Una delle ragioni del fascino che ha da sempre esercitato l’ultima novella del Decamerone, nella quale si racconta la storia di Griselda, risiede, crediamo, nella sua estrema ambiguità. Sebbene Boccaccio sembri attribuirle un valore edificante posizionandola in chiusura alla sua raccolta – il che ci fa pensare all’ultimo canto del Paradiso di Dante o alla Canzone alla Vergine di Petrarca – il paragrafo conclusivo della novella è incredibilmente triviale:
Che si potrà dir qui, se non che anche nelle povere case piovono dal cielo de’ divini spiriti, come nelle reali di quegli che sarien più degni di guardar porci che d’avere soprauomini signoria ? Chi avrebbe, altri che Griselda, potuto col viso, non solamente asciutto ma lieto, sofferire le rigide e mai più udite prove da Gualtieri fatte? Al quale non sarebbe forse stato male investito d’essersi abbattuto ad una, che quando fuor di casa l’avesse in camicia cacciata, s’avesse sì ad un altro fatto scuotere il pelliccione, che riuscita ne fosse una bella roba1.
Non stupisce che Petrarca, nella sua versione allegorica e cristiana, abbia censurato un finale tanto provocatorio. È ancora Petrarca a stabilire un collegamento esplicito tra la figura di Griselda e « Porzia, Ipsicratea o Alcesti »2 (Sen., XVII, 4). Tale considerazione ci aveva spinto ad indagare approfonditamente le possibili origini del personaggio di Griselda e a ipotizzare, al di là della classica figura della « Frêne » di uno dei Lais de Marie de France, una chiara contaminazione dei racconti dell’Antichità che l’Alcesti di Gluck (1767), su un libretto di Ranieri de’ Calzabigi, invita a prendere in considerazione caldeggiando la lettura della versione medievale del poema dell’Alcestis Barcinonensis3 più che quella del testo di Euripide.
Ciò che risulta certamente innegabile, alla luce dei preziosi cataloghi redatti da Raffaele Morabito4, è che la lettura ambivalente della storia di Griselda permette una produzione proteiforme del racconto, alla quale però sfugge, e non è un dettaglio da sottovalutare, la tragedia italiana del XVI e XVII secolo nello stesso momento in cui Boccaccio offre allo stesso teatro un numero considerevole di soggetti5. Indubbiamente la storia di Griselda non è una tragedia ed è per tale ragione che la nuova forma scenica che soppianta questo stesso genere in Italia, il dramma per musica, vi si interessa: Metastasio6 ignora la storia di Griselda e Zeno se ne appropria. Tale passaggio risulta estremamente interessante se si considera che Zeno è un autore di teatro d’Opera7.
Apostolo Zeno scrive, a partire dal 1701, un libretto d’Opera intitolato semplicemente Griselda messo in musica da Carlo Francesco Pollarolo e rappresentato nel popolarissimo teatro San Cassiano di Venezia durante lo stesso anno. Il soggetto sembra corrispondere ad un’attesa molto forte se si considera che per il solo XVIII secolo esistono venti adattamenti o riscritture del testo di Zeno: 1703 (Zeno, Albinoni), 1706 (De Petris, Sarro), 1707 (Zeno, Chelleri), 1710 (Zeno, Capelli), 1711 (Zeno, Predieri), 1718 (Zeno, Antonio Maria Bononcini), 1720 (Zeno, Orlandini), 1721 (Ruspoli, Alessandro Scarlatti), 1722 (Rolli, Giovan Battista Bononcini), 1725 (Zeno, Caldara), 1725 poi 1728 (Zeno, Conti), 1735 (Goldoni, Vivaldi), ancora 1735 (Zeno, Torri), 1747 (Zeno, Latilla), 1752 (Logriscino), prima del 1774 (Martinelli, Jomelli), 1793 (Anelli, Piccinni), 1795 (Guglielmi) e 1796 poi 1803 (Anelli, Paer). In realtà Zeno riconoscerà la paternità unicamente dell’Opere del 1701 – la prima in assoluto, con Pollarolo8, e quella del 1925 messa in musica a Vienna da Francesco Bartolomeo Conti. Una tale proliferazione di versioni è significativa riguardo le libertà prese a partire dal testo iniziale di Zeno sia da parte dei compositori che dagli addetti ai rimaneggiamenti dei libretti. Effettivamente, per dirla con Jean-François Lattarico « l’universo dell’Opera non è quello dell’inventio, ma quello dell’imitatio e della variatio intorno ad un sistema di riferimento noto al pubblico »9. Nel 1718 Zeno era stato nominato poeta di corte a Vienna sotto l’imperatore Carlo VI, evento che comporta un recupero della totalità della sua opera. La versione di Bononcini10, a partire dallo stesso anno della nomina di Zeno, è un sentito omaggio al librettista.
