Le « stelle variabili » di Andrea Zanzotto

  • Le « stelle variabili » di Andrea Zanzotto

Résumés

Nel 1993, due componimenti appaiono in quanto « inediti » nell’antologia Poesie (1938-1986) di Andrea Zanzotto, a cura di Stefano Agosti. Questi componimenti non saranno poi ripubblicati, né in Meteo (la raccolta del 1996) né in Le Poesie e Prose scelte (il volume dei Meridiani del 1999) né in Sovrimpressioni (la raccolta del 2001). I due inediti sono stati come occultati (provvisoriamente ?) da un’eclissi. Il saggio propone una breve esplorazione dei modi della scrittura del poeta trevigiano che porta a una percezione della sua poetica come « fulgore » mallarmeano o « bagliore » montaliano.

In 1993, two poems came out under the title « Inediti » (previously unpublished) in Andrea Zanzotto’s selected writings Poesie (1938-1986), edited by Stefano Agosti. The two poems werenever published again, neither in his collections, Meteo (1996) and Sovrimpressioni (2001), nor in Le Poesie e Prose scelte (the 1999 Meridiani Mondadori volume). The two « previously unpublished » seem to have been temporarily left in the dark, as it were, or eclipsed. This paper will briefly explore the writing of Zanzotto and this will lead us to conside his poetics in the wake of Stéphane Mallarmé’s « scintillation » and Eugenio Montale’s « glimmer ».

Plan

Texte

Nell’ambito di questa presentazione di due poesie « inedite » (ovvero, pubblicate e poi occultate) del poeta Andrea Zanzotto, si cercherà essenzialmente di tracciare alcune prospettive riguardo alla percezione di una « messa alla prova » nella poetica dell’autore. Le due poesie sono « Finalità, e facile non essere » e « Irrtum », componimenti che vennero pubblicati con la segnalazione « Due poesie successive a Idioma » nell’antologia del 1993, curata da Stefano Agosti e intitolata Poesie (1938-1986). In sostanza, si tratta della seconda antologia del poeta trevigiano, dopo quella del 1975. In seguito, questi componimenti non vennero ripresi nel volume della collana « Meridiani » del 1999, presso l’editore Mondadori, intitolato Le Poesie e Prose scelte (volume che contiene tuttavia anch’esso diciannove « inediti »), e neppure nelle raccolte Meteo (1996) e Sovrimpressioni (2001).

La pecularietà di queste due poesie tiene innanzitutto a questa loro breve apparizione in una antologia: apparizione che dà ai due componimenti uno statuto di « stella variabile »1, consono in quanto tale alle più recenti « costellazioni » dell’opera, cioè la « pseudo-trilogia » (Il Galateo in bosco, Fosfeni, Idioma), da una parte, e Meteo e Sovrimpressioni, dall’altra.

Si tratterà in primo luogo di esplorare, almeno parzialmente, la pratica poetica del poeta e di tentare di vedere, secondo due prospettive (una dell’edizione originale e una della traduzione in un’altra lingua), come un dato testo di un poeta rimanga o meno un « inedito », ovvero, per così dire, una singolarità nel tessuto spaziale di una raccolta, da una parte, e nel tessuto temporale della produzione dello scrittore, d’altra parte.

Nella fattispecie, ci limiteremo per ora ad una osservazione di alcuni fatti poietici più che al tentativo di trarre da tale indagine una vera e propria teoria poetica.

Apparire sparire

Le due poesie, apparse in quanto « inediti » nell’antologia curata da Stefano Agosti (il titolo della sezione nel volume del 1993 è « Due poesie successive a “Idioma” »), sono poste sotto il segno del vocativo, figura ormai classica per il poeta che ha intitolato proprio così la raccolta del 1957 (poi ripubblicata con variazioni nel 1981). La prima poesia, senza titolo, è una dichiarazione sull’« essere al mondo » proposta da un « noi ». Il contenuto ricorda a momenti alcune espressioni e vari enunciati de La Beltà (1968) :

Finalità, e facile non-essere,
accarezzante, ma da tanto lontano
circonfuse foschie da foschie là dove
confida l’ora,
e muovonsi passi ancora
che di noi, rinvenendoci, annunciano –
movimenti verso la più increata soave vaghezza
puro guardare per non vedere, e addolcirsi
di questo non vedere. Ogni promessa
ogni vigore
ha dato, ha dato. Principii, colme persuasioni.
Alimenti. Foschiali deludimenti, foschie.
Decisioni lievissime di vie
a sé intente –
pietà in se stesse accedono, grata famiglia

Qui, il componimento è come articolato in due « ante » (è difficile parlare di « strofe », dato la continuità tra le due) da un tratto di puntini, secondo una struttura e una disposizione tipografica che ritroviamo in altre poesie di Zanzotto, in particolare ne La Beltà e ne Il Galateo in bosco, ma non solo. Il discorso tenuto all’inizio continua tuttavia senz’altra interruzione oltre quella dei puntini, per dichiarare, qui ancora, un’idea di « attesa » che è allo stesso tempo « offerta », come reggendosi su una soglia dell’essere2 tra visibile e invisibile. L’enunciato poetico è quindi chiaramente di stampo « fenomenologico », come spesso accade in Zanzotto, e attraversato dai caratteristici ritmi e suoni (come nel primo verso, dalla scansione urtata) del poeta trevigiano :

Quale amore più grande che questa clemenza ?
Quale più latteo (foschie) coincidere in possibile
Sogno e ricordo, in latitanza ?
Quali fasi di calma e calma, più che speranze
o amori troppo in atto ai gesti minimi
trasformati in veridiche, libere sostanze ?
E pur questa è – ma perché ? – un’offerta
fino all’estremo convinta nel formare formare
un’idea dell’offerta
E dunque attesa si fa si fa, scintillando, invisibile

Il secondo « inedito » è intitolato « Irrtum » e una nota del poeta glosa la parola in quanto « “errore”, in tedesco ». Anche qui, il vocativo è presente sin dall’inizio e si rivolge questa volta in modo diretto a un fenomeno quale la luce, mentre la situazione d’enunciazione è ancora più ovvia rispetto alla precedente poesia :

Onnipotente e pur lieve luce che in te ti celebri
e consumandoti vai celebrando le ombre-orme che generi
sempre più vulnerate, vulneranti
Luce di non-tramonto, che pur si vuole
là oltre la più intensa idea di tramonto
Quale vecchiezza o quale infinita maturità
di viola e rosso in folle recenti e trapassate
costrette da divieti
all’irtezza più acre

Il soggetto poetico è anche qui un « soggetto politico », in quanto il « noi » è di nuovo messo in rilievo in quanto emittente del messaggio :

