modo con il quale il librettista si è avvicinato al testo fonte, in particolare se a richiesta di un musicista o di un promotore culturale, o di propria iniziativa. Questo vuol dire considerare la posizione del librettista nei confronti della propria creazione; considerare se scrive solo libretti – vale a dire se è un professionista del libretto (come molti autori del pieno Seicento a Venezia, e certamente molti grandi librettisti del Settecento e primo Ottocento: Da Ponte innanzitutto, e Foppa librettista privilegiato di Rossini), oppure se è autore e librettista, cioè per riprendere una distinzione usata da Adriana Guarnieri Corazzol per la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, sia librettista-scrittore, sia scrittore-librettista6; considerare anche se, in questa posizione ambigua che stabilisce in ogni caso una distinzione tra « scrivere » e « scrivere libretti », l’autore stabilisce – come fa ad esempio Goldoni a metà del Settecento – una gerarchia netta tra la scrittura di testi letterari « veri », nobili, seri, e quella di questi testi « mostruosi » e imperfetti, quali vengono definiti i libretti d’opera alla fine del Seicento dai letterati riformisti7.
Parte della risposta a queste ultime domande va ricercata nelle pratiche editoriali applicate al libretto d’opera. Non dimentichiamo che la parola libretto appare per designare la forma materiale che si dà a quello che all’inizio viene chiamato « poema », cioè un « libro in piccolo », di formato ridotto, per lo più senza apparato paratestuale (se non, in certi casi, una piccola avvertenza al lettore), e con rilegatura modesta, il quale lo spettatore usa per seguire le parole che, cantate, non può afferrare a pieno. Lo statuto del libretto si afferra quindi prima di tutto col riflettere sui modi coi quali, nel corso della storia dell’opera, questo « testo » singolare viene pubblicato, diffuso, fissato e riconosciuto, sulle forme materiali utilizzate per la stampa del libretto indipendentemente della sua trascrizione sulla partitura, e sulle strategie eventuali usate dal librettista per superare il disprezzo che, dopo i primissimi esperimenti della fine del Cinquecento e dei primi anni del Seicento, resta legato a questo tipo di scrittura, e per affermarsi come solo scrittore o autore.
Varietà editoriali: libretto in partitura, libretto d’uso, edizioni di lusso, raccolte
Dopo i primissimi esperimenti, a Firenze, nel 1600, la posizione di poeta di corte assunta dal Rinuccini gli permette di proporre una pubblicazione simultanea dei due libretti già scritti da lui, sotto forma di edizione letteraria, a fini di riconoscimento e di miglioramento del nuovo genere8, parallelamente all’edizione ufficiale delle due partiture, nelle quali il « testo » dell’Euridice appare sotto le note. Lo stesso potremmo dire per il « poema » per musica di Alessandro Striggio, Orfeo, pubblicato a Mantova nel 1607, oppure ancora delle opere scritte da Giulio Rospigliosi per il teatro dei Barberini a Roma negli anni 1632-36.
Ma questa situazione priviliegiata non si ritrova poi esattamente riprodotta in altro ambiente.
Lo statuto cortegiano di Rinuccini, Striggio, Rospigliosi, e di qualche altro, sparisce pochi decenni dopo quando la creazione melodrammatica transita dai centri di produzione « aristocratici », nei quali le opere sono create e promosse all’interno di celebrazioni spettacolari encomiastiche di cui si deve conservare la memoria colla stampa, alla gestione mercantile dei teatri pubblici veneziani, aperti a un pubblico pagante, più largo, meno colto, senza fini celebrativi. Proprio in ambiente veneziano, il poema – parola che ancora riallacia il testo alla letteratura alta – diventa il « libretto », lo stesso diminutivo conferendo alla poesia melodrammatica uno statuto minore – perché non regolare, e non autonomo – riguardo alla poesia « tout court ». Proprio a Venezia, vengono fusi, in un’unica parola, il genere (il « poema in musica », termine usato ancora nel ’700, perfino nella satira veneziana di Benedetto Marcello, Il teatro alla moda, del 1721) e l’oggetto cartaceo materiale che contiene questo testo, considerato talmente funzionale o utilitario da essere spessissimo ridotto alla pubblicazione di un semplice canovaccio col quale lo spettatore può seguire l’intreccio, o addiritura mai pubblicato e messo in circolazione sotto forma manoscritta9. Rari sono a Venezia gli esempi di pubblicazioni alte dei testi di rappesentazioni per musica, come troviamo in contesto cortegiano e mecenatistico, a Firenze, Mantova, Roma, Ferrara, con il testo completo, arricchite da un largo apparato paratestuale (dedica, prefazione, descrizione delle scene) e da illustrazioni10. Unici esempi veneziani sono le fastose descrizioni stese dal conte Maiolino Bisaccioni, storico, scrittore e librettista, per gli spettacoli rappresentati nel Teatro Novissimo, negli anni 1641-1644, La finta pazza, La Venere gelosa e Il Bellerofonte, con macchine e scenografie del « mago » Jacopo Torelli, di formato grande, dove però la poesia cantata appare in forma ridotta e frammentata, e che sono intitolate « apparati scenici per lo Teatro Novissimo », chiaramente diretti a valorizzare il lavoro dello scenografo11.