Si noti inoltre come lo stesso Zeno, esplicitandolo nella sua Premessa, non si privi dell’esercizio di un profondo rimaneggiamento della novella di Boccaccio. Ecco cosa scrive11:
Gualtiero (da me intitolato nel dramma Re di Sicilia, e ciò per maggior nobiltà di Scena, tuttoché nella Storia altro egli non fosse, che Marchese di Saluzzo) invaghitosi di una semplice contadina per nome Griselda, da lui veduta più volte nell’occasione della caccia, la prese in moglie, non potendo altrimenti espugnar la virtù di lei, né soddisfare al suo amore. Un sì disugual matrimonio diede al popolo motivo di mormorarne, e dopo la nascita d’una fanciulla, primo frutto di queste nozze, sarebbe passato a qualche sollevazione, se il Re non l’avesse ripressa, facendo credere d’avere fatta morire la figlia, da me chiamata Costanza, e non l’avesse di nascosto inviata ad un Principe suo amico, che nel mio Dramma è nominato Corrado Principe di Puglia, perché la educasse segretamente. Era già arrivata all’età di quindici anni Costanza, senza ché ella, o altri, fuori di Gualtiero, e Corrado, sapesse la vera condizione della sua nascita, cui tutta volta Corrado pubblicamente diceva non esser men che reale.
Aveva questi un fratel minore, per nome Roberto, che allevato insieme con la Principessa, si amarono reciprocamente fin da’ primi anni; e cotesto loro scambievole amore fu da Corrado ancora approvato. In questo mentre nacque un altro fanciullo a Griselda, e tornando allora il popolo ad una nuova sollevazione e, istigati sottomano da Otone, nobilissimo Cavaliere del Regno, c’era amante della Regina, Gualtiero volle por fine a tali disordini, con la finzione di ripudiare Griselda, e di ritrovarsi altra Sposa. Usò egli questo artefizio, perché conoscendo la virtù della moglie, voleva, ch’ella ne desse pubbliche prove, e che quindi i sudditi conoscessero, quanto ella meritasse quel grado, che più era nobilitato in lei dalla grandezza dell’animo, che oscurato dalla viltà della nascita. Tanto egli fece ; scrisse a Corrado, che gli conducesse Costanza in qualità di sua sposa ; intimò a Griselda il ripudio; la rimandò alla sua capanna, ed ella sofferse tutto con un’eroica fortezza. I finti rigori di Gualtiero, e le vere persecuzioni d’Otone, che in tali disgrazie di Griselda si va adulando di poterla ottenere per moglie, fanno l’intreccio principale della mia favola, con quegli avvenimenti che per entro si ravvivano.
La scena si svolge nei dintorni di Palermo.
Le modifiche operate da Zeno sono numerose, e potremmo classificarle secondo due criteri : quelle legate alla riforma del melodramma secondo i principi dell’Arcadia che egli mette in atto e quelle che, derivanti in parte da queste prime, mirano allo sviluppo di una nuova dinamica narrativa. In primo luogo citiamo il rispetto delle regole aristoteliche delle tre unità già in vigore nel teatro tragico, l’organizzazione del dramma in tre atti, la forza di una lingua poetica e letteraria che prevale sulla musica, il numero limitato dei personaggi intorno ai quali si snoda il racconto: la coppia principale (Gualtiero e Griselda), una coppia secondaria (Costanza e Roberto), un servitore beffardo (Elpino), un confidente fidato (Corrado), uno spregevole traditore (Ottone). Si tratta delle caratteristiche fondamentali della prima riforma dell’Opera seria12. Da queste modifiche strutturali e formali derivano numerosi cambiamenti visibili, assolutamente sconosciuti al testo di Boccaccio o di Petrarca, messi in rilievo dallo stesso Zeno nella sua Premessa: la scena si svolge nei pressi di Palermo, Gualtieri, marchese di Saluzzo, diventa Gualtiero, re di Sicilia; l’invenzione del personaggio di Elpino, il servitore, è controbilanciata da quella del tenebroso cattivo Ottone; l’intrigo duplica la coppia dei giovani innamorati. Ma più che tali aggiustamenti narrativi, si deve indubbiamente considerare il reale capovolgimento operato dalla piuma di Zeno per cui Gualtiero sposa Griselda, « non potendo altrimenti espugnar la virtù di lei, né soddisfare al suo amore » : Gualtiero è dunque innamorato. Siamo lontani dai vincoli di matrimonio impostigli dai propri sudditi nella novella del Decameron. D’altronde sono gli stessi sudditi, e non le manie di Gualtiero, che spingono il re a mettere fine ai tormenti che Griselda sopporta lungo tutto il corso dell’Opera, contrariamente al Decameron di Boccaccio in cui il marchese é spinto unicamente da una « selvaggia bestialità ». La trama è pertanto rovesciata: Gualtiero non mette alla prova Griselda per convincersi della sua pazienza ma « conoscendo la virtù della moglie, voleva, ch’ella ne desse pubbliche prove».