Siamo qui, uni ad uni, a farvi accedere
in festa, dettami-noi dei colori, dettami dei
sovraesposti cieli e, nel giù, violate vite dell’ombra
e compatto fiorire, e opposto, nel limpido-cupo-tuffo

Il tentativo di accedere a una fenomenologia dell’essere è di nuovo all’opera, in una specie di gesto linguistico rivolto ai fenomeni luminosi, con interrogativi che lasciano tutto lo spazio ai dubbi del pensiero, vale a dire ai movimenti di una coscienza e di una « noesi » di stampo husserliano3 che si risolve alla fine del componimento in un’immagine tipica dello Zanzotto di Dietro il paesaggio e di Vocativo, con la valenza « surreale » di una « lama d’occhiaia » che vuole disfare delle « animose tenebre » che possiamo identificare come l’oscuro dell’esistere evocato peraltro in « (Perché) (cresca) »4, ne Il Galateo in bosco :

Onnipresenze e molteplicità
invasibili, invasamento che in sé
si assorda e ammutina in evidente
venir meno di ogni evidenza, aggrumarsi
d’ogni più scabra, urticante evidenza.
Dove in-essere, luogo al più alto
luogo al farsi luogo da luogo,
protervie, spenti abbagli, riscattanti abbagli,
fissioni in miriadi, devozioni ?
O lama d’occhiaia
che in sé
rientra e si retroespande nel
rigore, nel purissimo scostruire
singole, adatte, animose tenebre ?

Definizioni di una poetica

La poetica della « voce » nella poesia di Zanzotto e la « maniera » per creare una raccolta seguono due linee programmatiche. Una sarebbe l’« […] allucinatorio ‘dettato interiore’ da sempre noto ai poeti »5 con il quale Zanzotto s’iscrive in una prospettiva di ampia e antichissima tradizione (quella di Dante Alighieri e di alcuni poeti coevi, ovviamente, ma anche di vari poeti dell’antichità latina e greca). L’altra linea programmatica consisterebbe in una prospettiva più terra a terra, ovvero più pragmatica, come a dire da « poeta archivista »:

Non è che io scriva ogni giorno, anzi lascio passare anche lunghi periodi senza scrivere nulla, nel più piatto squallore, ma « ci penso »; e quando questi versi, queste parole, singole o a gruppetti, cominciano a « volersi », a nascere, io li trascrivo sempre a mano, usando penne che mi diano quasi la sensazione di disegnare sulla carta o addirittura di bucarla, di attraversarla, e accumulo nel cassetto questo materiale non sapendo nemmeno bene che cosa esso sia. Quando è passato quel periodo che all’incirca corrisponde a un « grande mese » della vita, compio una specie di controllo, una ricognizione su questi materiali, e improvvisamente mi appare il profilo di un libro. Si accende allora il titolo, il quale ha per me un significato di estrema importanza; la semantica del titolo è rivelatrice e decisiva. Il titolo nasce per me come individuazione di una struttura in mezzo a un coacervo6.

Questo modo di « produrre » le poesie, nella sua spontaneità e magari « casualità », fa pensare a un processo affine alla « serendipità », vale a dire il fatto di trovare (o di trovarsi di fronte a) qualcosa che non si cercava (un concetto ideato da Horace Walpole nel 1754,7 che Italo Calvino riprese per illustrare la complessità del mondo scritto, ovvero la « molteplicità » del fare poietico). Qui, lo stesso poeta ci dice qual è il suo modo di concepire (generare) il componimento, attraverso un processo di maturazione della « verbalizzazione » che si fa strada mediante un « coacervo » o aggregazione del dire. Zanzotto riprende frequentemente questo modo di concepire il fare poetico, per esempio ­– in una delle dichiarazioni più recenti – nel breve saggio Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura (2007) dove scrive:

Le mie poesie nascono ancora sia dal paesaggio devastato sia dai pensieri sconquassati e incerti delle spinte alla poesia, che ho paragonato per la loro intensità a questi fiumi [che scendono alle spalle dell’Himalaya, verso le zone desertiche del centro dell’Asia […] e rendono molto bene quella spinta iniziale, che è cominciata tanti anni fa e si stenta a identificare senza ricerche approfondite, la spinta che continua ancora quando sono venute meno in gran parte le condizioni da cui scaturiva]8.

In altra sede, cioè nella nota finale alla raccolta Meteo (1996), Zanzotto scrive di nuovo sui temi della creazione poetica e del proprio procedere poetico: « Questa silloge vuol essere soltanto uno specimen di lavori in corso, che hanno un’estensione molto più ampia. Si tratta quasi sempre di « frammenti incerti », risalenti a tutto il periodo successivo e in parte contemporaneo a Idioma (1986). Non tutti sono datati e comunque sono qui organizzati provvisoriamente per temi che sfumano gli uni negli altri o in lacune, e non secondo una sequenza temporale precisa, ma forse ‘meteorologica’ »9. D’altra parte, nella nota introduttiva agli Inediti nel volume dei « Meridiani » Mondadori (1999) – il volume che precede Sovrimpressioni –, Zanzotto precisa a proposito dei diciannove componimenti « di zecca » che « I presenti inediti, non ancora coordinati, costituiscono in certo modo un seguito di Meteo ».

Tuttavia, le due poesie del 1993 non appariranno più, né nell’elenco degli « inediti » del « Meridiano », né altrove. I due componimenti, non particolarmente originali nella forma e nel contenuto, sono scomparsi da ciò che possiamo chiamare la « via lattea » zanzottiana, appunto secondo la metafora costruita sulla scia di Sereni (una poetica che cerca, come per il poeta di Pantomima terrestre, « […] un bagliore che verrà / con dentro, a catena, tutti i colori della vita, e sarà insostenibile »)10. Gli elementi essenziali di questa metafora del processo poetico sono in coerenza anche con la metafora proposta da Stéphane Mallarmé in Crise de vers, quand’egli parlava di « scintillation », di « lueurs d’orage » et di « virtuelle traînée de feux » per evocare il proprio modo di concepire la comunicazione poetica.

Si tratta ora di tentare un approccio, ovviamente parziale, della poiesis di Zanzotto, considerando alcuni dei concetti suggeriti dalle stesse « stagioni poetiche » dell’autore11. Di primo acchito, si possono stabilire due osservazioni a proposito delle sillogi del 1996 e del 2001. La prima è che tutto Meteo è costruito sul filo di temi « meteorologici »: da questo punto di vista, tra le poesi di cui consta la raccolta, possono essere citate più particolarmente « Tempeste e nequizie equinoziali », « Sedi e siti » o « Erbe e Manes, Inverni ». Come scrive Stefano Dal Bianco nel commento liminare alla raccolta, la « […] costellazione semantica cui il titolo rimanda fa capo al greco tá metéora […] », ma è pure in gioco « […] la valenza equivoca della parola “tempo” […] » e il « panorama astratto » disegnato dai componimenti della silloge hanno qualcosa in comune con il « […] paesaggio mentale di Fosfeni »12.