Lo scarso valore letterario del libretto è testimoniato dal modo col quale oggi una gran parte di quelli editi per l’uso dello spettatore in teatro, in piccolo formato e senza illustrazioni, sono consultabili nelle biblioteche. Moltissimi di questi libretti, soprattutto della fine del Seicento e del Settecento, sono rilegati insieme in uno stesso volume di « varia », e raggruppati senza vero criterio di selezione (uno stesso editore, stesso tipo di spettacolo serio o buffo, argomenti di stessa derivazione, stesso librettista). In certi casi, il fattore comune sembra essere il luogo di rappresentazione, il che segnala indubbiamente la preponderanza della scena teatrale sulla biblioteca, o la libreria, nella diffusione e la catalogazione del libretto e, quindi, la prepon-deranza dello spettacolo realizzato sulla scrittura del testo. Il libretto appare davvero ridotto allo statuto di opuscolo, senza valore letterario, e al librettista, che non appare sempre mensionato sul frontespizio, viene negata qualsiasi autorità sulla sua creazione.
Eccezionali in questo contesto – e proprio per questo risultano di grande interesse per il problema sollevato in questo studio – le raccolte di libretti di uno stesso librettista, stampate col nome e cognome dell’autore, e un titolo generale, da uno stesso editore, con formati più grandi e rilegatura più accurata. Di queste raccolte che ovviamente strappano il libretto all’anonimato e all’effimero della rappresentazione, dando al librettista una vera autorità sulla sua creazione, conosciamo quelle promosse da librettisti che sono prima scrittori o anche scrittori. La pubblicazione contemporanea dei due libretti separati dalla musica di Rinuccini, Dafne e Euridice, alla quale si è già accennato, apre sicuramente la via a una pratica più costruita, che sarà poi illustrata in vari modi. Sono poi i librettisti veneziani a diffondere questa pratica e tra i primi Benedetto Ferrari e Prospero Bonarelli, negli anni 1644-1647, che raccolgono i loro testi di opere per musica di vario tipo12. Più famosa certamente è quella di Giovan Francesco Busenello, accademico Incognito, poeta e romanziere, e scrittore di libretti per Cavalli e Monteverdi, che decide, nel 1656, di pubblicare insieme una selezione di cinque fra le sue opere per musica, presso l’editore Giuliani a Venezia, sotto il titolo generale di Delle Hore ociose13. Una pratica che giunge poi al suo apice con Pietro Metastasio, poeta cesareo della corte viennese, di cui possediamo numerose raccolte delle opere per musica, sia pubblicate da sole, sia unite alle altre opere poetiche e teoriche dello scrittore14. Più segreto e stranamente trascurato è l’esempio della raccolta Delle poesie dramatiche (sic) di Giovan Andrea Moniglia, edita alla fine del Seicento a Firenze, che presenta delle caratteristiche originali che vanno utilmente rilevate e approfondite.
Il caso Moniglia
Nessuno oggi conosce più Giovan Andrea Moniglia, fiorentino, tranne qualche amatore dell’opera secentesca, che avrà intravisto il suo nome sulle locandine di regie recenti dell’Hipermestra di Francesco Cavalli15, e de Il Podestà di Colognole di Jacopo Melani. Eppure come si vedrà, Giovan Andrea Moniglia (1624-1700) può essere considerato una figura maggiore nel campo della scrittura librettistica nella seconda metà del Seicento. Scrive libretti per circa trentacinque anni dal 1652 al 168716, nell’ambito di diversi teatri fiorentini, a servizio dei granduchi di Toscana. Ancora giovane, e benché medico di formazione e di professione17, viene reclutato dal suo protettore il cardinale Giovan Carlo di Toscana, fratello del granduca Ferdinando II, per le fastose produzioni del nuovo teatro della corte medicea, il teatro della Pergola costruito in sostituzione del vecchio e trasandato Stanzone delle commedie del Buontalenti, situato all’interno del Palazzo degli Uffizi18. In questo nuovo luogo teatrale vengono rappresentati, tra il 1657 e il 1664, due grandi feste teatrali e diversi drammi musicali seri e giocosi, tutti di mano del nostro librettista. Dopo il 1664 e la morte del cardinale protettore del teatro, Moniglia stende nuovi drammi per musica sia a richiesta degli altri fratelli del granduca Ferdinando II, Mattias, Leopoldo, sia per il principe Francesco Maria, fratello minore di Cosimo III, e il suo teatro dell’Accademia del Casino. E scrive ancora i libretti per il piccolo teatro costruito nella villa di Pratolino, a iniziativa del principe ereditario Ferdinando, figlio di Cosimo III, grande amatore di spettacoli teatrali, lirici, protettore di artisti e di cantanti. La sua produzione non si limita al contesto di produzione fiorentino, anzi varca, dopo il 1664, le frontiere del Granducato: è sollecitato a scrivere anche per festeggiamenti di altre corti principesche19 e parecchi suoi libretti sono adattati all’uso di Venezia, ripresi, trasformati ulteriormente anche per Firenze, e continuano ad essere rappresentati in varie città italiane e perfino a Düsseldorf in traduzione (Giocasta regina d’Armenia), con musiche diverse, fino almeno al 175520.