Sebbene un tale stravolgimento che vede Gualtiero innamorato di Griselda sia indubbiamente importante, non è sufficiente, a nostro avviso, a motivare la ragione di una tanto straordinaria popolarità, che arriva quasi a significare una rinascita della favola nel XVIII secolo. Il luogo di tale rinascita, Venezia, e la lettura del libretto di Zeno ci suggeriscono una pista d’analisi piuttosto accattivante, quella del rapporto tra il sentimento amoroso e l’istituzione del matrimonio che si pone, nell’interpretazione che qui vogliamo dimostrare, come una delle chiavi del suo notevole successo.
Nel Decamerone il matrimonio è uno degli artifizi più volentieri utilizzati per denunciare un’organizzazione sociale fondata su un sacramento relativamente recente13 per il XIV secolo. Il matrimonio vi è descritto sotto tutte le sue forme (di convenienza, forzato, accettato, clandestino), con le sue variazioni come le seconde nozze14 o l’adulterio, e le sue conseguenze : la felicità, la tristezza, l’umiliazione, la morte. Nella storia di Griselda che ci svela Boccaccio, Gualtieri impone tre prove alla donna: la morte dei suoi figli, l’annullamento del loro matrimonio per mezzo di una bolla pontificia e l’organizzazione delle proprie seconde nozze con una giovane principessa. Se la prima di queste prove riguarda la maternità di Griselda, le altre due riguardano il sacramento del matrimonio in un crescendo d’umiliazione della sposa. Il libretto di Zeno inizia precisamente dall’atto di pubblico ripudio. Prima che Griselda appaia, durante la scena iniziale in cui è circondato dalla sua corte, Gualtiero annuncia : « decretato è il ripudio ; e voi ne siate/ giudici e spettatori » (v. 9-10). Questa sentenza, a nostro avviso, risuona immediatamente come il fulcro dell’opera di Zeno. Quella di Griselda è una storia di ripudio nella quale il pubblico è spettatore e giudice piuttosto che giudice e spettatore. I tre atti, effettivamente, seguono il corso delle peripezie matrimoniali: il primo è quello del ripudio di Griselda. Nel secondo atto due donne sono minacciate di matrimonio forzato: Costanza, innamorata di Roberto, è all’improvviso destinata a sposare Gualtiero; Griselda, ormai senza marito, è perseguitata da Ottone che la minaccia di uccidere suo figlio nel caso in cui ella rifiutasse l’unione. Nel terzo e ultimo atto, l’ordine viene ristabilito poiché Griselda ritrova, come sappiamo, il proprio ruolo di regina: ne consegue che Ottone rinuncia a lei e Costanza sposa Roberto.
Ad un’analisi più attenta del libretto di Zeno, risulta evidente la rilevanza accordata al tema del matrimonio all’interno dei discorsi dei personaggi, se non addirittura nelle didascalie, considerando che Gualtiero è presentato come « re di Sicilia » e Griselda è definita semplicemente come « sua Moglie » senza nessun’altro attributo d’ordine sociale o psicologico. È l’unico personaggio a ricevere un tale trattamento15. Non ci stupiremo dunque, come il primo atto sia incentrato sui termini di « sposa », « moglie », « sposo », ma nel momento in cui, per la prima volta, Ottone cerca di attirarsi i favori di Griselda risvegliando in lei ciò che ha perduto (I, 5), « Regno » e « Grandezze » non la commuovono affatto. « Sposo », azzarda Ottone, e lei replica con un endecasillabo pieno di solennità « […] che meco resta/ lontano ancor nell’alma mia scolpito » (v. 135-136). In realtà, nel corso di tutta l’opera, Griselda non rinuncia mai a parlare di Gualtiero come del suo sposo, incarnando a lei sola il legame indissolubile del matrimonio, il sacramento cristiano nella sua eternità. A tal proposito Gualtiero, che la porterà al limite della sopportazione nell’atto III, le rinfaccia « ben si vede che nata/ sei fra boschi, o vil donna […] » (sc. 7, v. 1021-1022) come se la sua devota fedeltà verso lo sposo rivelasse un atavismo primordiale sconosciuto alle classi nobili della società, non inclini a sopportare il giogo della nuova morale sociale.
