L’esperienza originaria del dire: note sulla ricerca letteraria di « Anterem »

Résumés

La rivista letteraria « Anterem », con le sue cinque serie dal 1976 fino ad oggi, è votata all’esperienza originaria del dire, della poesia come apparizione-scomparsa di una parola che precede il pensiero. Si potrebbe anche definirla in quanto « susurro » o respiro. Il movimento della scrittura è pure una forma di « respiro » fra costruzione e de-costruzione, fra voce e silenzio. Il nome « Anterem » significa appunto quell’ideale condizione arcaica dove trovano origine contemporaneamente la percezione e la parola.

The literary revue « Anterem », with its five cycles from 1976 up to now, is dedicated to the original experience of saying. This is a pursuit of the original word, which is before the thought. It would be better to call it « whisper » which expresses itself as a breath and may be found in poetry. Poetic word tries to recreate the coexistence between voice and silence. The poet, going to the origin of this laceration between opposites, tries to obtain a concordance in order to find a further meaning.

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Texte

L’esperienza originaria del dire

Ogni parola, se sappiamo ascoltarla, chiama dall’essere silenzioso delle cose. Intorno al mistero del silenzio – e al sussurro che dal silenzio si leva a ogni inizio del tempo – tesse la sua frase e procede verso il dire.

Quella frase è terra di frontiera tra le cose e l’uomo. In questo « tra » la parola non contiene più solo la parola, ma anche il silenzio, e le cose permangono nella loro originaria vitalità.

Il dire, allora, è luogo della coincidenza tra silenzio del possibile e sussurro, ma è anche luogo della metamorfosi, che si aggiunge alla creazione del mondo per sostanziare la vita.

Essere chiamati alla parola significa dover dire per poter essere.

Ecco perché la via alla parola non conduce semplicemente da un luogo a un altro, da un senso all’altro, ma ci porta ad appartenerle.

Ma quale parola? Blanchot la indica così: « Quella parola monotona, distanziata senza distanza, che afferma al di sotto di ogni affermazione, impossibile da negare, troppo debole per essere taciuta, troppo docile per essere padroneggiata, che non dice qualcosa ma soltanto parla, parla senza vita ».

La parola di cui ci parla Blanchot non arretra di un passo dinanzi al sensibile, e nello sperimentarlo è suscettibile di autenticità. Questa parola sfida la lingua a nominare il silenzio della vita, istituendo quel colloquio originario in virtù del quale ascoltare e dire trovano la loro unità.

Il pensiero, finalmente, è la stessa cosa del sangue che bagna il cuore. Nella parola che lo forma c’è il mistero della consonanza col mondo, non « figura » ma essenza delle cose. Una parola « delebile », sottratta alla coscienza per mettere in essere le cose, così come annuncia la pagina rilkiana: « Terra, non è questo ciò che vuoi, / invisibile risorgere in noi? ».

L’esperienza originaria del dire impone di affidarsi a una vista superiore (epopteía, « guardare al di sopra »): per testimoniare così dove finisce il silenzio e comincia il sussurro; dove, alla minaccia del pericolo, sopraggiunge il grido.

In questi orizzonti del dire alcune forme appena accennate si sollevano e galleggiano. Altre forme relittuali svaniscono. Sono presenze che gravitano brevemente intorno al proprio centro, per poi essere cancellate da forze esterne, come accade nell’ultimo Celan, nel suo frammentare, rinumerare, fare a pezzi la lingua, balbettando, brancolando a tastoni.

Nel dire, sulla pagina viene ripetutamente consumata una apparizione-dissolvenza di quel « sussurro » che, come annota Mandel’stam « nacque forse già prima delle labbra » e che nulla sa di quello che lo precede e lo segue, pur testimoniando, come precisa Blanchot, « il trattenersi delle cose nel loro stato latente ».

I nuclei alfabetici del dire, in sé compiuti, incomunicabili fra loro e non configurabili in un discorso, mostrano che viviamo per frammenti espressivi. Le frasi che pronunciamo non si allargano in periodi e il periodare, quando si verifica, non ha la capacità di dare impulso a un discorso totalizzante.

Nel dire accade il ritrarsi e il salvaguardarsi dell’essere; il suo manifestarsi, nel suo sorgere come nel suo svanire.