Moniglia può essere considerato l’erede diretto dei primi inventori del melodramma, non solo perché è fiorentino, ma perché scrive all’interno di un sistema ancora privato e commendiatizio, per il quale l’opera in musica resta un fatto eccezionale e ufficiale e, in quanto tale, deve essere fissata e offerta all’ammirazione di tutti anche dalla pubblicazione.
Si deve tuttavia considerare che, benché gestito da un’accademia strettamente legata e controllata dal potere mediceo, e dedicato alle sole rappresentazioni della corte, il teatro della Pergola è il prototipo del teatro « moderno », che integra nella sua architettura e nelle attrezzature sceniche, le innovazioni più recenti dei teatri romani, ferraresi, veneziani (palchetti, arco di scena, macchine, dispositivi per i cambiamenti di scena, stanzini per i cantanti) e dispone anche di cantanti fissi stipendiati dal cardinale e richiesti dalle grandi corti europee21. Questo offre a Moniglia la possibilità di superare la tradizione, di integrare nella sua drammaturgia e nelle forme di spettacolo cortigiano (in particolare la « festa teatrale » ), tematiche, personaggi e situazioni che integrano le novità del modello veneziano del dramma per musica, e di scrivere testi che possono essere intonati da maestri forestieri (così l’Hipermestra, festa teatrale, di cui la musica viene chiesta sin dal 1653 al veneziano Francesco Cavalli per inaugurare il teatro della Pergola), cantate su altre scene, ed esportate poi verso altri teatri. Non solo, ma ciò gli permette anche di inventare forme del tutto nuove – come i dramma civili o civili rusticani, commedie in musica dialettali, in tre atti, composizioni da lui chiamate espressamente « opere giocose » 22 – proposte per i divertimenti della corte durante il Carnevale, tra il 1657 e il 1664, che possono essere considerate anche musicalmente come proto-drammi giocosi. Anticipa in un certo senso la figura del Metastasio, non solo perché, come lui, stipendiato da una corte e a servizio di principi, ma perché produce i suoi libretti in quello spazio di tempo situato alla cerniera tra due fasi decisive della storia del libretto (gli ultimi trent’anni del Seicento), nel momento in cui la questione della « dignità letteraria » del libretto, che si era persa dopo il 1640 all’interno del sistema di produzione impresariale veneziano, comincia ad essere riflessa, teorizzata. Nel momento insomma in cui vengono emesse, all’interno di riflessioni sulla poesia e la letteratura23, le varie condanne accademiche del dramma per musica e le soluzioni per migliorare la sua « imperfezione » che porteranno alle opere riformate dello Zeno e di Metastasio. In Moniglia confluiscono quindi il passato, il presente e il futuro dell’opera, il melodramma fiorentino, il dramma veneziano e i primordi del dramma « riformato » .
Il caso Moniglia è tanto più singolare, e quindi pertinente, poiché contrariamente a Rinuccini o a Busenello e più tardi a Metastasio, lui non è esattamente un letterato. Anzi un suo biografo racconta come la sua attività di scrittore per la scena era denunciata e derisa dai letterati fiorentini che consideravano con molto disprezzo sia il suo insegnamento di medicina, sia i suoi parti teatrali, e come lui abbia suscitato a lungo a Firenze delle controversie piuttosto burrascose, fino ad essere sopranominato Curculione, cioè un verme che divora la frutta e la rende marcia24. Di non musicabile restano solo due testi stampati, una commedia dal titolo piuttosto « spagnoleggiante », All’amico non si fida ne la moglie ne la spada del 1668 (Roma, Blupardi), e L’Adelaïde, dramma regio sacro, in prosa, rappresentato nel Teatro Cocomero degli accademici Infuocati, nel 1689 (Firenze, Vincenzo Vangelisti)25, e un testo rimasto manoscritto, Il Laurindo26.