La seconda osservazione è che l’altra raccolta, Sovrimpressioni, è costruita seguendo lo stesso profilo, per cui alcune delle poesie evocano motivi sempre in rapporto con il paesaggio che appartengono sia al primo periodo poetico (che va fino al volume La Beltà del 1968), sia al secondo (dopo La Beltà): questo risulta particolarmente ovvio in poesie come « Ligonas » oppure « Postremi luoghi del Galateo in bosco ».

La poesia prosegue quindi una linea che riguarda « […] il cambiamento del clima, la distruzione del paesaggio, il vissuto della poesia, la fragilità del corpo », i soliti temi su cui torna Zanzotto in Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura: quella linea che si manifesta sin dagli esordi, già in vari titoli di Dietro il paesaggio13.

Per quanto riguarda Sovrimpressioni, si noterà che lo stesso titolo accenna già a un processo di « riabilitazione » e quindi pure di « continuità ». Perfino una nota di Zanzotto evoca una continuità del disegno con Meteo, e questa volta il poeta parla di « lavori alla deriva » più che di « lavori in corso », precisando che i detti lavori « […] tendono qua e là a connettersi in gruppi abbastanza omogenei ». Il che, aggiunge l’autore, è « […] in controtendenza ma anche in coinvolgimento rispetto all’atmosfera attuale mossa da frenesia e da eccessi di ogni genere che fanno tutto gravitare verso una pletora onnivora e annichilente ». L’idea dominante è quella di entropia (presente di frequente nei testi di Zanzotto), e associabile a quella di serendipità, anch’essa fortemente presente: il tutto pone la poetica sotto il segno della precarità e del fugace. Per quanto riguarda il titolo, esso « […] va letto in relazione al ritorno di ricordi o tracce scritturali e, insieme, a sensi di soffocamento, di minaccia e forse di invasività da tatuaggio » (e forse qui viene accennata una « domesticazione dell’essere », altra tematica frequente). Zanzotto precisa inoltre che esistono « […] già numerosi altri nuclei contemporanei a questi, e in parte già sviluppati »14.

Da tutto ciò, possiamo quindi dedurre, secondo quanto detto dallo stesso poeta, che questi testi hanno come echi o accompagnamento (più o meno regolare, più o meno episodico) una serie magari alquanto lunga di altri « inediti » o testi in fieri o in procinto di essere « tirati fuori dal cassetto »: il che conferma una tendenza , già evocata, della poetica di Zanzotto a un « porre e levare » (nel e dal cassetto)15.

Due dimensioni poetiche

A questo punto vanno evocate almeno due modalità della produzione poetica di Zanzotto, ovvero di una poietica ch’egli condivide – ovviamente da alcuni punti di vista e non integralmente – con altri poeti.

La prima è il « climaterico », aspetto importante della scrittura del poeta, e ch’egli ha in comune con il poeta francese Jacques Roubaud (non specialmente con le stesse premesse). Per i due poeti, il motivo climaterico, in conformità con il senso etimologico della parola, è relativo a un periodo della vita che comporta, magari implicitamente e quasi sempre con un’idea di ciclicità (ricorrenza) un senso di « pericolo » o, per lo meno, di « involuzione ». Jacques Roubaud, che usa esplicitamente il vocabolo in Poésie:16, spiega che il climaterico è un concetto ispirato al poeta Góngora, concetto affine a un sentimento e allo stesso tempo a una sensazione, e conseguenza di una certa « armonia » fra la struttura dello spirito e la forma del mondo: la percezione del soggetto si traduce in tale ambito nella « nostalgia di una completudine »17.

Questa modalità poetica legata al rapporto del soggetto con il mondo circostante è ovviamente in sintonia con un motivo come il paesaggio (molto spesso minacciato), sempre operante in varie raccolte di Zanzotto da Dietro il paesaggio fino a Sovrimpressioni (in cui questo motivo viene appunto rimesso in gioco). Questa modalità ci porta a considerare i libri di Zanzotto, almeno in parte, in quanto scritture « meteopatiche », vale a dire costituite sul filo di una percezione climaterica, come tende a suggerirlo il poeta in varie dichiarazioni dove « il trauma » risiede sia nella poesia che nel vissuto e nel clima18.

L’altra modalità poetica è quella che mette il testo in tensione per il tramite della dimensione « rizomatica »19 della scrittura. Nel caso di Zanzotto, questo aspetto vale sia per la prosa che la poesia dell’autore, a causa della complessità operante a livello della forma (e quindi del contenuto semantico) della « verbalizzazione » poetica. Tale modalità funziona in concomitanza con il « climaterico » già evocato, e anch’essa è condivisa con Roubaud. Nelle « diramazioni » che costituiscono la rete della prosa di Roubaud20 si può trovare una sintonia con le « linee di programma » che attraversano e per così dire incidono le raccolte del poeta trevigiano21. Infatti, come giustamente evocato da Stefano Dal Bianco, il testo zanzottiano « […] è una specie di calamita fatta di strati e sovrastrati convergenti. In linea di massima il convergere di queste componenti esclude per natura la prospettiva opposta, ossia il divertimento. Il “gioco” sta nel costruire un agglomerato densissimo di senso il cui fine ultimo è lo sfondamento del reale. Una “crescita” della realtà, direbbe Zanzotto »22.

Nell’ambito di queste modalità, come in alcuni testi di Roubaud, la poesia « irradia » a partire da un « centro nevralgico » e il processo poetico è paragonabile a quello dei sogni. Ritroviamo, sia nel poeta francese sia nel poeta italiano, una dimensione onirica nel fatto poetico. Così, mentre Roubaud parla di un sogno fatto nel 1961 per ambientare il proprio progetto, Zanzotto chiosa (in francese) un suo sogno (fatto « sotto il Vajont, il 26 ottobre 1963 »23, in una specie di premonizione di una catastrofe) e ne riproduce una traccia concreta in « Microfilm »24, nella raccolta del 1973, Pasque. Per Jacques Roubaud, d’altra parte, il sogno partecipa appunto di una modalità rizomatica:

[…] le rêve se trouve en fait semblable à un arbre coupé de nombreuses racines: les mots qui le constituent maintenant ont perdu le pouvoir d’appel d’autres souvenirs contemporains, qui me sont pour cette raison devenus inaccessibles, en tout cas directement.
Or je me souviens (ou crois me souvenir) qu’il y avait dans les environs du rêve autre chose que ce que je peux retrouver aujourd’hui, et vais dire. Je n’y peux rien; sinon espérer que par miracle, le simple acte de dire les incitera à resurgir, de ces ombres derrière des ombres où ils sont cachés.
25

Per Andrea Zanzotto, l’atto poetico è « […] il momento di massimo raccordo tra conscio e inconscio »26, poiché:

[…] Il modo con cui la poesia riceve gli stimoli della cultura non si differenzia dunque da quello con cui essa riceve gli stimoli della vita quotidiana – un albero o un libro, un bel volto o un pensiero, una ustione o una carezza, immediate, o mediate dalle parole dai suoni dai colori dell’opera artistica di altri uomini. […]27

E inoltre:

[…] V’è nella poesia la forza che si scatena dal ricongiungimento del rebus della lingua come tale al rebus dell’inconscio-sogno, l’empatia causata da un corto circuito che realizza in sé e sposta entro la veglia, o una super-veglia, questa volta autentica, la multidimenzionalità, i mondi paralleli del sogno.28

Abbastanza ovviamente, l’illustrazione di questa concomitanza di modalità poetiche, che in altra sede dovrebbe poter essere sviluppata più a fondo, mostra che alcuni dei modi di funzionamento delle poetiche di Zanzotto e di Roubaud hanno esplicitamente una affinità, sia per il motivo « climaterico » che per quello « rizomatico » (e quello « onirico »).

Il paesaggio poetico

Sul filo del giudizio di Stefano Dal Bianco già evocato, è dunque possibile una lettura di Meteo come di una « costellazione semantica » che rimanda sia alla modalità meteorologica (quella greca antica del ta meteora), che alla dimensione del tempo in quanto parametro del continuum e al tempo grammaticale29. Sempre seguendo tale metafora, vediamo quindi che la poesia di Zanzotto si dichiara attraverso delle « stagioni », e comporta in tale dimensione un « orientamento » in un rizoma del senso30.

In certo qual modo, la poesia (sia un componimento che un gruppo di componimenti di una stessa raccolta) è infatti un lume che luccica nel buio (secondo un’immagine abbastanza diffusa che riporta, oltre che al Roubaud di Quelque chose noir, a Montale e, più indietro nel tempo del dire poetico, a Dante in vari luoghi della Commedia). È un lume anche quando nell’in fieri poetico si fa oscuro il senso di un messaggio o, più generalmente, il senso di ciò che Zanzotto evoca in quanto « processo di verbalizzazione del mondo » (« Profezie o memorie o giornali murali », XVI, La Beltà) o in « crescita d’oscuro » (« (Perché) (cresca) », Il Galateo in bosco).

Questo avviene poiché a un a che pro ? che si rivela nelle manifestazioni di disperazione dell’esistere (il trauma dell’essere che, ovviamente, non solo i poeti sono chiamati a provare) vuole opporsi una volontà tenace di essere (si pensi al Wille di Schopenhauer o al « dur désir de durer » di Paul Éluard, per esempio).

La ricorrenza di temi attinti alla luminosità, molto frequenti in Zanzotto (in particolar modo in Fosfeni, ma già presenti fin dagli esordi), inducono a pensare il lavoro creativo come finalizzato alla ricerca di una verità fugace, sempre messa in dubbio. La « stella variabile », « […] alta metafora che rapporta il continuo oscillare delle poetiche improbabili dei poeti »31, già evocata in omaggio a Vittorio Sereni, è una delle metafore applicabili alla ricerca di una completudine, poiché, sempre secondo Zanzotto:

[…] è più un’aspirazione quella del poeta, la denuncia di un mancamento che ansima su una china. Dice Montale: « La poesia rimane sempre inedita » – nel senso che è molto facile che si formino mode che poi cadono, quindi un bel castello va giù senza un perché soltanto per la noia. […]32.

La « pantera profumata » e l’« orbita di coazione »

Nei fatti, la poesia non può dimostrare qualche « verità dell’essere al mondo », ma solo mostrarne alcuni aspetti, e solo secondo alcune prospettive. Come lo illustrava Dante nella famigerata metafora della « pantera profumata », la poesia e l’arte in generale lasciano una traccia appena percettibile e sempre fugace di una verità dell’esistere e del divenire. Sia Zanzotto che Roubaud si sono in fin dei conti riportati a una dimensione affine al concetto del Dasein di Martin Heidegger (quella tenue certezza della « schiarita » che è anche « radura », illustrata dal filosofo tedesco nel Dialogo con Hölderlin), e al chiarore diffuso evocato da Eugenio Montale in « Piccolo testamento » (La bufera)33.

La legittimità della poesia appartiene quindi all’ordine di un sentimento che, a priori, è quello di una possibile armonia tra la struttura della mente e la forma del mondo, il che si traduce tramite una forma di nostalgia di una completudine34. E la ricerca d’armonia avviene proprio per il tramite di un atto d’intelligenza in cui vengono impegnati, per quanto possibile, tutti i sensi (etimologicamente, intelligo vale per scorgere, accorgersi, cogliere, sentire, provare, osservare, capire, conoscere).

Di conseguenza, gli « inediti » zanzottiani dell’antologia del 1993 possono essere considerati come i costituenti – respinti in un secondo tempo – di un tentativo di riconnettersi a un centro nervoso, a un’intelligo. Questo tentativo rimane inconcluso, sia per inadeguatezza dell’obiettivo, sia per l’assenza delle tonalità ideali, come se la poesia risultasse mal connessa alla « rete » nervosa del periodo poetico, oppure come se instabile o disadatta (un concetto anch’esso spesso ricorrente in Zanzotto)35 rispetto al detto periodo. Ad ogni modo, la poesia è un’« esperimento » che si inserisce in un dispositivo di « […] poetiche-lampo, […] corto-circuito, sternuto, […] atto di strutturazione, o coacervazione di parole, […] modo di usare e insieme saggiare la lingua [in cui] avviene l’allucinazione del potere del linguaggio »36.

Questo avviene perché il poeta è quasi sempre « in orbite di coazione »37 o impegnato in una ricerca sia rischiosa e avventata che costretta dal « mancamento al dire » inerente al linguaggio, come viene espresso per esempio in « Alto, altro, linguaggio, fuori idioma ? » (Idioma):

Ma vedi come – in idioma – corra i più orribili rischi
la stessa nebbia fatata del mondo, stock
di ogni estatico scegliere, di ogni devozione
E là mi trascino, all’intraducibile perché
fuori-idioma, al qui, al sùbito,
al circuito chiuso che pulsa,
al grumo, al giro di guizzi in un monitor
Non vi siano idiomi, né traduzioni, ora
entro il dispersivo
il multivirato sperperarsi in sé
di questo ritornante attacco dell’autunno. […]

Visibilmente, i due « inediti » non hanno trovato un giusto posto nella « rete climaterica » che intercorre tra Idioma et Sovrimpressioni. Dal dato di fatto, diverse ipotesi possono essere sostenute riguardo a questa scelta finale, tenendo conto di alcuni elementi concreti.

