Caporetto e La rivolta dei santi maledetti di Malaparte

Ovvero, le due Italie: la verità e la menzogna

  • Caporetto e La rivolta dei santi maledetti di Malaparte

Résumés

Di ritorno da cinque anni di guerra, Curzio Malaparte ha 22 anni quando scrive e pubblica una testimonianza personale di spicco che è anche un'interpretazione politica della Grande Guerra. Contro la propaganda ufficiale, aveva scelto come emblema dell'eroismo del soldato di trincea e della speranza di vendetta di un popolo disprezzato, Caporetto: l’imponenete ritiro delle truppe italiane di fronte all'avanzata degli eserciti austriaci che segnò nell'ottobre 1917 la più dolorosa crisi militare che l'Italia abbia conosciuto. Tre volte sequestrato e censurato tra il 1921 e il 1923, Viva Caporetto! era una carica esplosiva contro l’ancora giovane Italia che si stava costruendo sulla memoria di una vittoriosa Grande Guerra. Questa rara storia di guerra segna, insieme all'entrata nella letteratura del giovane Malaparte, la matrice di gran parte della sua opera.

Back from five years of war, Curzio Malaparte is 22 years old when he writes and publishes Viva Caporetto!, both a leading personal testimony and a political interpretation of the Great War. Against the official propaganda, he chose as emblem of the heroism of the trench soldier and hope of revenge of a despised people, Caporetto, the great retreat of the Italian troops under the advance of the Austrian armies which marked, in October 1917, the most painful military crisis that Italy has known. Three times censored between 1921 and 1923, Viva Caporetto! was an explosive charge against the young Italy that was being built on the memory of a victorious Great War. This uncommon story of war marks, at the same time as the entry into literature of the young Malaparte, the matrix of part of his work.

Texte

Nell’autunno del 1914, mentre l’Italia era ancora neutrale, un sedicenne della prima liceale di nome « Curtino », allievo del famoso « Cicognini » di Prato (vi aveva studiato anche d’Annunzio), scappa dal collegio e si dirige verso Ventimiglia. Il ragazzo attraversa a piedi la frontiera di notte, aiutato (fino a Mentone) da un contrabbandiere che si accontenta del suo « pauvre trésor » rimastogli (quindici lire delle trentacinque raccolte e delle cinquanta chiestegli), per arruolarsi nella legione garibaldina: « Io credetti mio dovere dar l’esempio », dichiarerà molti anni dopo.1 Quel giovane minorenne era Kurt Erick Suchert, poi Curzio Malaparte. Il reparto era composto quasi esclusivamente di operai, socialisti, repubblicani e sindacalisti rivoluzionari, e tranne i fratelli Garibaldi e pochi altri italiani organizzati in un gruppo di volontari per correre in difesa della Francia occupata dalle armate tedesche, i soldati erano tutti francesi, con ufficiali inglesi, spagnoli, polacchi, alsaziani, perché facente parte della Legione Straniera di cui avevano anche l’uniforme. I punti di riferimento erano Avignone e Montélimar (« […] eravamo accasermati al Palazzo dei Papi e la mia compagnia occupava la Torre degli Angeli », racconta lo scrittore), quindi il Campo di Mailly per addestramento e poi le Argonne, dove Kurt partecipa alle operazioni.

Di quei giorni restavano nei ricordi del giovane un’esperienza indelebile di guerra e l’immagine di popoli che combattevano e morivano per la libertà, uomini e classi sociali in lotta, in movimento:

[…] avevo attraversato il confine […] e i gendarmi francesi mi avevano mandato in una bettola di Mentone Garvan, dalla « Mère aux bouchons », dove alcuni feriti francesi mi offrirono da mangiare e da bere. Fu il mio primo incontro con la Francia. Ero un bambino, pallido, gracile, timido, e la Francia mi fece da madre. Mi accolse come la madre accoglie suo figlio. Con la mia uniforme con i pantaloni robbia, la giacca blu coi bottoni d’oro, il berretto rosso e blu, il cinturone celeste intorno alla vita, andavo a passeggio la sera lungo le rive del Rodano, o nell’isola della Barthesse, vicino al ponte di San Bénezet, e qualche volta mi spingevo fino alla Durence.2