Il dire fonda un abitare in cui si danno convegno le parole colte nell’atto di assentire alle cose e non a una rappresentazione tranquillizzante delle stesse.

È grazie a questo universo che la parola è parola. Una parola prima del pensiero, alla quale il nome « parola » forse non conviene più. « Sussurro », magari, che si esprime nella forma elementare del respiro e dunque della vita.

Proprio quel respiro che si sottrae per sua natura alle parole ha voce nella poesia.

Il dire sorge da quello spazio vuoto che la poesia è andata a occupare con il suo respiro, compiendo l’isolamento inaudito della parola e assegnando a essa, per la sua intransitività, la chiave della propria decifrazione.

La parola vive di vita propria. È per essa che qualcosa giunge a stare di fronte. Il dire è sempre, in primo luogo, ascolto della parola che a noi si rivolge per essere accolta.

L’esperienza originaria del dire consiste nel restituire la parola a quanto è stato costretto a tacere, per un ascolto fedele di ciò che chiede di essere tratto dal silenzio, ovvero la parte non significabile che abita l’ombra di ognuno. Proprio come si chiede Bonnefoy: « C’è qui, sull’orlo di chi siamo, un impensato da capire? ».

Questa parte oscura del dire è la nostra fonte. « Al di là della parola riluce il silenzio » annota Resenzweig. E aggiunge: « Dio stesso sta lì, redento dalla sua stessa parola. Tace ».

La traduzione del silenzio non si può stabilizzare in alcuna forma: il movimento della scrittura conduce la frase ogni volta a strutturarsi e a disgregarsi. In quel culmine si colloca per un momento la poesia.

L’ascolto

Il lavoro di ricerca di Anterem ha le sue fondamenta nella grande poesia europea e in quella tradizione che tiene conto di tutti quei processi interiori dove positivo e negativo, ascesa e caduta, appropriazione e rinuncia convivono indissolubilmente. Non è forse vero che la scrittura è definita dall’azione simultanea di due movimenti di senso opposto? Ecco perché il poeta nomina un permanere che è anche un andare verso, perché la parola divenga ciò che è.

Le cinque serie lungo le quali fin qui si articola il cammino di conoscenza di Anterem corrispondono alle diverse strategie messe in atto per giungere a nominare la parola inaugurale, quella parola (poetante e insieme pensante) che abbia recuperato tutto il suo primitivo valore, le sue native potenzialità di creazione della cosa, di creazione del mondo.

« Ricerca » quale tensione indeponibile che conduce dall’ascolto all’ascolto pensante, in una dislocazione che richiede una sospensione di ogni abitualità di senso. Un modo che vuole essere un leggero circondare – come salvaguardare, come custodire – non un possedere, non un rinchiudere nel concetto.

È una ricerca che ha le sue radici nella Grecia arcaica dei Nomothetes e della Scuola ionica, per inoltrarsi con decisione nell’aperto a cui conducono le strade tracciate nell’ultimo millennio da Arnaut (le sestine), Petrarca (Fragmenta), Scève, Ariosto, Ronsard (Sonnets pour Hélène), Nerval, Jean de Sponde, Hölderlin, Rimbaud (Illuminations), Mallarmé, Rilke, Ungaretti, Char, Celan, Zanzotto.

Il nome Anterem

Il nome Anterem nasce porgendo attenzione al valore originario della parola, chiamata a essere il luogo di raccordo tra sensibilità e percezione. Questa espressione fa cenno all’«= 0» hölderliniano (Il significato delle tragedie) che a sua volta evoca l’« uguale a zero » di Sofocle (Edipo re).

Altri riferimenti si trovano nelle « archai » che Nietzsche colloca nel « sottosuolo della storia » (Umano, troppo umano) e che Deleuze e Guattari affidano a quella parola rizomatica (Rizoma) a cui è dedicata la prima serie della rivista.

Ma l’opera su cui esplicitamente fa presa il nome Anterem è la Scienza nuova di Vico, dove leggiamo: « Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso, ed è propietà de’ fanciulli di prendere cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologico-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti ».

Sarà lo stesso Vico a citare a questo proposito una riflessione di Spinoza: « La fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio ».