Per esempio, il secondo componimento s’intitola, quasi con il senno di poi, « Irrtum » (errore, in tedesco): questo titolo induce un’idea di « scarto », di « fuori contesto » o « fuori posto ». D’altronde, al termine « Irrtum » fa da eco l’« irtezza » menzionata nel corpo della poesia (« l’irtezza più acre »), come per esprimere il fatto che un’errore è comunque una specie di ferita (e anche all’idea che la poesia sia come un’arma per « aprire » il mondo, ma pericolosa da manipolare, come d’altronde il linguaggio in genere: se usato senza alcune dovute precauzioni, l’arnese ch’è la poesia può rivelarsi pericoloso). Invece, per quanto riguarda l’altra poesia apparsa e poi scomparsa, si può ipotizzare che essa manchi forse di una certa « finalità », appunto, poiché porta – troppo ? – facilemente al « non essere ».

Un’altra posizione interpretativa possibile consiste nel considerare la musicalità e le cadenze operanti nelle poesie, vedendoci una specie di spartito musicale della raccolta. Da questa prospettiva, si può considerare che gli « inediti » non hanno trovato il loro posto in una determinata sezione di una raccolta, e questo è successo perché agli orecchi del poeta non hanno « tracciato un cammino » come dicono gli appassionati di jazz, perché le loro cadenze non s’armonizzano con gli altri componimenti.

Ma l’inadeguatezza del componimento potrebbe anche essere motivata da una certa insufficenza di armonia a livello dei colori evocati, dato che sia Meteo che Idioma iscrivono vari colori dello spettro luminoso nella loro parola poetica. A questo punto, l’« attesa [che] si fa si fa, scintillando, invisibile » di Finalità e facile non-essere, e gli « spenti abbagli » di Irrtum entrano in ovvia contraddizione con la percezione visiva iscritta nelle diverse raccolte poetiche, in particolare nelle due più recenti, Meteo e Sovrimpressioni (Idioma essendo, è vero, più caratterizzata dalle percezioni uditive).

Da un altro punto di vista ancora, queste poesie possono essere apparse in fin dei conti come troppo « straniere », « strane » o « detritiche », tutto sommato non « congeneri » al corpus di una data raccolta, seguendo un giudizio sulla poetica dello stesso Zanzotto che dichiarava in « Vissuto poetico e corpo »:

[…] Anche se lo si vuole considerare un detrito, un relitto, il testo va comunque per conto proprio, parte « per la tangente », come si diceva una volta, ed entra in maldefinibili orbite. Il testo è anche di certo « un alieno », di quelli che in SF vengono « da fuori », si impadroniscono di un vivente, di un corpo-psiche vivente su questa terra e vi s’incistano e lo possiedono, così da far tutt’uno con esso.Il quale a sua volta modifica un poco l’ufo (se così vogliamo chiamarlo) e ne viene fuori una specie di chimera o di minotauro, che è qui e fuori di qui ad un tempo. […] Il fatto poi che esso sia soprattutto traccia linguistica lo riconnette irreparabilmente al tempo storico e biologico, lo abbassa comunque ad « atto di lingua ». [Il testo] non mai « nato abbastanza » per potersi staccare dal corpo-psiche mediante il quale è stato reso possibile, […]. Non si sa bene allora se il testo non serva infine a un feed-back di lettura da rivolgere ben più al corpo-psiche in cui, grazie a cui, nonostante le cui resistenze, esso si è formato. […] Come forse ogni minimo quantum di dolore o di gioia patito – esso che è la verità – non può « aver luogo » se non nelle scritture. Destinate comunque a diventare illegibili, a essere ricondotte dignitosamente al grado chiuso e definitivo del detrito-enigma.38

In fin dei conti, potrebbe anche essere il caso che questi testi siano stati considerati dal poeta-gatto come dire « detritici »... oppure « dimenticati » dal poeta-scoiattolo.

Comunque sia, quei due inediti, identificabili sia dal poeta che dal lettore in una conformità semantica con le stagioni poetiche di Idioma e di Meteo, avrebbero potuto trovare a priori un loro determinato posto in una raccolta. Infatti, da una parte, « Irrtum » evoca un « farsi luogo da luogo » e, d’altra parte, presenta chiare affinità tematiche con « Vocabilità, fotoni » (un componimento tratto da Fosfeni che è presente nell’antologia del 1993), nonché con « Gnessulogo » e « (Perché) (cresca) » (due poesie de Il Galateo in bosco, del periodo anteriore a Fosfeni e a Idioma – la seconda appare nell’antologia del 1993). Mentre « Finalità e facile non-essere » è facilmente riconducibile alla vena di Meteo, dove, per esempio, « Morèr, Sachèr » evoca l’« amore dell’essere ».

Quindi, si arriva alla conclusione che se i segnali di continuità semantica da poesia a poesia non mancano, si avvera anche che la tensione emotiva che avrebbe potuto legare le due poesie ad altre non è stata efficiente, almeno in quella sede. Ed è forse appunto il componimento intitolato « Sedi e siti » della raccolta Meteo, coi segnali verbali che lo attraversano, a poter fornire ancora un’altra illustrazione metapoetica del costruire « da luogo a luogo » (in sostanza: tracciare una linea da stella poetica ad altra stella poetica per disegnare una costellazione) che Zanzotto prosegue nelle sue raccolte. Qui, la poesia è anche biologia (ricordiamo che il « biologale » è un altro concetto zanzottiano), dove « il lucignolo di un verso » vuole notificare un « intensità di luogo »39 che tende a « […] ispessirsi / in testimonianze già sparse », anche se a volte « […] s’assopisce nei limiti limbi il bell’esempio » (commentando la poesia, Stefano Dal Bianco indica appunto che « […] il bell’esempio in Zanzotto designa sempre il prodotto poetico, qui legato al motivo della “testimonianza” »)40.

Orbite stellari

Osserviamo ora la scelta di Philippe Di Meo in Du Paysage à l’Idiome, la sua antologia bilingue con traduzioni in francese di poesie di Zanzotto, che prende in conto il periodo 1951-1986 e pubblicata nel 1994 presso la casa editrice Maurice Nadeau-UNESCO. In questa antologia, « Irrtum » appare alla fine del libro, insieme al componimento « Erbe e Manes, Inverni » che farà parte della futura raccolta Meteo, nella lista delle poesie selezionate al fine di « […] proposer la coupe convaincante d’une œuvre […] à travers ses poèmes les plus représentatifs »41, come a formare una conclusione provvisoria alla panoramica sull’opera del poeta trevigiano.