A proposito della Legione Garibaldina, si legge nell’Autobiografia3:

Se dovessi giudicarla oggi, con l’esperienza storica e politica di questi ultimi anni, direi che la legione garibaldina era composta di « fascisti »: essa fu per me l’anticamera del fascismo. Vi predominavano tutti quegli elementi politici e sociali che dovevo poi ritrovare nel fascismo. Non si capirebbero le ragioni della mia adesione al fascismo se non si tenesse conto di quella mia esperienza garibaldina.

Nel « Livret de service » di Kurt Erich Suckert, arruolato « pour la durée de la guerre » nel « Régiment Étranger (4° Rég. de marche) », si legge che partecipò alla Campagna del « 18 février 1915 » durante la « guerre franco-allemande » e combatté fino al 18 marzo. Risalgono a questo periodo, tra Avignone e la Campagna sulle Argonne, alcune « fughe » in treno per « vedere Parigi » che già conosceva dalle descrizioni di Binazzi:

Nessuno sapeva dirmi se la Rue Marie Antoinette esisteva, dove fosse. E mi trovai senza saperlo in una stradicciola stretta [...] imbandieriata di [...] biancheria stesa ad asciugare su fili tesi da una finestra all’altra. Era la Rue Venise [...] un angolo d’Italia in quella Parigi grigia, verde e azzurra, ma nessun italiano abitava in Rue Venise [...]. Ero sceso dal treno alla Gare de Lyon alcuni giorni prima, in divisa militare, calzoni rossi, giubbetto turchino e berretto rosso [...] avevo appena sedici anni [...] abitavo in via Danon, all’Hôtel Danon, proprio al di sopra di Chez Ciro’s, che era negli anni di guerra uno tra i ritrovi più chic di Parigi.4

Sono luoghi che saranno poi ricordati in una poesia intitolata Toulouse-Lautrec 1918, con in calce la data: Parigi giugno 1918. Ritornerà a Parigi qualche mese dopo:

[ricordavo] la passeggiata che feci, nel 1915, a piedi, in compagnia di un giovanissimo ufficiale inglese al quale avevo chiesto se il Bois de Boulogne era lontano. « Ci vado, l’accompagno » mi aveva risposto l’ufficiale. Eravamo arrivati fino al Padiglione d’Hermonville, dove una bella vettura aspettava l’ufficiale. Era il principe di Galles, il futuro duca di Windsor.

E ancora: « Ore e ore seduto al Café de la Paix e poi al mio solito tavolo, sulla terrazza e guardo la gente passare sul Boulevard des Italiens ». Lo stesso posto dove si era messo a sedere per la prima volta nel marzo del 1915 durante i tre giorni di permesso per vedere Parigi. E quindi al Café de la Paix, al Boulevard des Italiens, a passeggio con Alessio Peskow (figlio di Massimo Gorki), Blaise Cendras, Ricciotto Canudo, Guillaume Apollinaire (« l’artigliere enorme »): luoghi e persone di cui Bino Binazzi, seduto in un tavolo del Bacchino (e senza mai essere stato a Parigi), gli parlava a Prato e che Curt aveva visto prendere vita dai libri: Musset, Baudelaire, Gautier, Mallarmé e quello che poi diventerà per lui « il grande amico Apollinaire ».

Scioltasi nell’aprile-maggio la legione garibaldina, per l’imminente entrata in guerra (24 maggio) dell’Italia (« Peppino Garibaldi salutò i legionari con un arrivederci sulle Alpi »), Curt « […] tornato dalle Argonne in convalescenza, ancora zoppicante, colla scabbia, la febbre da fieno, e qualche altra cosa, a vederlo, uno spauracchio » (racconta la sorella Edda), rientra a Prato al « Cicognini » per gli esami di passaggio dalla seconda alla terza liceo (rientrò « […] dopo qualche mese molto deluso e amareggiato e riprese la scuola », ricorda un compagno di collegio).