Il nome Anterem, dunque, si riferisce alla parola che non è ancora il corrispettivo della cosa designata. Si rivolge, alla parola che precede le forme tipiche della riflessione. Alla parola che ancora non ha varcato quel limite oltre il quale la rappresentazione del mondo comincia a scindersi in classificazioni.

La questione che il nome Anterem custodisce è questa: è ancora possibile dare vita a una parola in grado di nominare ciò che ancora non è stato pensato? è ancora consentito al poeta di collocarsi, con la sua voce, nel luogo della nascita delle parole, dove ancora le cose non ci sono e le parole sono ancora un « prima », un ante rispetto alla cosa?

La stessa fusione dei due termini « ante » e « rem », con lo spostamento dell’accento tonico, vuole mostrare graficamente quel tratto dove sentimento e ordine razionale vengono a costituire qualcosa di unico e indivisibile. Quel tratto dove viene portato a parola il taciuto, ripristinando l’inaugurale coappartenenza tra silenzio e voce. Il silenzio da cui la voce è nata e che in sé la voce continua a custodire.

Detto altrimenti: ci sono espressioni chiamate a registrare mutamenti della sensibilità e del pensiero. Anterem è una di queste e comincia a fare problema già nel vocabolo che individua il concetto, ossia nella fusione dei due termini un una parola nuova. Una parola che evocando ciò di cui è il « prima », ossia la « cosa » stessa, ospita il nemico dentro le proprie mura.

La parola rizomatica

La prima serie (1976-78) nasce per una letteratura « senza generale » e all’insegna del comandamento di Kant: Sapere aude, osa servirti del tuo intelletto.

Evidente il riferimento a Rizoma di Deleuze e Guattari, volume pubblicato proprio l’anno della fondazione della rivista, nel 1976.

La serie ha per nome La parola rizomatica. Aperti in squarci.

Vanno a questo proposito ricordate le parole di Silvano Martini (uno dei fondatori di Anterem) sul concetto di letteratura rizomatica, perché costituiscono un vero e proprio programma per la prima serie:

L’albero e il rizoma sono strutture che stanno a indicare due tipi opposti di letteratura. Cos’è un rizoma? Un fusto sotterraneo di piante erbacee perenni, simile a una radice. L’albero, invece, possiede un fusto esterno al terreno, che poggia su radici e si espande in rami. La letteratura arborea è centrica. Quella rizomatica è acentrica. Nella prima tutto si svolge tra vertice e base, in rapporto di chiara concatenazione e di rigida dipendenza. Nell’altra, ogni svolgimento è base e vertice insieme, e tutti gli svolgimenti hanno la medesima importanza. La letteratura rizomatica permette qualcosa di specifico che normalmente non si dà: il collegamento di un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi della sfera vitale. La cultura, così considerata, è una cultura « senza generale ». Questo significa che la circolazione del senso ha una libertà illimitata. La possibilità di generare innumerevoli centri di discorso sopprime la possibilità contraria dell’instaurazione di un centro egemone. Il policentrismo è la moltiplicazione insopprimibile dell’unicentrismo. Siamo in una specie di presente immobile. Il tempo vissuto non si palesa più come distacco da un passato e scorrimento verso un avvenire. Ma come in uno stato di indistinzione. Una sospensione piuttosto che un fluire. Che cosa si propone una letteratura di questo genere? La distruzione di qualsiasi tabella assiologica immutabile. O la rinascita senza interruzione, sotto altra specie, di queste stesse tabelle. La difesa di questa strenua e cosciente anarchia dei sentimenti e delle sensazioni vorrebbe preservarci dal consolidamento dell’innaturale. Uno stato esistenziale come libera pulsione è uno stato di sempre rinnovata scoperta. È l’occhio non appannato davanti alla scena del mondo. O l’occhio che muta direzione prima dell’intervento mortificante dell’assuefazione. Una letteratura fondamentalmente anarchizzata, ma non priva di controlli, dovrebbe garantirci quella costante possibilità di fuga dall’artiglio delle cose, che consenta alla nostra esperienza di mantenersi cangiante. La perdita della centralizzazione burocratica di una letteratura a congegni unidirezionali e inalterabili dovrebbe farci recuperare tutti gli strati dell’essere: da quello ideativo a quello subcoscienziale.