Il secondo atto è quello della crisis, nel quale si preparano i due matrimoni forzati. Il primo, di un’estrema banalità se si considera l’arrendevolezza con la quale i due giovani, seppure straziati, sembrano cedervi, è un matrimonio combinato. Il re di Sicilia sposa la pupilla del principe delle Puglie. A partire dal Concilio di Trento (1563), i cui dibattiti sono dedicati anche al tema del matrimonio16, è ormai obbligatorio un mutuo consenso da parte degli sposi per procedere al rito. Questa nuova regola, che si propone di impedire le conseguenze spesso disastrose dei matrimoni combinati, provoca, come sappiamo, uno stravolgimento dell’educazione delle giovani donne le quali vengono spinte da contorte pulsioni interiori e argomentazioni esteriori a dare il loro accordo – un esempio di tali strumentalizzazioni è il terribile episodio della sventurata Gertrude de I Promessi Sposi, in un XVII secolo che non vuole ancora rinunciare alla sua organizzazione sociale. Costanza, dunque, ha ricevuto un’educazione che le impedisce di rimettere in causa la legittimità del proprio matrimonio con un re che lei non conosce. E quando Corrado le chiede come amerà il suo futuro sposo, Costanza, senza batter ciglio gli risponde: « Con quell’amor che si conviene a sposa » (II, 1, v. 412) con un endecasillabo i cui accenti tonici non lasciano alcun posto ad altre regole che quelle ammesse dalla legge. Ed è Corrado che conclude: « la sposa ama chi deve/ l’amante ama chi elegge/ genio in questo è l’amore, in quella è legge ». Sarà solo l’amante congedato, Roberto, che protesterà più avanti contro tale rigidità: « barbari nodi » (II, 3), senza tuttavia trovare altre soluzioni che questo lamento del cuore contro il matrimonio combinato che lo priva della sua amata.
Il secondo matrimonio forzato che compare nel secondo atto è quello di Ottone e Griselda che vive ormai sola nella foresta. Ovviamente Griselda si mostra inflessibile e quando la sua scelta è tra il matrimonio con Ottone o – come quest’ultimo le fa credere – la decapitazione di suo figlio per ordine del re, la sua posizione risulta irremovibile: in alcun modo ella si piegherà ad accettare il sacramento. Tuttavia tale matrimonio forzato, contrariamente al precedente, trova rapidamente la sua risoluzione all’inizio dell’atto III. Al momento in cui Ottone viene smascherato confida a Gualtiero: « Dal tuo ripudio […] pietà mi nacque e poi ne nacque amore » (v. 848-849). Questa abile giustificazione fa ricadere sul re tutta la responsabilità delle insensate pretese amorose di Ottone, che viene infine perdonato da Gualtiero.
Infine durante il III atto assistiamo alla risoluzione dei matrimoni, i quali prendono tuttavia una piega inaspettata. Griselda scopre inaspettatamente che Costanza, la sposa promessa del re, è innamorata di Roberto: ciò mette in evidente pericolo il futuro matrimonio del re e lascia immaginare la possibilità dell’adulterio. La nostra Griselda, sebbene decaduta e umiliata, non si contiene più e si precipita a corte per svelare tutto al re, non con la speranza di ritornare regina – pensiero ormai decaduto – ma perché convinta che Costanza non sia degna di essere la sposa di Gualtiero. Elpino, il servitore beffardo, precede Griselda con l’intenzione di imprimere un tono ridicolo all’imminente rivelazione « Ardon Roberto e la real sposa/ di scambievole fiamma ; e i loro affetti/ udì, vide Griselda » dichiara al re in pubblico (III, 7). Sarà questa confessione a risolvere la questione in quanto Gualtiero acconsentirà al matrimonio dei giovani amanti. Tuttavia collegandosi in qualche modo con la « matta bestialità » del suo antenato boccaccesco, Gualtiero sorprende il proprio auditorio quando, rivolgendosi a Griselda, esclama « che ti cal se Costanza/abbia più d’un amante ? », cosa che non manca di far ridere Elpino che apostrofa « più cortese marito ancor non vidi » (v. 1182), generando, immaginiamo, una reazione comica nel pubblico. Ugualmente possiamo immaginare lo stupore di Griselda, sbalordita da questi costumi ignoti. In modo ancora più imprevedibile, Gualtiero le fa subire un’ultima prova proponendole di sposare Ottone: « Del fido Oton sarai consorte » (sc. 12, v. 1149). La risposta della paziente Griselda non si fa (troppo) attendere: « tua vissi e tua morrò, sposo adorato », replica al re al quale, per la primissima volta nella propria esistenza, osa disobbedire. Qui la ritmica del verso lega inestricabilmente la morte all’amore di Griselda per il suo caro sposo, alla maniera di una novella Alcesti. Gualtiero allora abbassa le armi e calma Griselda. E nel libretto di Zeno, mentre due duetti (Gualtiero/Roberto e Griselda/Costanza) cantano il loro amore, un coro si eleva alla gloria del matrimonio:
Imeneo, che sei d’amore
Dolce ardor, nodo immortale
Della coppia alma reale
Stringi l’alma, annoda il core. (v. 1234-1237)