Parlando di queste « poesie inedite », Philippe Di Meo evoca la possibilità di leggervi « […] i grandi temi di Vocativo trasposti in una dimensione “essenzialista”, nei paraggi di un registro stilistico fondato su una sublimazione allo stesso tempo spossata e in tensione ». Poco prima, il traduttore evocava il fatto che si potesse vedere nella poesia di Zanzotto l’articolazione del suo linguaggio « […] intorno a due grandi figure insieme antitetiche e ciò nonostante solidali: il “ricchissimo nihil” e il “fuisse” ».

La prima di queste figure « […] s’impone al poeta nella contemplazione di ciò che il paesaggio offre forse di più astratto: “l’azzurro”, […] superficie enigmaticamente vuota […] intuizione di un nulla fertile [dove] il silenzio non è più in contraddizione con la parola e vice versa ». Sempre secondo Di Meo, la seconda figura, il « fuisse » (l’essere stato, in latino), « […] funziona allora da referente e in quanto tale rimane invariabile ».

Da quel momento la parola diventa praticabile nella sua autenticità. E da allora in poi sarà la variazione degli strumenti del linguaggio e quindi delle forme a sottendere l’invarianza dei significati, sempre da riaffermare. Questo è il senso del movimento. Il “fuisse” vale in quanto forza centripeta, e il “ricchissimo nihil” in quanto forza centrifuga, e il momento pertinente di questa struttura, il cui modello linguistico potrebbe essere l’ossimoro, è quello dell’articolazione degli enunciati. IX Ecloghe ci confronterà […] poco dopo al dritto della medaglia, ovvero la sfaldatura. Di modo che possiamo leggere Vocativo non solo seguendo l’indispensabile lettura verticale di ognuno dei suoi pezzi, ma anche secondo una lettura verticale dei titoli chiave della raccolta »42.

Ora, nei due componimenti, « Finalità » e « Irrtum », è abbastanza agevole scorgere le due figure di cui parla Di Meo, in particolare nel « non essere » e nel « farsi luogo da luogo ». Di conseguenza, le due poesie comportano di nuovo, a distanza di Vocativo, i due poli operativi ispirati alla sua stessa « stagione poetica » e percepibili nella cosiddetta « pseudo-trilogia » (Il Galateo in bosco, Fosfeni, Idioma).

Se queste due poesie non hanno trovato la loro integrazione né a monte di Meteo, né a valle (uso qui espressioni geografiche coerenti con la vena « paesaggistica » di Zanzotto), è magari perché sono state considerate dal poeta come delle « scorie » refrattarie a qualsiasi tentativo di inserimento in un dato orientamento, quello de « […] l’ibridazione parziale delle tradizioni a cui Zanzotto si compiace di abbandonarsi », sempre seguendo il giudizio di Philippe Di Meo. Secondo quest’ultimo, infatti, ogni parte del discorso tenuto dal poeta nella trilogia comporta « […] dei residui di tutte le altre »43. Ma i cosiddetti « residui » devono poter trovare la loro collocazione in una specie di « catena » o « orbita » o « costellazione » che partecipa anche della cucitura e della biologia44 (e magari della chimica), poiché se non collocabili, diventano di fatto dei residui (e in certo modo hanno la parte degli espletivi in una catena sintagmatica, essendo la raccolta questa catena sintagmatica.

Seguendo questa prospettiva, le poesie sono quindi sottoposte a una forma di « serendipità » durante il periodo (la « stagione », appunto) della costruzione di una raccolta. Questo avviene almeno perché, secondo il poeta, « […] la poesia è, prima di tutto, un incoercibile desiderio di lodare la realtà, di lodare il mondo “in quanto esiste” », anche perché, aggiunge Zanzotto, il mondo della poesia « […] è un mondo di sbagli, di allucinazioni, di torpori, di rigiri a vuoto, in cui s’incontra di tutto e ben di rado la pepita, il ramo d’oro »45. Oltretutto, lo stesso Zanzotto allude qui al fatto che la poesia si pone nel segno della serendipità:

Ogni poesia « funziona » quando e dove vuole, quando e dove può; l’incontro con essa da parte del singolo o di gruppi avviene secondo spinte inavvertibili e inclassificabili, secondo una « simpatia » personalissima che ancora Spitzer ha chiamato con la parola « clic »46.

Se riprendiamo ora la metafora della poesia come sistema cosmico, possiamo anche dire che questi due componimenti si siano persi come in una traslazione da un sistema stellare a un altro. Oppure, per riprendere l’immagine di Zanzotto evocata all’inizio di questa analisi, possiamo dire che sono stati in certo modo « rimessi nel cassetto », da cui usciranno forse di nuovo.

E per quanto riguarda il traduttore, egli ha scelto di « recuperare » uno solo dei due, proprio mentre, seguendo la sua analisi del binomio figurale ch’egli vede in fieri fin da Vocativo, questi due componimenti dovrebbero funzionare di pari passo. L’altro residuo si è in certo qual modo perso nel viaggio dall’orbita italiana all’orbita francese (orbite testuali, s’intende), pure lui ... lost in translation47.

Dietro il paesaggio (1951)
Vocativo (1957)
IX Ecloghe (1962)
La Beltà (1968)
Gli sguardi, i fatti e senhal (1969)
Pasque (1973)
Filò (1976)
Il Galateo in bosco (1978)
Fosfeni (1983)
Idioma (1986)
Meteo (1996)
Sovrimpressioni (2001)

Note de fin

1 L’idea di poesia come « stella variabile » viene ovviamente da Vittorio Sereni, a cui Andrea Zanzotto dedica almeno due saggi nel volume Scritti sulla letteratura II (Aure e disincanti nel Novecento letterario), Milano, Mondadori, 2001, intitolati « Gli strumenti umani » (p. 37-49) e « Per Vittorio Sereni » (p. 50-53), rispettivamente scritti nel 1967 e nel 1991.

2 Il verso 5 con l’allusione a « amori troppo in atto » rinvia all’« amore dell’essere » espresso nel « Morèr Sachèr » di Meteo (1996).