Queste riflessioni – pubblicate sul n. 7 (aprile 1978) della rivista rivelano che è svanita l’idea di un centro unitario che rappresenti un riferimento sicuro per la nostra esperienza.

Precisano che nel corso di ogni nostro atto siamo davanti a un insieme di pulsazioni luminose che generano costellazioni variabili sia per forma sia per intensità. Osservate dal poeta esse compongono disegni che un altro occhio determinerebbe in modo diverso. Sono le figure sotterranee della nostra anima: quasi un olimpo rovesciato che ha più familiarità con i demoni che con gli dei.

Ebbene, il lettore di poesia deve riuscire ad accogliere il presupposto che a lui solo e a nessun altro in sua vece spetta il compito di mettere a fuoco queste costellazioni del senso. Egli deve sottrarsi a un potere che lo vuole docile a un senso precostituito – ovvero indaffarato, tra il tintinnio delle monete e l’apatia del pensiero – e conferirsi in assoluta autonomia un potere, dandosi un tracciato da seguire.

Forme dell’infrazione

Il programma della seconda serie di Anterem (1978-83) consiste nell’elaborare nuove strutture di pensiero e dare vita a forme espressive adeguate a parlarne. È il periodo « sperimentale » della rivista, durante il quale viene svolto un grande lavoro intorno allo svuotamento della parola (con preciso riferimento a Mallarmé), alla sia frammentazione (tenendo conto del pensiero di Nietzsche), alla sua connessione con la caducità (Kafka). Il nome della serie è Forme dell’infrazione.

Viene seguita alla lettera l’indicazione di giungere all’unità preriflessiva, prelogica della parola. A contatto con le nostre ombre interiori.

L’inexplicable dispiegato è già la nostra instabile e provvisoria dimora. Dietro di sé non ha il verbum divino, ma l’ingens sylva dello stato demonico arcaico. Lo ricorda Gabriella Drudi: « Noi non siamo soli al mondo – e gli animali che ci portiamo dentro possono sempre divorarci o leccarci la mano ».

La rivista si dà con questa serie due occhi esterni e uno interno; un piede nel firmamento e uno sottoterra. Inizia a far segno, con Sofocle e Hölderlin, allo zero, quale effetto di una cancellazione che lo precede. Ricordiamo questi versi di Sofocle, tratti dal suo Edipo re: « Ah generazione dei mortali, / uguale a zero [isa kai to meden] / valuto la vostra vita »; torneranno nel Significato delle tragedie di Hölderlin: « […] dal momento che il segno, in se stesso privo di significato, viene posto = 0, anche l’originario, ovvero il fondo nascosto di ogni natura, può allora farsi presente. Se la natura propriamente si fa presente nella sua più debole modalità, così quando essa si fa presente nella sua più forte modalità, il segno è = 0 ».

Cominciamo qui a « dire la vita » (tema esplicitamente ripreso con il n. 76 della rivista, giugno 2008). Qui comprendiamo che per farlo è necessario uno sguardo micrologico come propone Adorno in una riflessione ripresa da Rella. Scrive Adorno: « Lo sguardo micrologico spezza la scorza di ciò che è irrimediabilmente individuato in base al concetto superiore che lo assume in sé e fa saltare la sua identità, l’inganno che esso sia soltanto un esemplare. Questo pensiero è solidale con la metafisica nell’attimo della sua caduta ».

Il nostro compito, conferma Rella, consiste oggi nel « cercare di stabilire un ponte, una connessione possibile tra pensiero ed esistenza, tra pensiero ed esperienza. Percorrendo a fondo questo compito si incontra il paradosso che proprio l’esistenza, l’essere dell’individuo e l’essere della cosa, la nudità assoluta dell’ente si propone come un al di là del linguaggio, e dunque come l’impensabile e l’indicibile di una vera e propria paradossale istanza metafisica ».

La poesia mette la propria presenza in contatto perenne con il segreto del mondo.

Ecco perché fondamentale diventa oggi il compito al quale sono da sempre chiamati i poeti: guarire le parole.

Noi pronunciamo parole riflesse, consapevoli come siamo del nostro destino di esseri senza dimora. Parliamo parole seconde, derivate, che non creano ma interpretano parole che derivano da altre parole ancora: le parole prime pronunciate dai nomothetes, i sapienti antichi che con la nominazione dei luoghi e delle cose crearono il mutevole orizzonte del mondo.