Terminato l’anno scolastico, insieme agli iscritti (23 giovani operai in tutto) della sezione giovanile di Prato del partito repubblicano (di cui era segretario), si arruola di nuovo (Brigata Cacciatori delle Alpi: « […] dove i garibaldini delle Argonne si erano dati appuntamento », ancora sotto il comando di Peppino Garibaldi) non senza aver prima partecipato alle manifestazioni e scontri interventisti (malmenato nella sua stessa Prato) tra socialisti e sindacalisti corridoniani: « Se ho combattuto per la Francia, devo ora combattere per l’Italia, se no sarebbe un controsenso », dichiarò.

Viene subito inviato al fronte e combatte sul Col di Lana, sul Pescoi, sulla Marmolada, sul Sasso di Mezzodì, del San Giovanni, e altrove (Grappa, Col Caprile, Col del Miglio, Monte Tomba, Col Briccon, Asolone,…) fino a poco prima dei fatti di Caporetto. Malaparte, insieme agli altri uomini di cultura di questo primo Novecento, stava sperimentando la realtà della guerra nell’estremo tentativo di emergere (lui diciassettenne-diciottenne), alla stessa stregua di tanti giovani dell’epoca, dalla storia, alla disperata ricerca di una verifica esistenziale e politica, di un impegno sociale, di un senso di responsabilità morale e psicologica, quasi alla ricerca di un « ruolo » che si qualificasse tra l’accettazione e il dovere.

Pubblica resoconti dalla trincea su « La Patria » (un settimanale di Prato) in una rubrica dedicata ai volontari pratesi che scrivono dal fronte e sul « Giornale del soldato italiano in Francia » dove descrive le fatiche e i sacrifici della vita « in zona di guerra ». Compone poesie ispirate alla guerra e dedicate ai fanti, alcune delle quali saranno poi pubblicate sul « Resto del Carlino », « La perseveranza », « La Nazione », e suoi versi vengono anche musicati e cantati lungo le trincee.5

Rientra nella primavera del ’16 a Prato per dare gli esami di licenza liceale e ritorna in prima linea. Dopo un breve corso alla scuola militare di Caserta è promosso ufficiale nel ’17 e di nuovo è al fronte a combattere sul Piave e sul Grappa. Il 24 ottobre 1917, quando avviene lo sfondamento delle linee italiane a Caporetto dopo un’offensiva sferrata dagli austro-ungarici, Suckert si trovava nel Cadore con la Quarta Armata (l’« Inflessibile ») con i « rossi » della Brigata Alpi e i fanti del Col di Lana (i pochi superstiti del ’15) e da lì la « tremenda catabasi » fino al Ponte di Vidor sul Piave (« Ho avuto l’onore di portare la bandiera del mio reggimento, 52° Reggimento della Brigata Cacciatori delle Alpi, durante tutta la ritirata »). Risultano episodi di insubordinazione, come il rifiuto di portare fuori i suoi uomini in un attacco ritenuto inutile e pericoloso e di attraversare il Piave in piena per formare un caposaldo contro l’avanzata degli Austriaci, perché immaginava che fossero già attestati dall’altra parte: si avventura da solo a nuoto ritornando con un berretto nemico per dimostrare al suo capitano l’errata valutazione della sua strategia.