Se il matrimonio in chiusura è un tratto caratteristico del teatro a lieto fine, il soggetto occupa in questa Griselda un ruolo inaspettato non soltanto perché il libretto si apre su un ripudio e si conclude con un inno all’imene ma anche perché il solo rifiuto all’obbedienza da parte di Griselda, più forte della presunta morte della propria figlia o di quella imminente del proprio figlio, più forte dell’umiliazione per il ripudio o dei preparativi di nozze della rivale, il suo solo rifiuto dunque, è quello ad un matrimonio forzato. È ciò che il matrimonio è diventato a Venezia17 una preoccupazione di massimo grado dopo che, come abbiamo già affermato, il Concilio di Trento ne modifica il contenuto. Il soggetto del matrimonio su scena, a teatro in particolare, è stato esposto in modo chiaro nella tesi ancora inedita di Valeria Cimmieri intitolata Femme et pouvoir dans le théâtre tragique italien des XVIe et XVIIe siècle18. Da un punto di vista istituzionale, il fatto che il Concilio di Trento dichiari l’indissolubilità del legame matrimoniale e imponga il consenso reciproco degli sposi, fornisce alla Chiesa un nuovo potere sociale suscettibile di entrare in contraddizione con gli interessi laici, politici ed economici, e interpella chiaramente il ruolo della donna nella società19, tema molto sentito a Venezia dove si distinguono precocemente numerosi ed eccezionali personaggi femminili20. Fuori dal matrimonio, soltanto la verginità o il celibato (di una vedova per esempio) sono accettabili. La scena tragica – e questo discorso vale per la nostra Opera – presenta al pubblico delle situazioni esemplari, spesso pericolose per l’ordine sociale. Tiziana Plebani offre un contributo fondamentale a tale soggetto con il suo ultimo e notevole saggio intitolato Un secolo di sentimenti. Amori e conflitti generazionali nella Venezia del Settecento (Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2012), nel quale, grazie ad un’analisi minuziosa di un corpus considerevole, in particolare delle lettere familiari e amorose, mostra che il matrimonio è ormai a Venezia un’istituzione in conflitto con il sentimento d’amore. Ne’ Zeno ne’ la nostra Griselda possono sottrarsi a tali argomentazioni21 :
Il teatro e la letteratura inscenavano il dramma imposto dalla dura legge del matrimonio per dovere e il sacrificio degli affetti. […]. Se invece spostiamo la nostra attenzione verso il repertorio teatrale della metà del Settecento e sfogliamo i libretti delle opere più rappresentate non solo a Venezia o nelle città italiane ma anche nelle capitali europee, ci accorgiamo che il motivo di fondo, dalle infinite varianti ma dalla costante riproposizione, era la vittoria dell’amore sule opposizioni familiari e sulle differenze sociali. Ciò che si cantava nei teatri di tutta Europa era la forza del sentimento che però, a differenza del passato, non minacciava l’ordine sociale bensì […] creava un ordine migliore, una comunità rigenerata e migliore. E sopratutto felice. Amore e felicità andavano a braccetto in questo secolo e il matrimonio forniva loro il viale alberato lungo il quale passeggiare piacevolmente. L’amore vince ed è felice; attraversa dei conflitti, incontra ostacoli ma la sua energia è contagiosa, non ha bisogno di violenze, piuttosto converte il nemico e crea alleati.
[…] Se l’amore vince nei drammi giocosi […] e nelle commedie, anche il melodramma – dalla Griselda dello Zeno alle opere di Metastasio – consacrava il sentimento : nel finale, dopo l’alternarsi di episodi a tinte forti che parevano tutti indirizzati a separare due cuori innamorati, si ricomponeva un equilibrio che le vicende avevano turbato, in un lieto fine che è metafora dell’armonia ritrovata tra la ragione e il sentimento, tra l’anima intellegibile e l’anima sensibile.
La svolta storica che valorizza nuovamente, nel mondo delle grandi monarchie del XVII e del XVIII secolo, l’importanza della nobiltà di sangue contro la nobiltà di cuore, si urta quindi, nella repubblica dei dogi con un movimento tra generazioni che restituisce alla storia di Griselda una modernità inattesa. È anche in questa prospettiva edificante che si può leggere il distacco simboleggiato dalla delocalizzazione del racconto dal nord dell’Italia verso il sud, sotterfugio spesso utilizzato affinché il pubblico si senta sufficientemente libero di giudicare il contenuto del discorso, affinché possa sentirsi « spettatore e giudice » come invitavano i primi versi dello spettacolo. Nel libretto di Zeno, l’apparente disprezzo che Gualtiero sembra provare per Griselda (« ben si vede che nata/ sei fra boschi, o vil donna […] ») e sopratutto il ripristino delle convenzioni aristocratiche con il matrimonio finale della figlia del re di Sicilia e del fratello del principe delle Puglie, marcano delle forme arcaiche sconosciute alla nuova società veneziana. Questo conflitto è effettivamente stigmatizzato dalla già citata quartina di Corrado: « la sposa ama chi deve/ l’amante ama chi elegge/ genio in questo è l’amore, in quella è legge ». Le donne – e anche gli uomini – che compongono il pubblico dell’opera di Zeno devono quindi trovare il giusto compromesso tra le leggi del dovere e le leggi dell’amore. Il plebiscito dell’opera di Zeno può allora essere letto come un’accettazione da parte dei loro « spettatori » che l’hanno giudicato conforme alle proprie aspettative sociali.