La lingua delle origini è tramontata e con essa la sua capacità di creare. Il poeta avverte questa lontananza e ne soffre. Così come patisce l’estraneità del presente.

Ecco perché cerca di pronunciare una parola che non rispecchi semplicemente eventi e cose, ma faccia segno all’unità preriflessiva e preconcettuale che ha preceduto il pensiero cosciente e razionale.

Ecco perché lascia riaffiorare nelle parole riflesse ciò che resta in esse di non detto, consentendo l’emergere di un dire che ci preesiste: quella vera narratio vichiana, dove fantasia e conoscenza sono una cosa sola. Giungendo a codificare nella frase poetica non solo un’espressione artistica, ma anche vere e proprie forme di sopravvivenza.

Il richiamo originario conduce il poeta nel regno del caos, dove il cosmo è disordinato e la forza del mysterium si muove liberamente tra elementi bestiali, demonici, metafisici, titanici. Qui il poeta scopre che quella prima età non è caratterizzata solo da tenebre e terrore, ma anche da « quella purissima fanciullezza in cui verità e menzogna, realtà e sogno non si distinguono l’uno dall’altro », come registra Blumenberg.

Le ragioni della poesia

Il nome della terza serie (1983-93) è Le ragioni della poesia. Qui viene propugnato uno sguardo che muova dalla poesia, dal pensiero nascente.

Qui si parla della responsabilità etica del poeta chiamato a corrispondere al testo.

Qui si afferma che il poeta è colui che parla dal linguaggio e che cerca di condurre il lettore alla convergenza del sapere con l’inconosciuto. Su quel confine spetterà a chi legge individuare la soglia.

In questa serie viene ricordato che il poeta in fondo ha un solo compito, ma capitale: spingersi fino al limite del dire oltre il quale ha luogo la contesa originaria che nomina l’iniziale differenziarsi del tutto.

La poesia e quella parola che la costituisce non appartengono dunque al poeta perché non è lui a deciderne il senso, in quanto, come scrive Hugo, il poeta sa soltanto in parte, a volte in minima parte, ciò che la poesia finirà col dire al lettore. Ignora quale dimora prenderanno i suoi versi.

La parola del poeta conduce in realtà all’ascolto di se stessi e non della poesia. Ecco perché la parola che stiamo ascoltando è vicinissima a ciò che siamo. Ecco perché scopriamo che non c’è diversità tra quella parola e il silenzio che porta diritto a noi stessi. La poesia, come suggerisce Paul Celan, è « forse soltanto uno sviamento che porta da te a te ». Tale riflessione è molto importante. Sarà in questo « sviamento » che il lettore si collocherà. Questo « sviamento » nasce dal desiderio di dare respiro al respiro della parola; scaturisce dalla necessità di far risuonare il silenzio originario, quel silenzio da cui ognuno di noi proviene e nel quale ciascuno, leggendo, torna a dimorare.

Il poeta dunque è colui che chiama dal silenzio. E invita il lettore a testimoniare il limite e a toccare i bordi dell’essere.

Il senso di quanto il poeta sta per dire ancora non c’è in nessun luogo. L’ascolto di quella parola impone davvero di mettersi in viaggio verso se stessi.

Con Le ragioni della poesia, la rivista Anterem torna a sospendere la frontalità tra poesia e pensiero, giungendo a imporre al poeta di esporsi alla necessità che lo ha fatto pensare; di affidarsi a nomi declinati come elementi naturali, anteriori alle distinzioni fra soggettivo e oggettivo; di aprirsi un varco verso ciò che resta di impensato.

Ci domandiamo: è ancora praticabile un respiro poetico che viva unito alla filosofia e alla scienza in virtù della necessità e, come chiede Zambrano, « in un’unità tanto intima e autentica da risultare invisibile »? È ancora configurabile un nesso tanto preciso tra sentire, parola e pensiero da cogliere in tutta la sua forza la lacerazione tra l’uomo e il mondo?

La possibile definizione di essere pensante è questa: un essere che non si lascia pensare da un altro essere o da una macchina. E la poesia? La possibile definizione di una poesia pensante è questa: una poesia che non si lascia pensare da un’altra istanza.