Eppure, pochi anni dopo la sua morte, per quasi tutto il Settecento, lo troviamo elevato a livello di modello, citato e lodato nelle ulteriori storie della letteratura. Così Pier Jacopo Martello, nel già citato Dialogo della tragedia antica e moderna, salva il Moniglia dalla folla di quelli che lui chiama con parole assai sprezzanti i « verseggiatori » o, peggio ancora, i « testori di versi », servili, rifiutando loro lo statuto aristotelico di Poeta27. Moniglia, detto senza derisione da Martello il « severo Moniglia », viene citato con l’insieme delle sue opere e posto allo stesso livello dei suoi contemporanei, Francesco de Lemene e Giuseppe Domenico de Totis28, e di Apostolo Zeno. L’elogio maggiore riguarda i suoi drammi per musica « toscani » che, secondo Martello, si ergono decisamente al di sopra della mole indistinta dei drammi « forestieri », « cattivi », veneziani, genovesi, milanesi, bolognesi, reggiani.
Negli stessi anni, Moniglia viene anche citato come poeta e scrittore modello nella Storia della volgar poesia (1713) di Gianni Mario Crescimbeni e nei due volumi da lui consacrati agli Arcadi29. Il Crescimbeni stende una nota biografica lunghissima dove viene precisato che Moniglia « successe a Francesco Redi come medico di corte » e che lo accompagnò nei suoi vaggi dove appunto « ebbe campo di provvedersi di buone notizie e di conoscenze di letterati ». Lasciando da parte i suoi trattati di medicina, Crescimbeni dà anche largo spazio alla sua « erudizione particolare nella Toscana Poesia [...] », alla celebrità acquisita con la sua « poesia Comica », cioè teatrale, e ricorda le varie accademie che, oltre all’Arcadia nella quale fu iscritto nel 1692 sotto il pseudonimo Nardilo Azonio30, lo accolsero nei loro cenacoli, attestando con questo la legittimità della presenza di Moniglia in una storia della volgar poesia: « avendo egli sin dall’adolescenza frequentato l’accademia degli Apatisti31, onde di lui viene fatta menzione dal fondatore [...]; ammesso all’accademia della Crusca, e sovente vi ritornò colle sue Rime e Prose » . Ovviamente ne parla anche il fiorentino Giulio Negri, nell’Istoria degli scrittori fiorentini, nel 1722, ma gli elogi più significativi sono quello di Francesco Saverio Quadrio nella grande Storia e ragione d’ogni poesia del 174432 e quello del Tiraboschi nella Storia della letteratura italiana33 che, pur evocando ancora le sue controversie, lo ricordano come autore di « drammi per musica » .
Siamo quindi di fronte a un complesso esempio di integrazione di un librettista non scrittore, non letterato, nelle cerchie accademiche più prestigiose, proprio per la sua produzione librettistica, ad un esempio di riconoscimento dell’autorità letteraria di un librettista, persino da parte di chi mette in dubbio il valore letterario di questo tipo di produzione. Il Moniglia ha senza dubbio, ancora prima del Metastasio, permesso al libretto d’opera di varcare, in modo positivo, questa « frontiera » che mezzo secolo dopo un autore drammatico-librettista di portata europea come Goldoni non riuscirà da parte sua a varcare totalmente.
Strategie editoriali: dare al libretto « nuovi ornamenti » letterari
Di questo particolare, quasi unico, statuto di librettista elevato al rango di letterato, sono testimoni le edizioni dei suoi libretti, del tutto esemplari delle strategie adoperate per la conquista di questo riconoscimento. I libretti di Moniglia ci sono pervenuti sotto una doppia forma.