Tale rinnovato entusiasmo dunque deve essere messo in relazione con l’adeguamento del soggetto ai nuovi interrogativi che animano la società Veneziana. Questo tratto è ugualmente indissociabile dalle successive modernizzazioni musicali dell’opera di Zeno che non smettono di riattualizzare il gusto dell’epoca. Se le numerose riprese del libretto di Zeno testimoniano il successo che il poeta cesareo e la sua opera riscuotono a Vienna e in tutta Italia, le molteplici alterazioni del suo testo, sicuramente all’ordine del giorno in materia, traducono così l’evoluzione del mondo musicale. E per restare a Venezia, dove fu recitata la prima rappresentazione di Griselda nel 1701, e dove avviene la riforma dell’Opera, non all’interno di una qualche corte di un monarca da adulare ma nel cuore della repubblica lagunare, vorremmo portare l’attenzione sulla versione musicale di una delle ultimissime22 opere di Vivaldi, su un libretto rimaneggiato da Goldoni23. L’episodio è conosciuto, in particolar modo perché Goldoni riporta il proprio incontro con Vivaldi riguardo il soggetto della Griselda, anche se si deve ben tenere presente in che misura l’episodio è scritto per i suoi lettori, ovvero come la posterità alla quale aspira Goldoni, influisce sulla ricostruzione storica.
Doveva recitare in quell’anno per prima Donna la Sig. Annina Giro, o Girand figlia di un Parucchiere originario francese, la quale sendo scolara di esso Vivaldi chiama vasi comunemente l’Annina del Prete Rosso. Non aveva bella voce, non era gran virtuosa di Musica, ma era bella, graziosa: gestiva bene (cosa rara in que’ tempi) ed aveva de’ Protettori: non ci vuole di più per meritare il posto di prima Donna. Premeva estremamente al Vivaldi un Poeta per accomodare, o impasticciare il Dramma a suo gusto, per mettervi bene, o male le Arie, che aveva altre volte cantato la sua scolara; ed io, ch’era destinato a tale incombenza mi presentai al Compositore d’ordine del Cavaliere Padrone. Mi ricevette egli assai freddamente. Mi prese per un novizio, e non s’ingannò, e non trovandomi bene al fatto della scienza degli Stroppiatori de’ Drammi, si vedea, ch’egli aveva gran voglia di rimandarmi. Sapeva egli l’applauso, che aveva riportato il mio Bellisario, sapeva la riuscita de’ miei intermezzi; ma l’impasticciare un dramma era cosa calcolata da lui per difficile, e che meritava un talento particolare. […] Mi guardò egli con un sorriso compassionevole, e preso in mano un libretto: «Ecco», dice, “ecco il Dramma, che si dee accomodare: la Griselda di Apostolo Zeno. L’Opera» soggiunse, «è bellissima: la parte della prima Donna non può essere migliore; ma ci vorrebbero certi cambiamenti… Se Vossignoria sapesse le Regole… Basta; non le può sapere. Ecco qui, per esempio, dopo questa scena tenera vi è un’aria cantabile; ma come la Signora Annina non…non ama questa sorta di Arie – cioè non le sapeva cantare – qui vorrebbe un’aria d’azione… che spiegasse la passione, ma che non fosse patetica, che non fosse cantabile». «Ho capito», risposi, “ho capito; procurerò di servirla: mi favorisca il libretto. «Ma io», riprende il Vivaldi, «ne ho di bisogno: non ho finito i recitativi; quando me lo renderà?». «“Subito” dico “mi favorisca un pezzo di carta, ed un calamaio…» «Che? Vossignoria si persuade, che un’aria di opera sia, come quelle degl’intermezzi!». Mi venne un poco di collera, e gli replicai con faccia tosta: «Mi dia il calamaio», e tirai di tasca una lettera, stracciando da quella un pazzo di carta bianca. «Non vada in collera», mi disse moderatamente, «favorisca, si accomodi qui a questo tavolino: ecco la carta, il calamaio, e il libretto; faccia a suo comodo»; e torna allo scritojo, e si mette a recitare il breviario. Leggo allora attentamente la scena; raccolgo il sentimento dell’aria cantabile, e ne faccio una d’azione, di passione, di movimento. Gliela porto, gliela faccio vedere, tiene colla dritta il breviario, colla sinistra il mio foglio, legge piano; e finito di leggere, getta il breviario in un canto, si leva, mi abbraccia, corre alla porta, chiama la Signora Annina. Viene la Signora Annina, e la Signora Paolina Sorella: legge loro l’arietta, gridando forte: «L’ha fatta qui, qui l’ha fatta, l’ha fatta qui»; e nuovamente mi abbraccia, e mi dice bravo, e sono diventato il suo Caro, il suo Poeta, il suo Confidente, e non mi ha mai più abbandonato. Ho poi massacrato il Dramma del Zeno quanto, e come ha voluto. L’Opera è andata in scena, ha incontrato un gran successo24.