Chi lo può negare? Il pensiero della poesia non è più il pensiero della filosofia, dell’estetica, della critica letteraria, ma un pensiero che parte dall’opera stessa. Non solo. Il pensiero che parla dalla poesia è un pensiero che non può aver dimenticato di essere originariamente poesia.

Va rimessa in circolazione l’idea di una poesia che si costituisca nei confronti delle cose come esposizione e ascolto senza mediazioni. E questo perché la parola non abbandoni totalmente l’inquietudine dell’enigma per la quiete della ragione.

Per la parola poetica non si tratta di afferrare le cose, come vorrebbe la ragione, ma di incontrarle. Nominando la cosa, la poesia le assegna il suo destino così come lo assegna a se stessa.

Figure della duplicità

La quarta serie della rivista (1993-2001) è dedicata alle Figure della duplicità.

In queste pagine viene, sì, ribadito che nell’alleanza tra parola poetica e parola cognitiva sta la strada percorribile per l’esperienza di pensiero del poeta; ma si annuncia altresì che ulteriori e decisivi spostamenti vanno compiuti. Utili a introdurci in una tonalità poetica complessa e rischiosa. In una pratica della scrittura di cui non è agevole immaginare i contorni e gli esiti. Uno scrivere che della parola sconvolga i margini, alteri i limiti e mostri le irrisolte contraddizioni. Uno scrivere che si volga alla produzione di segni di nascondimento, dove la parola produca i termini del silenzio da cui trae origine.

Diciamo subito che il cammino di pensiero che cerca di esporsi da se stesso sull’orlo dell’enigmaticità, e di corrispondere all’evento della risposta come evento sempre originario, è ancora lungo.

Ma cominciamo intanto a prendere distanza da una fisica del puro sentire e del mero pensare. Con l’auspicio che non vada confusa la kantiana « assenza di finalità » della letteratura con l’assenza di « responsabilità ».

Responsabilità che va cercata nell’altrimenti di una scrittura che non proceda pietrificando le cose nei concetti e nelle idee. E che si faccia carico di un compito non più solo estetico, ma anche etico. Che concepisca la duplicità – quell’inaugurale, arcaica convertibilità di presenza e assenza, essere e nulla, bene e male, che è la libertà – senza la sopraffazione di un potere. Ed elabori un pensiero che oltre il potere sia pensabile, e sia rivolto alla verità dell’uomo, del suo essere al mondo, del mondo stesso.

Ogni opera milita sempre per una certa parte: prende partito, insomma. In generale, la poesia è un’obiezione contro questa realtà.

Come Anterem intenda la duplicità viene messo in rilievo nel numero dedicato all’Endiadi (n. 59, dicembre 1999).

Endiadi, hén diá dyóin, uno per mezzo di due: non una generica ambiguità, ma l’endiadi, la vera e propria irriducibile compresenza del due-in-uno. S’impone, con questa figura della duplicità, la controversa questione sul senso che nel testo si articola quando nella parola viene ripristinata l’inaugurale coappartenenza tra voce e silenzio, mantenendo ferma la differenza che il mondo, costituendosi in categorie, sopprime. Ciò che gli uomini non intendono, ci dice Eraclito, è il coincidere degli opposti. Per loro ciò che diverge non può nel medesimo tempo convergere. In realtà, la parola poetica concorda con se stessa proprio mentre da se stessa discorda. E ce lo dimostra conducendoci proprio dove i contrari sono complementari e gli opposti si richiamano. Dove l’uno contiene in sé anche il suo contrario ed è un’endiadi.

Portarsi all’origine di questa lacerazione significa esattamente cogliere la coscienza umana al suo sorgere, il formarsi dell’essere come custode della differenza. Fino a riconoscere l’Altro da sé e mantenerlo nella sua alterità, ottenendo dall’opposizione un accordo.

Ma com’è pensabile l’armonia dei differenti? e, insieme, il doppio sguardo che implica il loro confinare?

Oggi la poesia è assenso all’essere attraversato dal silenzio. E proprio di quel silenzio – in cammino verso il senso – costituisce una rivelazione.