Sotto forma di opuscoli separati pubblicati intorno alla prima rappresentazione, per una unica opera. Queste edizioni « princeps » sono di due tipi a seconda dell’importanza dell’evento celebrato:
1) le feste teatrali del 1658 (Hispermestra) e del 1661 (Ercole in Tebe), e il balletto a cavallo Il Mondo festeggiante del 1661 (documento allegato: vedi tabella), esistono separatamente in edizioni di lusso, in 4°, con copertina di velino, pubblicati sia nella Stamperia ducale (o alla Condotta) per Hipermestra e Il Mondo festeggiante, sia nella nuova Stamperia all’Insegna della Stella per Ercole, con una descrizione dettagliata dello spettacolo e arrichiti da un apparato di illustrazioni delle scene e macchine34;
2) i drammi civili rappresentati nel Teatro della Pergola durante il Carnevale35 e i quattro drammi per musica del Casino di Francesco Maria de’ Medici e di Pratolino36 sono disponibili in edizioni di formato piccolo (in 12, standard del libretto), a volte senza il nome del librettista37 e con l’indicazione che certi versi stampati possono non essere recitati per abbreviare la rappresentazione38, tuttavia con le abituali dediche e argomenti e una rilegatura sempre ricca, che ricorda la destinazione cortigiana39. Si noti che non tutti i drammi per musica del Moniglia, seri o giocosi, godono di una tale edizione « princeps », situazione abbastanza comune a quell’epoca, come abbiamo detto. Se non stupisce l’assenza di tale edizione per le feste teatrali o i drammi richiesti per eventi non direttamente legati alla corte ed ai principi medicei (La Semiramide, La Giocasta richiesta dal Cesti, La Pietà di Sabina, Il Teseo, Il Germanico sul Reno), più strano appare la non pubblicazione « princeps » di due drammi per musica, Il Ritorno di Ulisse e Enea in Italia, tutt’e due su argomenti già trattati a Venezia da Claudio Monteverdi40, e rappresentati durante le permanenze carnevalesche della corte a Pisa, negli anni ‘67 e ‘70, per i quali ci resta parecchia documentazione manoscritta, persino una descrizione minuta della rappresentazione e del luogo dello spettacolo per Enea in Italia, nella quale i meriti del poeta, Moniglia, e del compositore Jacopo Melani, sono pienamente riconosciuti41. Tuttavia, è vero anche che le rappresentazioni pisane sono più private che pubbliche e non sono politicamente importanti come le celebrazioni della Pergola. Ci sono inoltre due drammi-balletti, pensati per offrire un divertimento alla principessa francese Margherita Luisa, sposa del principe ereditario Cosimo, e cugina del re Luigi XIV, che aveva sposato il principe Cosimo nel 1661. Può darsi che appunto questa destinazione spieghi la non pubblicazione dei testi separati, se consideriamo che già a quell’epoca, i rapporti coniugali della coppia principesca – che doveva salire sul trono nel 1671 alla morte di Ferdinando II – erano assai burrascosi42. Invece risulta davvero strano che non sia stato stampato, sotto questa forma separata, il dramma civile rappresentato alla Pergola durante il Carnevale del 1659, Il vecchio balordo, allorché questi fu recitato in una occasione politicamente importante, per una visita di ambasciatori moscoviti, con gran apparato di macchine43.
Oltre a queste parziali edizioni « princeps », esiste una raccolta complessiva curata dallo stesso librettista, sotto il titolo Delle poesie dramatiche del Dottor Giovan Andrea Moniglia, accademico della Crusca, che presenta la particolarità di esistere sotto due forme pubblicate a solo dieci anni di distanza, Moniglia vivente:
1) un’edizione in 4°, che possiamo chiamare « di lusso », con copertina di velino e incisioni, apparsa negli anni 1689 e 1690, con i libretti ripartiti in maniera equilibrata44 in tre volumi stranamente pubblicati in tre case editrici diverse (Stamperia di S. A. S. alla Condotta per il primo, Cesare e Francesco Bindi per il secondo, Vangelisti per il terzo, documento allegato: vedi tabella), e con una cronologia non continua (il secondo volume pubblicato l’anno dopo il primo e il terzo, da un editore nuovo). Se consideriamo però che Moniglia dedica la raccolta espressamente al principe ereditario Ferdinando di Toscana45, questa discontinuità della cronologia e la diversità delle case editrici si spiegano perfettamente dalla destinazione delle opere e dalla loro importanza per la corte toscana. Dal momento che la data di pubblicazione del primo e terzo volume corrisponde a quella del matrimonio del principe Ferdinando con Violante Beatrice di Baviera, la raccolta potrebbe anche considerarsi un omaggio personale del Moniglia al principe46, oppure, al contrario, una reazione al fatto che il librettista, dopo aver servito il principe a Pratolino per parecchi anni, non fosse stato scelto per scrivere il libretto della festa teatrale data in occasione delle nozze principesche al Teatro della Pergola47. Vengono raggruppate e pubblicate per prime le grandi opere celebrative della Pergola, le due feste teatrali e il balletto a cavallo, con le descrizioni e le illustrazioni già esistenti – e quindi si spiega anche che a stampare il primo volume sia stata la Stamperia di S. A. S, che aveva pubblicato Hipermestra e Il Mondo Festeggiante. Vengono inserite accanto a queste opere « magne », con una certa coerenza, le due rappresentazioni cortigiane pisane non ancora edite, Il Ritorno di Ulisse e Enea in Italia, forse perché nel 1689 era svanito il ricordo dei dissidi della coppia granducale e, in ordine cronologico, i primi tre drammi scritti per Pratolino e il Casino di Francesco Maria. Logico anche, dal punto di vista del « genere » come pure da quello della destinazione dell’opera, il raggruppamento di tutti drammi civili – tranne uno48 – nel terzo volume: così si spiega anche perché il terzo sia stata pubblicato insieme al primo. Logica e coerente per finire, la decisione di raggruppare nel secondo volume insieme all’ultimo dramma per Pratolino, due testi minori musicati dal padre Lorenzo Cattani, cantati nelle camere della granduchessa Vittoria (Il Pellegrino, e l’oratorio San Geneviefa), e tutti i libretti richiesti da corti straniere, e di dare alla stampe questo secondo volume solo un anno dopo, presso un editore che non aveva pubblicato i libretti « princeps »;
2) una ristampa in 12°, edita nel 1698, due anni prima della morte di Moniglia, sempre in tre volumi, ma tutti usciti dai tipi del Vangelisti che possiamo considerare l’editore privilegiato del Moniglia49, senza le illustrazioni del primo volume. Una ristampa quindi più sotto forma più fruibile, oggi si direbbe « tascabile », che conserva nondimeno tutto l’apparato paratestuale (dediche, prefazioni, lettere di difesa, glossari aggiunti dal Moniglia), e riprende la stessa ripartizione dei vari libretti nei tre volumi, con un’unica differenza: l’aggiunta, senza spiegazione, nel volume di due testi non pubblicati nella prima edizione, né reperibili sotto altra forma, un Inno a San Rinieri, e un « dramma musicale » con il titolo, Il Radamisto50.