Che significa questo « massacro » ? Tra le modifiche più macroscopiche, notiamo innanzitutto che l’Opera è ambientata in Tessalia25 e non in Sicilia. Se alcuni hanno creduto poter vedere in questa delocalizzazione unicamente delle « marginali differenze »26, o addirittura una maniera per cedere alla moda anticheggiante che investiva i soggetti, abbiamo già affermato a detrazione di una simile posizione che, essendo la Tessalia la patria della regina Alcesti, una tale modifica rappresenta un significato più profondo perché si riferisce alla figura medievale vernacolare di Griselda, ad « Alcesti che sola volle morire per il suo sposo, anche se questi aveva il padre e la madre»27, come si può ritrovare sotto la piuma di Platone nel Simposio. Il personaggio di Alcesti rinforza il modello amoroso nel matrimonio che qui trova il suo punto più alto. Inoltre, con Euripide, Alcesti è un soggetto da tragedia ed è là dove Zeno aveva scelto di elevare il marchese di Saluzzo al rango di re di Sicilia « per maggior nobiltà di Scena », che la nuova scena dell’Opera di Vivaldi, ovvero la Tessalia, eleva ancora più la nobiltà del soggetto avvicinandolo al genere tragico. È in questa stessa prospettiva che possiamo interpretare la disparizione del personaggio di Elpino28, il « servitore facezio » di Zeno come d’altronde il nuovo legame tra Roberto, che è stavolta esso stesso il principe (d’Atene), e suo fratello Corrado, un amico di Gualtiero che gli ha affidato l’educazione di sua figlia.
Le memorie di Goldoni, interpretate nel loro corretto contesto, confermano inoltre più d’uno dei noti tratti del gusto veneziano per l’Opera: una frenesia produttiva, una tradizione orientata all’imitazione e il dettato di arie principalmente al servizio delle prodezze del cantante, per il più grande piacere del pubblico, e tutto ciò già a partire della metà del XVII secolo a Venezia. Questa moda che «guadagna in vocalità ciò che perde in forza drammatica»29 si trova al centro dell’episodio goldoniano in quanto si tratta di un Vivaldi alle prese con la voce di Annette Giraud. Non sappiamo nulla dell’aria che Goldoni riscrive in qualche minuto seduto all’angolo di un tavolo. Tuttavia l’analisi comparata dei due libretti, quello di Zeno e quello di Goldoni, mostra chiaramente che l’opera guadagna tanto in banalità petrarchesche ciò che perde in densità narrativa. Goldoni in effetti, servendosi della trasposizione della storia in Tessalia, abusa, in numerose delle quattordici nuove arie che scrive, di temi comuni, le famose arie di baule, soggette a essere facilmente riutilizzate in altre opere, delle arie passe-partout che ogni virtuosa trasportava con i propri bagagli. Tra queste possiamo trovare nella Griselda di Goldoni almeno quattro arie che trattano la metafora della vita come di una navigazione durante la tempesta: atto I, scena 3, aria di Gualtiero : Se ria procella/sorge dall’onde ; atto I, scena 5, aria d’Ottone : Vede orgogliosa l’onda/ conosce il mare infido ; atto II, scene 2, aria di Costanza : Agitata da due venti/ feme l’onda in mar turbata e atto III, scene 6, un’aria d’Ottone, Dopo un’orrida procella/ Splende chiaro il sereno.
Queste arie, conosciute sotto il nome di arie di tempesta, erano totalmente assenti nel libretto di Zeno. « La lunghezza dei vocalizzi, il cambio dei registri, l’alternanza di gamme ascendenti e discendenti, le piccole figure ripetute, la successione delle note acute e dei vocalizzi compressi in quelle gravi, il tumulto dei trilli e l’urgenza dei ritmi sincopati costituiscono altrettanti modi correntemente impiegati per descrivere la tempesta in mare, con i suoi sibili, le sue burrasche, i suoi ululati, le sue grida, l’infrangersi delle sue onde e le sue piogge di spuma strappate al mare»30. Uno spirito malevolo potrebbe facilmente immaginare che si tratta proprio una di queste arie senza consistenza narrativa, e probabilmente preparata in anticipo, che Goldoni propone a Vivaldi.