3 Cfr. Edmund HUSSERL, Ideen zu einer reinen phaenomenologie (1913).

4 Il componimento inizia col verso « Perché cresca l’oscuro », espressione ripresa poi più volte nel corpo della poesia.

5 Cfr. Andrea ZANZOTTO, « Una poesia, una visione onirica », Le Poesie e Prose scelte, Milano, Mondadori, 1999, p. 1292.

6 Cfr. Andrea ZANZOTTO, « Autoritratto » (1977), Le Poesie e Prose scelte, op. cit., p. 1209. E anche : « Coloro che hanno scritto, diciamo una “poesia”, molto spesso, io credo, hanno avuto la netta sensazione di una cesura tra il momento in cui pensavano di poterla scrivere, quello in cui l’hanno vista scritta subito dopo, e quello in cui sono diventati veramente lettori dei propri versi o eventualmente elaboratori di articolate poetiche e di teorie sulla poesia » (in « Tentativi di esperienze poetiche (poetiche-lampo) » (1987), Le Poesie e Prose scelte, op. cit., p. 1311).

7 Il vocabolo « serendipity » venne usato per prima da Horace Walpole (1717-1797) nel suo commento al libro I tre principi di Serendip (Serendip è un altro dei nomi dell’isola di Ceylon) ed è legato a una ricerca di senso che porta a elementi che non erano a priori ricercati.

8 Andrea ZANZOTTO, Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura, Roma, Nottetempo, 2007, citazione a pagina 47. L’opuscolo contiene una serie di conversazioni tra il poeta, Laura Barile e Ginevra Bompiani, in cui Zanzotto evoca vari pensieri intorno alla poesia, alla vita, all’esistenza. D’altra parte, vi vengono svelati tre componimenti inediti dai titoli « Altri 25 aprile » (p. 54-55), « Giorno dei morti 2 novembre 2033 » (p. 60), « De senectute » (p. 88).

9 Andrea ZANZOTTO, nota a Meteo, Roma, Donzelli, 1996, p. 81.

10 La citazione è di Vittorio SERENI (in Pantomima terrestre), proposta da Andrea Zanzotto nel saggio « Gli strumenti umani », Aure e disincanti nel Novecento letterario, op. cit., p. 39. Cfr. anche, tra altri esempi possibili, i versi conclusivi all’« Ecloga VII »: Perché la luce non ha che la luce / a esplicarla, nel suo / attimo » (IX Ecloghe).

11 Una delle componenti della sfera poetica di Zanzotto è che il mondo si dia a vedere come una totalità di « fatti atomici », sull’orlo della disgregazione ; il linguaggio riproduce « l’immagine logica » dei fatti, secondo il punto di vista della filosofia del linguaggio di Ludwig Wittgenstein. Tra la prima e la seconda « stagione poetica » di Zanzotto (per certi aspetti « paesaggistici », la terza, a partire da Meteo, potrebbe essere intuita come un ritorno alla prima) il punto di vista e il linguaggio della percezione del paesaggio sono cambiai e danno a vedere la disgregazione in atto, la rovina della natura in atto.

12 Cfr. Stefano DAL BIANCO, « Profili dei libri e note alle poesie », Meteo, in A. Zanzotto, Le Poesie e Prose scelte, op. cit., p. 1668.

13 Cfr. Andrea ZANZOTTO, « Là sovente nell’alba », « Elegia pasquale », « Balsamo, bufera », « L’amore infermo del giorno », « Equinoziale » e, ovviamente, « Dietro il paesaggio ».

14 Andrea ZANZOTTO, nota a Sovrimpressioni, Milano, Mondadori, 2001, p. 133.

15 L’espressione è ovviamente quella dello scultore, pittore e poeta Michelangelo Buonarroti.

16 Jacques ROUBAUD, Poésie :, Paris, Gallimard Seuil, 2000.

17 Cfr. Jacques ROUBAUD, op. cit., p. 51sg. (Chapitre 2, « An climatérique »).

18 Cfr. il discorso di Zanzotto e la sintesi transitoria di Ginevra Bompiani (in data del 18 agosto 2006) in Andrea ZANZOTTO, Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura, op. cit., p. 32-36.

19 Il concetto di « rizomatico » (sviluppato e teorizzato da Gilles Deleuze) è stato evocato più particolarmente da Andrea Zanzotto nel saggio « Qualcosa al di qua e al di là dello scrivere » (pubblicato nel 1979 nella rivista Il Castoro, poi in Le Poesie e Prose scelte, Milano, Mondadori, 1999, p. 1226) e da Jacques Roubaud in Poésie : (Paris, Gallimard, 2000, p. 63-72).

20 Ovviamente, si allude qui alla rete costituita dai libri di Roubaud che costruiscono la sua opera autobiografica (ciò che egli chiama Le Projet) inaugurata nel 1989 da Le Grand incendie de Londres e che prosegue con La Boucle (1993), Mathématique : (1997), Poesie : (2000). Roubaud evoca il suo « progetto » in quanto « […] un roman qui, sous le vêtement d’une transposition dans l’imaginaire d’événements inextricablement mélangés de réel, en aurait marqué les étapes, dévoilé ou au besoin dissimulé les énigmes, éclairé la signification » (Le Grand incendie de Londres, Paris, Gallimard, 1989, p. 7).

21 Cfr. « Epilogo. Appunti per un’ecloga » (IX Ecloghe), oppure « Possibili prefazi o riprese o conclusioni » e « Profezie o memorie o giornali murali » (La Beltà).

22 Stefano DAL BIANCO, « Commentare Zanzotto », Filologia e commento : a proposito della poesia italiana del XX secolo (a cura di R. Castagnola e L. Zuliani), Firenze, Franco Cesati editore, 2007, p. 80-81.

23 La data e il luogo alludono esplicitamente al disastro della diga del Vajont. Cfr. anche la glosa di Zanzotto nel saggio « Una poesia una visione onirica ? » del 1984, in cui il poeta evoca l’importanza di quel componimento-glifo « […] perché portava in sé un groviglio di tracce di “forti” realtà, tanto più instanti perché rimaste sepolte dentro un ben povero fatto visuale, una scarsità, una pochezza » (Le Poesie e Prose scelte, op. cit., p. 1288) : espressione in cui si riconosce un’affinità con la ricerca di Roubaud e « […] l’imaginaire d’événements inextricablement mélangés de réel » citato prima.

24 « Microfilm » è in certo qual modo, e secondo le dichiarazioni dello stesso Zanzotto, un « glifo » di sogno-trauma, trauma che rimanda certamente ad altri traumi subiti anteriormente nella vita del poeta (cfr. alcuni racconti di Sull’altopiano, di cui almeno due suggeriscono una ferita traumatica).