Questa doppia pubblicazione, a conclusione della lunga carriera di Moniglia, e in particolare la ristampa « tascabile », dimostra l’importanza da egli acquisita nel panorama letterario fiorentino e più largamente italiano, e non sembra abusivo ipotizzare che questa raccolta e la sua ristampa abbiano contribuito ad assicurare al librettista il riconoscimento unanime da parte dei letterati italiani nei primi del Settecento, che abbiamo ricordato più sopra. Per accertarsene, basta osservare rapidamente le scelte operate dall’autore – e dagli editori – nell’organizzare questa raccolta.
Cominciamo dalla scelta del titolo. Il titolo scelto dal Moniglia, a differenza di quello scelto prima dal Busenello, per esempio, non lascia nessun equivoco sulla qualità che lui intende conferire ai suoi libretti. Col suo titolo metaforico, Delle Hore ociose, Busenello mostra di non voler affrontare il problema della denominazione di questi testi « impuri », destinati alla musica e allo spettacolo. Questo titolo può difatti riferirsi al valore di puro divertimento che l’autore conferisce ai suoi parti – sia dal punto di vista della scrittura e quindi del librettista, sia dal punto di vista della funzione attribuita a tali opere. In tutt’e due i casi, persino dando alla parola « ozio » un valore positivo, umanistico, ci sembra che l’intitolazione diminuisca alquanto l’importanza data dall’autore a queste sue creature e contraddisca un po’ l’impegno preso per pubblicarle in raccolta, non pubblicando altre sue opere letterarie.
Moniglia invece si mostra decisamente più offensivo e chiaro sulla questione del riconoscimento del libretto in quanto opera letteraria riprendendo il termine – già usato precedentemente da Benedetto Ferrari51 – di « poesia », e bandendo dal titolo generale qualsiasi allusione alla destinazione musicale del testo insistendo invece sul loro valore teatrale e letterario.
Questa denominazione positiva che riconosce al libretto la legittimità di figurare tra i generi drammatici, viene completata e confermata, nel frontespizio di ambedue le edizioni, con la menzione dell’appartenenza accademica dell’autore alla Crusca, certificata dall’uso, auto-rizzato dallo stesso arciconsolo dell’accademia52, dell’emblema e del motto degli accademici (« Il più bel fior ne coglie »). Alle opere raccolte sotto tale autorità e qualità eccellente viene così concesso senza restrizioni lo statuto di testo di lingua regolare, che poi l’autore si impegna ad argomentare e confermare concretamente nel ricco e complesso paratesto inserito nei vari volumi.
Una dedica (« Serenissimo Signore ») e una prefazione (« Al cortese Lettore ») aprono regolarmente il primo volume. Il tono generale è quello, molto diffuso in questi testi preliminari, della retorica cortigiana con la quale Moniglia protesta della sua sottomissione verso i principi protettori (le sue opere sono « figlie d’ubbidienza »), e proclama la sua assoluta umiltà letteraria: per giustificare la pubblicazione dei suoi testi, Moniglia usa un procedimento retorico anch’esso molto diffuso, finge di esser stato spinto contro la sua volontà a pubblicare i suoi libretti che, con falsa modestia, nomina « bagatelle ». Falsamente modesto, sì, perché, pur essendo convenzionali, questi due testi preliminari propongono una riflessione di poetica già moderna che chiarisce la posizione di Moniglia nei confronti della scrittura librettistica e giustifica la loro pubblicazione come testi drammatici autonomi. Moniglia esprime in poche frasi la contraddizione nella quale si trova – e si troverà a lungo – il librettista: essere spossessato dei suoi testi, dover accettare che fossero utilizzati e cambiati da altri e insieme volersi autore di essi53. Su questa base, dichiara ovviamente di ammettere la subordinazione dei testi librettistici agli ornamenti più potenti della musica e della scenografia54, suggerendo persino che l’edizione di questi, togliendo loro questi ornamenti fondamentali, potrebbe essere rischiosa perché contro natura. Ma l’edizione stessa in raccolta, col suo titolo, e la tutela dell’Accademia della Crusca, appare proprio concepita per proporre nuovi « ornamenti » utili a rendere queste bagatelle « perfette », anche senza il concorso del canto e delle scene.