La sua avventura si svolge tra gli estremi di un pendolo, la cui aporeticità è data dal richiamo dell’uno all’altro, suo volto speculare, confine di un dualismo costitutivo e massima distanza. Per questo implica un rispondere e un corrispondere: chi ascolta è chiamato.

Elementi della percezione

Il rapporto fra parola e cosa torna a farsi cruciale con la quinta serie, tuttora in atto e dedicata agli Elementi della percezione.

Le cose sono nel raggio dell’attenzione. Ma, come ci dicono i poeti e i filosofi, non se ne coglie mai con esattezza l’essenza.

L’uomo conosce soltanto segni vuoti, non le cose in se stesse. Per conoscerle sono necessari all’uomo una mediazione (il linguaggio), delle leggi (quelle della ragione), l’osservazione (attraverso i sensi). Va da sé che l’uomo può conoscere solo la propria ombra (data dal linguaggio, dalle leggi, dai sensi) che lui stesso frappone tra sé e le cose. E con la parola può esprimere solo la propria opinione.

La parola non si aggiunge alla parola per dare estensione allo spazio delle cose, ma per modificare la situazione che si era venuta a creare tra le parole precedenti. Ci segnala che qualcosa si aggiunge a quanto già sappiamo.

Parola dopo parola, la mutazione del punto di vista linguistico introduce una mutazione del punto di vista psichico, infrangendone la fissità.

Queste incessanti variazioni ci fanno capire che l’io narrante va subendo una crescita.

La successione verbale non genera architetture, né dona alle cose luce maggiore. L’io narrante ne è consapevole: non mira al possesso scalare dell’oggetto: lo dà semplicemente come irraggiungibile. In un certo senso, egli è un interprete del principio di variabilità.

Il tempo dell’aggancio alle cose diviene un gioco interminabile di avvicinamenti e allontanamenti. E di scoperte minime, che, pur raggruppate, forniscono una somma solo parziale di dati. O una somma totale insensata; essendo l’ingrandimento di un solo addendo: quello più evidente per l’occhio che si muove sul mondo.

Il risultato ultimo, ammesso che ci possa essere, è sempre eleatorio. E quando circoscriviamo quello che ci sembra essere prossimo al vero, avvertiamo ancor più che il nostro calcolo richiede una revisione, che quasi sempre richiede il congedo dall’abituale modo di vivere e pensare.

Eppure, quando l’io narrante arriva a mettere a rischio i fondamenti del proprio sapere, a sfasciarne la logica, a distruggerne i più ovvi punti di riferimento; riesce a mettersi in contatto per un momento con l’essenza delle cose. Ma attenzione, non la cosa, dunque, ma l’essere di questa nel modo in cui di volta in volta si dà. Per cui, non di ridondanza dobbiamo parlare, ma forse di balzi percettivi.

La poesia, quindi, non acceca l’intelletto per consolare il cuore…

L’opera poetica si costituisce propriamente come un disegno del pensiero. È formata da parole la cui successione evidenzia che il cielo circoscrive solo se stesso e che sulla terra la desolazione è compiuta. Ma in pari tempo delimita un habitat in cui, sia pure con disagio, è possibile vivere.

Come può accadere?

Un costante diniego letterario – il divieto di esistere, se non come linguaggio – trattiene questi lembi di vita fantomatica in un mondo di frammenti e di cose disperse. Qui l’io narrante avanza con tanta ignoranza. Ma solo qui può cadere la sua scelta, anche rischiando che la sua azione resti illeggibile.

Ogni sforzo di comprensione totale non può emergere che da questo sfondo abissale, dal caos, quale apertura, spalancamento, disponibilità per tutti i sensi; nell’estremo tentativo di attingere un’ulteriorità di senso nel fluttuare dell’indeterminato. Ne è ben cosciente Spinoza quando scrive: « La perfezione delle cose deve essere valutata soltanto in base alla loro natura e potenza; le cose non sono più o meno perfette perché dilettano o offendono i sensi degli uomini, o perché favoriscono la natura umana o la avversano ».

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Référence électronique

Flavio Ermini, « L’esperienza originaria del dire: note sulla ricerca letteraria di « Anterem » », Line@editoriale [En ligne], 1 | 2009, mis en ligne le 09 février 2017, consulté le 06 mai 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/149

Auteur

Flavio Ermini

flavio.ermini@anteremedizioni.it