In aprile, Kurt, ormai comandante della sezione lanciafiamme d’assalto, veniva mandato in Francia col Secondo Corpo d’Armata (generale Alberico Albricci) trasferito su quel fronte ad arginare l’avanzata di Ludendorff verso Parigi. A giugno licenza di pochi giorni nella capitale:

Mi svegliavo al mattino e mi affacciavo alla finestra per scandagliare il cielo grigio di Parigi all’alba, dopo i bombardamenti. La grossa Bertha cominciava all’alba [...]. La mia camera era all’ultimo piano [dell’Hôtel Lotti, in rue Castiglione, n.d.a.], sotto il tetto. Vedevo emergere dai tetti grigi la statua di Napoleone sulla colonna di Place Vendôme [...]. Poi lo strepito soffocato dell’esplosione mi ravvicinava per un attimo i tetti più cupi della Rive Gauche, e mi sembrava di veder tremare il riflesso della Senna sulle facciate delle case dei quais. [...] Come era giovane la guerra, allora! Com’erano rosa, allora, i visi dei Francesi all’orizzonte azzurro. Com’era triste Parigi, il mattino della mia partenza. Triste di vedermi partire, questa ragazzona rosa e blu orizzonte che era Parigi nel giugno 1918. Aveva vent’anni allora Parigi, come me.

Anche sul fronte francese risultano episodi di contrasto coi comandi:

Nel luglio del 1918 a Bligny ho affrontato un mio superiore che, preso dal panico, fuggiva trascinandosi dietro il suo reparto, e gli ho sparato. Non lo ammazzai per un vero miracolo. Lo presi solo di striscio al collo, ma tanto bastò perché si fermasse e, tornato in sé da quel suo momentaneo smarrimento, ripigliasse in pugno il reparto.

La battaglia di Bligny fu un inferno, con gli ordini di resistere ad ogni costo (l’ordine di Albricci era di « morire sul posto ») anche se i soldati erano accerchiati, senza poter evacuare i feriti, senza viveri, né acqua, né medicinali, né cartucce, né bombe a mano, senza più nastri per le mitragliatrici e vuoti i caricatori: potevano difendersi solo con contrattacchi all’arma bianca. Né era opportuno ritirarsi perché sarebbe stato un suicidio. Suckert minacciò con un petardo il colonnello che con la pistola in mano pronto a sparargli gli ordinava di ritirarsi, e restò in quel bosco. La prima offensiva di Ludendorff c’era stata nella notte tra il 14 e il 15 luglio. Questo è il resoconto che lo scrittore ci ha lasciato di quei giorni:

Eravamo sul Grappa, quando ci venne l’ordine di scendere a Bassano, e di andare in Francia ad aiutare gli Alleati. Fummo destinati ai Campi di Mailly, di Saint-Ouen e di Saint-Tanche. Al Corpo d’Armata italiano venne l’ordine di andare a tappare il buco fra la Marna e Reims. Marciammo notte e giorno, a piedi, mentre lunghe file di camion, carichi di truppe inglesi, francesi, americani, tonchinesi e senegalesi, ci sorpassavano coprendoci di polvere. Gli Italiani a piedi, e gli Alleati, compresi i negri, in camion. Giungemmo nei boschi di Bligny […]. Di trincee e di camminamenti nessuna traccia: […] si camminava, si combatteva, si dormiva allo scoperto. Bisognava provvedere con estrema rapidità alla sistemazione difensiva di quel fronte improvvisato. [...] Il 3 luglio la Brigata Cacciatori delle Alpi, la Brigata Garibaldina attaccò la quota di Bligny. Mi fu affidato il comando dell’ala sinistra. Poco prima dell’attacco il Comando francese fece distribuire ai nostri soldati dei bidoni di cognac. I fanti bevvero il cognac mescolato con etere, come usavano i Francesi per eccitare le loro truppe. Ci buttammo all’assalto vomitando l’anima nostra. Non ostante le forti perdite, riuscimmo ad aggrapparci alle linee tedesche, e a tener duro. Nella notte fra il 14 e il 15 luglio cominciò la grande offensiva di Ludendorff, l’ultima, la decisiva. […] Nulla potrà superare in orrore quel bombardamento. Fu un massacro. Seduti sull’erba, le spalle appoggiate ai tronchi degli alberi, in un terreno senza trincee, senza camminamenti, senza ricoveri, ci facemmo ammazzare allo scoperto, fumando una sigaretta dietro l’altra. […] Tutti i comandanti di battaglioni erano morti. Su ogni due mitragliatrici, ce n’era una fuori uso. All’alba [...] attaccarono con le tanks [...]. Era la prima volta che ci si trovava di fronte alle tanks. I Francesi, gli Inglesi, gli Americani, avevano i fucili anticarro. Noi Italiani non ne avevamo. Non si sapeva come fare. […] Non potendo far altro, facemmo miracoli. […] Alla fine ci venne l’idea di dar fuoco al bosco, davanti alle tanks, che erano, così costrette a tornare indietro per paura che scoppiasse il serbatoio di benzina. Si combatteva in mezzo alle fiamme. […] Benché tagliati fuori, benché da tutte le parti ci sparassero nella schiena, tuttavia i nostri soldati resistevano coraggiosamente. Non si mangiava da ventiquattro ore. Impossibile evacuare i feriti. […] Verso sera rimanemmo quasi senza cartucce, senza bombe a mano. Le mitragliatrici Saint-Étienne non avevano più nastri, le Fiat avevano i caricatori vuoti. La nostra artiglieria aveva subito perdite spaventose. Il 10° da campagna era rimasto con due soli pezzi senza munizioni, e una ventina d’uomini in tutto. La battaglia si protrasse per tutta la notte. La mattina del 16 nuove truppe tedesche si buttarono allo sbaraglio, decise a farla finita, precedute da un violento bombardamento a gas yprite. Le nostre maschere, vecchie e tutte in cattivo stato, non ci servivano a nulla. Per tutto il bosco non si udiva che l’immenso rantolo degli agonizzanti. Dalle due del pomeriggio alle quattro respingemmo diciannove assalti tedeschi, e facemmo sette contrattacchi all’arma bianca. Io comandavo la 94° Sezione lanciafiamme d’assalto, e riuscii a fare qualcosa di buono. Al contatto con le fiamme, le bombe a mano appese alla cintura dei soldati tedeschi, scoppiavano. Verso il tramonto, l’artiglieria franco-inglese, giunta di rinforzo, e dimenticando che noi pure eravamo vestiti in grigioverde, come i tedeschi, si mise a spararci addosso. Non ostante tutto tenemmo duro e i tedeschi non passarono.6

Racconta la sorella Edda: « Le maschere dei nostri militari erano empiriche, bisognava toglierle ogni dati minuti, per non soffocare. Inoltre non erano stati istruiti, non sapevano nemmeno che i gas erano inodori. Suckert vide i Francesi fuggire urlando: i gas! i gas! ma non sentendo nessun odore, credette che fosse una fuga e non volle lasciare il campo di battaglia: si rovinò per tutta la vita ». Continua la sorella:

Uno dei suoi lanciafiamme, Micciché, – continua la sorella – in un ospedale di Milano dove giaceva ferito, mi ricercò incaricato da mio fratello, che si trovava anche lui in ospedale a Parigi, perché ne avessimo notizie. E così mi raccontò come Curtino era rimasto sul campo di battaglia, fuori di sé, dopo la respirazione del gas. Il suo attendente, un calabrese, Carboni, ferito gravemente, tanto che ne morì, riuscì a trascinarlo fuori dalla zona invasa dall’yprite, e a collocarlo in una specie di incavo nel monte, un po’ rialzato.[...] Quando fu all’ospedale da campo, egli raccomandò al medico che gli prestava le prime cure di ricercare il suo tenente che egli aveva riposto, privo di sensi, in quella tale buca del monte. L’addetto al recupero delle salme, nel buttarlo in una fossa insieme agli altri, sentì che non era diaccio e così, a un pelo, Curtino non fu sotterrato ancora vivo.