Difatti, nuovi ornamenti, non più scenici ma di tipo letterario, possono essere considerate le diverse giustificazioni che lui dà per evidenziare e provare la conformità dei suoi drammi alle regole della poetica aristotelica, e quindi per riallacciarli ai generi canonici riconosciuti dai circoli accademici ai quali appartiene. Nella prefazione troviamo per esempio una serie di espressioni che fanno risaltare il carattere morale delle opere, dette, sì, « figlie d’ubbidienza », e considerate imperfette o incompiute, ma figlie però che non sono « femmine licenziose, lascive » bensì « verginelle ben allevate », « matrone onorate », che hanno per modello non la « soverchia licenza né i motti di Plauto, ma la gentil purità e espressione del costume di Terenzio »55. Qui, Moniglia parla forse più specialmente delle sue opere giocose, ma l’argomento vale per tutti i libretti giacché presentato in apertura dell’intera raccolta. In questo modo, i suoi drammi per musica risultano iscritti nel vasto procedimento di revisione – per non dire riforma – della scrittura drammatica che a Firenze si profila già negli anni stessi in cui Moniglia comincia a scrivere, per esempio sotto la penna di un suo compatriota, e accademico Immobile, Girolamo Bartolommei, autore nel 1658 di una Didascalia ovvero dottrina comica56, dove vengono condannate le commedie « oscene » sregolate dei comici improvvisatori, e rivendicato il ritorno a una commedia « di mezzo » ispirata a Terenzio più che a Plauto, nella quale lo spettatore possa trovare maggiore verosimiglianza nei soggetti e maggiore utilità nei personaggi e nelle situazioni offerte allo suo sguardo.
Ma c’è di più. A queste allusioni delle prefazioni, che lasciano trasparire una posizione risolutamente riformatrice del testo melodrammatico, Moniglia aggiunge due altri testi nei quali la sua posizione viene indirettamente consolidata. Si tratta di due Lettere di difesa delle sue opere allegate ai due drammi per musica, la prima intitolata esattamente Lettera apologetica per lo Quinto Lucrezio proscritto, scritta da F. N. all’autore57 e la seconda Lettera dell’autore ad un suo buon amico a proposito dell’ultimo dramma, Il Tiranno di Colco58.
Può darsi che la prima sia stata scritta dallo stesso Moniglia, come la seconda, in risposta a critiche che gli erano state mosse (gli anni sono appunto quelli delle cotroversie maggiori nelle quali è impegnato)59. Quello che più importa è sottolineare la coerenza delle difese e delle risposte con quello che Moniglia afferma anche nei testi preliminari. Le accuse girano essenzialmente intorno a mancanze di decoro dei personaggi, all’inverosimiglianza di certe situazioni e all’uso erroneo di termini storici messi in modo incongruo nella bocca di personaggi servili. Ad esempio, nel Quinto Lucrezio proscritto, gli viene rimproverato il fatto che un triumviro si presenti a una dama senza essere stato annunciato prima o il fatto che il servo balbettante – Davo, personaggio comico ricorrente nei drammi di Moniglia – pronunci la parola « Imperador »; o, ancora, l’uso erroneo di termini storici per designare certi personaggi (Augusto per il triumviro). Nel Tiranno di Colco, gli errori o difetti rilevati dai critici toccano ancora una volta le inverosimiglianze o mancamenti al « decoro » in particolare intorno al personaggio del tiranno, Clearco: il primo difetto rilevato è che l’autore « non l’abbia mantenuto nella maestà, e decoro dovutogli, facendolo comparire in scena sonnacchioso, e briaco » . Il secondo che « non abbia preparato gli Spettatori a tale unbriacchezza, col fargli alterare ad arte, o in un convito, o in altra occasione, il vino », il terzo che « da lui non si riconosca Damede, benché ricoperto delle vesti di umilissimo Garzone del Giardino » 60.