25 Jacques ROUBAUD, Poésie :, op. cit., p. 65: « [...] infatti, il sogno si verifica simile a un albero a cui sono state tagliate numerose radici: le parole che lo costituiscono ora hanno perso il potere di richiamare altri ricordi contemporanei, che proprio per questo mi sono diventati irragiungibili, per lo meno direttamente. Ma ricordo (o mi pare di ricordare) che nei paraggi del sogno ci fosse altro di quello che posso ritrovare oggi, e che dirò ora. Non ci posso fare nulla se non sperare che per via d’un miracolo, il semplice atto di dire li inciterà ad uscire a scoperto da quelle ombre dietro delle ombre dove sono nascosti. » (traduzione mia). Roubaud propone inoltre (Poésie :, op. cit., p. 72) una concezione del tempo umano e del tempo della poesia per il tramite di una figura matematica (una specie di « ipercilindro » sul quale s’avvolge una « spirale temporale »).

26 Andrea ZANZOTTO, « Intervento » (1981), in Le Poesie e Prose scelte, op. cit., p. 1281.

27 Andrea ZANZOTTO, « Uno sguardo dalla periferia » (1972), in Le Poesie e Prose scelte, op. cit., p. 1159.

28 Andrea ZANZOTTO, « Una poesia, una visione onirica ? », in Le Poesie e Prose scelte, op. cit., p. 1293.

29 Cfr. Stefano DAL BIANCO, « Profili dei libri e note alle poesie », in A. Zanzotto, Le Poesie e Prose scelte, op. cit., p. 1667, quando parla della nozione di « tense » nella lingua inglese, rispetto alla nozione di « time ».

30 Cfr. per esempio l’« […] imprescindibile forza, di orientamento-disorientamento, di rigetto-innovazione » di cui parla Zanzotto nel saggio del 1976, « Poesia ? » (Le Poesie e Prose scelte, op. cit., p. 1203), ma anche il componimento « Retorica su : lo sbandamento, il principio “resistenza” », III, in La Beltà.

31 Cfr. Andrea ZANZOTTO, « Tentativi di esperienze poetiche (poetiche-lampo) », Le Poesie e Prose scelte, op. cit., p. 1315.

32 Andrea ZANZOTTO, Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura, op. cit., p. 38.

33 Cfr. Eugenio MONTALE, « […] il tenue bagliore strofinato / laggiù non era quello di un fiammifero », « Piccolo testamento », La bufera, in E. Montale, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1984, p. 275.

34 Cfr. Andrea ZANZOTTO : « Comunque la vita, […] e con essa la lingua conserverà la sua pulsione a perdurare e a fare sempre nuovi impasti a castelli di sabbia, nonostante la deriva dell’entropia […] » (« Tra passato prossimo e presente remoto » (1999), Le Poesie e Prose scelte, op. cit., p. 1374).

35 Cfr. tra varie citazioni possibili IX Ecloghe con « l’informale sete d’esistere » (« Prova per un sonetto ») o « L’anancasma che si chiama vita » (« Epilogo »).

36 Cfr. Andrea ZANZOTTO, « Tentativi di esperienze poetiche (poetiche-lampo) », op. cit., p. 1311 : « [i poeti] spargono ovunque nei loro testi quelle poetiche-lampo, quelle minime-massime autogiustificazioni o “rivelazioni”, le dissimulano al modo di certi animali che possono nascondere ciò che raccolgono di più prezioso, ad esempio il cibo (come gli scoiattoli) o ciò che “producono” di meno prezioso (come i gatti) ».

37 Andrea ZANZOTTO, « L’attimo fuggente » (IX Ecloghe). La « coazione » esprime tensioni, costrinzioni (interne, indipendenti da cause esteriori).

38 Andrea ZANZOTTO, « Vissuto poetico e corpo », (1980), in Le poesie e prose scelte, op. cit., p. 1249.

39 Cfr. il componimento intitolato « Notificazione di presenza sui colli Euganei » nella raccolta del 1957, IX Ecloghe.

40 Cfr. Andrea ZANZOTTO, « Profilo dei libri e note alle poesie », in Le Poesie e Prose scelte, op. cit., p. 1680. La poesia « Sedi e siti » è stata pure pubblicata in una bella plaquette illustrata da Salvatore GARAU, Abbeveratoi, vacche e giallo / Sedi e siti (fotografie di Amos Parlatini), Modena, Roberto Monti editore, 1990.

41 Philippe DI MEO, Andrea Zanzotto. Du Paysage à l’idiome. Anthologie poétique 1951-1986, Paris, Maurice Nadeau/Editions UNESCO, 1994, p. 18 (« proporre uno spaccato convincente di un’opera […] attraverso le sue poesie più rappresentative »).

42 Le citazioni sono tratte dalla prefazione di Philippe DI MEO alla sua antologia Du Paysage à l’idiome, op. cit., p. 13-19.

43 Così, l’« Ipersonetto » de Il Galateo in bosco, « […] tout en respectant pointilleusement les règles de composition de cette forme, se pare d’un contenu qui vient la démentir » (Ph. Di Meo, Du Paysage à l’idiome, op. cit., p. 16.

44 Philippe DI MEO (in un’intervista pubblicata in Prétexte 14/15) evoca per esempio il fatto che Zanzotto « […] redéploie sa langue à chaque recueil avec beaucoup de naturel. Entre tendresse et violence, chez lui les mots se laissent envisager dans leur association soudaine, confondus à un espalier phonique qui, vers après vers, comme vague après vague, giflent et bercent. Comme Gadda, il se méfie du mot. C’est pourquoi il l’exalte paradoxalement pour finir par mimer le tissage du poème dans et par une mobilité de tous les instants tenant, pourrait-on dire, de la motricité infantile transportée au verbal ». Anche Zanzotto ha evocato più volte l’atto poetico in quanto « cucitura ». Per l’intervista di Philippe di Meo [http://pretexteed.free.fr/revue/entretiens/entretiens-traducteurs/entretiens/philippe-di-meo.htm].

45 Andrea ZANZOTTO, « Autoritratto » (1977), Le Poesie e Prose scelte, op. cit., p. 1206 e 1208.

46 Andrea ZANZOTTO, « Poesia e televisione » (1988), Le Poesie e Prose scelte, op. cit., p. 1329.

47 L’espressione è del poeta Robert FROST (« Poetry is what get lost in translation ») ed è usata qui in quanto omaggio a Pascal Gabellone, il direttore per la mia tesi di dottorato sull’opera poetica di Andrea Zanzotto (Montpellier, 2002).

Citer cet article

Référence électronique

Jean Nimis, « Le « stelle variabili » di Andrea Zanzotto », Line@editoriale [En ligne], 1 | 2009, mis en ligne le 30 décembre 2020, consulté le 27 avril 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/165

Auteur

Jean Nimis

Il Laboratorio (EA4590) Toulouse

jean.nimis@univ-tlse2.fr

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