Air de Costanza, acte II, scène 2
Agitata da due venti
Freme l’onda in mar turbato
E ‘l nocchiero spaventato
Già s’aspetta a naufragar
Dal dovere e dall’amore
Combattuto questo core
Non resiste e par che ceda
E cominci a disperar31.
I rimaneggiamenti di Goldoni sono numerosi sopratutto nell’atto II, in particolar modo a causa dell’eliminazione del personaggio di Elpino, che richiede la riscrittura di numerose scene. Il tema del matrimonio, tanto presente nel libretto di Zeno, sembra perdersi nell’ambientazione del XVIII secolo anche se, come abbiamo visto, il recupero della storia di Alcesti, la sposa più innamorata dell’antichità, e la messa in valore della quartina finale sul matrimonio, qui posta come finale assoluto, mostra che il tema è lontano dall’essere fuori moda. La storia di Griselda sembra all’improvviso non soltanto sollevare una delle questioni che suscitano il più profondo interesse della società veneziana del XVIII secolo – può il matrimonio essere felice? – ma fornire anche una risposta seguendo il cuore della gioventù – si, può essere un matrimonio felice se si tratta di un matrimonio d’amore.
Epilogo
Vorremo qui concludere con un rimando all’aria del diavolo della Grisélidis di Massenet. Bizet, nel 1870 inizia la composizione di una Grisélidis che in seguito abbandona. Massenet riprende il soggetto, conosciuto in Francia sia grazie ad uno dei Contes de la Mère l’Oye di Perrault che alla tradizione delle Opere italiane del XVIII secolo. Il soggetto di Massenet è piuttosto lontano della storia originale poiché si svolge in una Saluzzo provinciale, inoltre la fedeltà di Grisélidis è messa a dura prova dal diavolo che approfitta dell’assenza del marchese partito per le Crociate. Tre atti per questa fiaba lirica francese, in cui il diavolo tenta la straordinaria fedeltà di Grisélidis manifestandosi inizialmente con i tratti di una procace Orientale, come la nuova sposa che il marchese avrebbe scelto durante la Crociata; in seguito ravvivando l’amore di Alain, un pastore poeta innamorato di Grisélidis fin dall’infanzia, e infine simulando il rapimento di suo figlio Louis da parte di un pirata che esige un bacio per lasciare salva la vita al ragazzo. Tentazioni vane, come immaginiamo. L’opera è creata nel Théatre National de l’Opéra Comique nel 1901 e riscuote un enorme successo, in particolare grazie alla presenza dello scabroso personaggio del diavolo. Ora giustamente, dato che la virtù essenziale di Grisélidis è la sua fedeltà matrimoniale, non soltanto il diavolo si accanisce invano verso questa Penelope moderna ma deve, lui stesso, far fronte alle proprie incessanti insidie coniugali, costretto com’è da una sposa “infernale”. Perciò l’obiettivo di compromettere Grisélidis che egli si fissa gli consente di allontanarsi della sua propria moglie. È una delle arie più celebri dell’Opera di Massenet, Loin de sa femme qu’on est bien, che apre la prima scena dell’atto II:
Loin de sa femme qu’on est bien !
Il n’est qu’un bonheur, sur mon âme !
Et tous les autres font pitié:
C’est vivre loin de sa moitié.
On est si bien, loin de sa femme!
L’absence est le suprême bien.
Loin de sa femme qu’on est bien !
Aucun souci ne vous réclame.
On est si bien loin de sa femme!
Ni bruit, ni jaloux entretien!
Plus de querelles pour un rien.
Et le temps passe comme un rêve!
Loin de sa femme qu’on est bien!
Aucun souci ne vous réclame.
On s’accorde toujours, on s’aime
Pour deux. C’est le vrai
Loin de sa femme qu’on est bien !
Il n’est qu’un bonheur, sur mon âme !
Et tous les autres font pitié:
C’est vivre loin de sa moitié.
Comme on est bien loin de sa femme!
Certamente, il matrimonio in Francia all’inizio del XX secolo è debitore, in alcune delle sue più illustri rappresentazioni, al teatro di Labiche, al triangolo delle infedeltà coniugali e alle situazioni grottesche e paradossali. Paradossalmente l’umore e l’insolenza del teatro borghese, la derisione del diavolo di Massenet sembrano ricongiungersi con l’ultimissimo paragrafo dell’ultima novella del Decameron, lo stesso che il rigore morale e religioso si era affrettato a nascondere fin dal XIV secolo per dare alle mogli un modello di virtù scolpito all’insegna delle convenzioni più rigorose. Il diavolo di Massenet traccia infine una linea su tutta la tradizione manipolatrice del racconto boccaccesco, gli restituisce la sua ironia e si occupa di restituire al matrimonio l’umanità dei suoi battibecchi quotidiani.