A queste accuse Moniglia – direttamente o tramite un suo amico – risponde in modo preciso, citando moltissimi esempi presi ai migliori autori della letteratura antica e italiana (Petrarca, Boccacio61), coi quali esibisce la sua erudizione e la sua conoscenza della lingua greca latina ed italiana62, ma che sopratutto servono a dimostrare la sua conoscenza delle regole di poetica che impongono agli scrittori di sostenere il decoro dei personaggi illustri e di rispettare la « verosimiglianza » :
Io so quanto granve sia l’errore nei componimenti scenici di non sostenere il Decoro delle Persone illustri che si rappresentano, non solamente nei costumi, ma eziandio nella proprietà dei Gesti e della Frase. Non mi sono in tutto e per tutto ignote quelle Leggi, che severamente l’impongono, alla cui osservanza i’ sono con tutto sforzo ben volentieri obbligato. Non è questo l’unico Drama che mi sia uscito dalla penna; pur troppo con mio rossore, il numero, oltre a quegli, che per anco si celano Manoscritti, se ne palesa su questa Stampa, nella quale, benché altri non mai rappresentati, altri rappresentati, ma non usciti alla luce si contenghino, l’ultimo però che io abbia composto, è ‘l presente, e si come in ogni altro da mè, enziandio negli anni giovinili, composto, mi son ristretto entro i principi di quella Scuola, malagevolemente ora mi si rende l’essere incolpato trasgressore di quell’ammaestramento che sempre mi sono industriato di mantenere vigoroso ed inviolabile.63
La sua è quindi una posizione classicizzante, aristotelica, che applica non solo ai componimenti seri, ma anche ai drammi giocosi. Nella prefazione del Podestà di Colognole, in apertura del volume III della raccolta, pur ripetendo che i suoi testi sono poca cosa senza il musico, gli abbellimenti della scena, la grazia dei recitanti, e quindi ammettendo che il lettore si trova davanti a testi « singolari », e imperfetti, egli insiste di nuovo sulla necessaria adequazione tra il carattere dei personaggi e la realtà, e ritorna in modo quasi ossessivo sulla sua osservanza delle « buone regole della Poetica », sul suo rispetto del « costume del personaggio, tanto nel parlare che nelle operazioni » 64 e sul fine morale che assegna con questo ai suoi testi drammatici.
Questa posizione certo strettamente legata all’appartenenza accademica del Moniglia, può aver influenzato la scelta dei testi che decide di far figurare nella raccolta. Come abbiamo detto, e come lui stesso ricorda nella lettera citata precedentemente, certi drammi erano rimasti manoscritti fino alla data della prima edizione della raccolta, e qualcuno non vi fu integrato, come il libretto del dramma civile, Il vecchio balordo, benché, come è stato detto, fosse stato rappresentato alla Pergola, in occasione ufficiale65. Perché l’esclusione definitiva di questo testo già privo di edizione « princeps », che presenta, nel manoscritto, un prologo riflessivo sotto forma di dialogo tra la Commedia e la Musica, nel quale la Commedia si fa il campione di una commedia moralizzata, di un teatro educativo, in perfetta eco alle proposte già citate di Girolamo Bartolommei? Forse nel 1689 questo prologo teorico non bastava a cancellare il carattere un po’ licenzioso dell’intreccio66 né valeva il fatto, ormai sicuramente dimenticato, che l’opera fosse stata data per un’occasione ufficiale della corte. Anche se ripresa probabilmente da certi intrecci di commedie cinquecentesche, la situazione drammatica poteva sembrare a Moniglia non conforme a quanto affermava nel suo paratesto a proposito della « purità o virginità » delle sue « figlie », non proprio adatta alla costruzione della figura di letterato attento alle regole e alla buona morale.
Può darsi anche che la non pubblicazione del Vecchio balordo sia stata decisa semplicemente per mancanza di spazio nel terzo volume, malgrado la scelta di pubblicare una versione ridotta del Pazzo per forza67. Difatti, Moniglia decide di aggiungere un ultimo ornamento di tipo letterario alla stampa dei suoi libretti, ornamento che forse dobbiamo considerare il più importante nella sua strategia editoriale: sono i vari glossari che vengono allegati a ciascuno dei drammi civili del terzo volume, nelle due edizioni successive della raccolta. Come indicano i titoli68, questi glossari sono la spiegazione più o meno distesa delle parole e delle espressioni idiomatiche d’uso fiorentino, usate in particolare dai personaggi buffi, con le quali Moniglia appoggiava tanto la ricerca di verosimiglianza dei personaggi di cui abbiamo parlato sopra, quanto la volontà di distacco dalle forme della commedia, all’improvviso giudicate immorali e non educative. Con questo ultimo ornamento linguistico che riduce i drammi civili a semplici testi conservatori della parlata fiorentina, Moniglia sembra voler togliere ai suoi libretti persino il loro valore drammatico per farne solo testi da leggere. L’analisi dei rimaneggiamenti operati sul manoscritto del Ritorno d’Ulisse per la sua edizione nella raccolta69, come anche la non pubblicazione della descrizione d’Enea in Italia di cui s’è parlato prima, conferma la presa di distanza col testo scenico. Con questa affermazione della autonomia del libretto e del suo valore letterario, Moniglia apre la via alla revisione decisiva del dramma per musica sviluppata in sede accademica degli anni successivi, e all’ulteriore riaffermazione della centralità del libretto nella creazione operistica70.