Sfogo e bruciature in tutto il corpo (lo racconta al padre l’11 agosto dai vari ospedali nei quali fu più volte ricoverato, Arcis-sur-Aube, Eparnay: in quest’ultimo scriverà la poesia Cabaret di Eparnay, datata luglio 1918), e vomitava sangue: « non aveva più nemmeno la forza di muoversi e si aspettava che morisse » da un giorno all’altro. L’ospedale di Eparnay fu addirittura incendiato da un bombardamento e per un altro miracolo (dopo quello del recupero, ritenuto morto, in una buca di Bligny) il giovane Curt scampò alle fiamme riuscendo a trovare le forze per gettarsi dalla finestra. In quella battaglia gli Italiani caduti furono 9334 dei quali 5000 i morti e Curt rimase invalido di guerra a venti anni. Lo scrittore ricorderà, tra l’altro, questi fatti (dal momento che ne parlerà per tutta la vita) in due poesie di guerra: Alla Brigata “Cacciatori delle Alpi” (51-52) e la citata I morti di Bligny giocano a carte. La prima, dove il 51-52 fa riferimento al numero del Reggimento comandato da Peppino Garibaldi, era stata presentata, insieme ad una lettera dedicatoria, al comandante della Brigata, generale Peppino Garibaldi, dal Presidente del Comitato di Propaganda e Resistenza della città, quasi per eternare nel sangue dei morti una « nuova storia garibaldina »:

È la voce di un giovanetto che la natura ha fatto poeta e la volontà garibaldino, in Francia, appena quindicenne, Kurt Suckert di Prato, ora della Sezione Lanciafiamme d’assalto, decoro del Liceo Cicognini, mirabile esempio alla gioventù della semplice, ma spesso obliata verità che gli studi debbono servire alla vita e la vita alla Patria.

Il testo rivela una sua importanza in quanto il giovane Curt presentava i suoi compagni « Cacciatori delle Alpi », vale a dire: aratori, seminatori, pastori, boscaioli, domatori di cavalli, ecc., per ricordare con loro le veglie sulle montagne, le interminabili attese arrampicati « […] su pei macigni acuti […] a furia di unghie […] di ginocchia […] con risate di scherno ai colpi e alle ferite […] balzar dentro la fossa degli assassini con un antico grido di vittoria ». Gli alpini di Jahier, anche se non sapevano perché andassero a morire, obbedivano ugualmente al « sotto ragazzi » (con la speranza che, se feriti, potevano « riposare » in un ospedale), Malaparte invece al grido « avanti » vedeva solo cadaveri intorno, come se dal « viluppo dei morti » altri morti balzassero in piedi per andare all’attacco.

La guerra, allora, stava mostrando il suo vero volto e la tragedia di un popolo già si rivelava spoglia dell’incanto e della retorica che avevano creato il mito del grande conflitto mondiale. La realtà appariva al di là della trincea dove migliaia di fanti avevano lasciato il loro sogno d’amore e di pace e dove un giovane (sedicenne prima e ventenne poi) aveva perduto il sapore della vita, avvelenato dall’odio e dalla disperazione. È possibile dire, quindi, che i citati tra scritti: Toulouse-Lautrec 1918, Alla brigata « Cacciatori delle Alpi » (51-52) e I morti di Bligny giocano a carte, preannunciano La rivolta dei santi maledetti, il libro che, da lì a qualche anno, avrebbe non solo denunciato gli orrori e gli errori dell’ormai celebre ritirata di Caporetto, ma gli sbagli di tutta una guerra.

Accanto e questi preliminari bisogna tener anche conto delle conseguenze di quanto avvenne dopo. Al giovane combattente fu data una medaglia al valor militare con la motivazione:

Alla testa della propria Sezione Lanciafiamme d’assalto, durante un contrattacco, scontratosi più volte con rilevanti forze avversarie le attaccava con risolutezza, le volgeva in fuga ed infliggeva loro gravi perdite col fuoco dei suoi apparecchi, infondendo costantemente coraggio nei dipendenti e dando bello esempio di fermezza e di slancio singolari ». Bligny, Bois de Courton, 16 luglio 1918 (Bollettino del 24 agosto 1920, Dispensa 70, p. 3950).

Si guadagnava inoltre la Croce francese concessagli personalmente dal Comandante della Quinta Armata, generale Guillaumat che lo apostrofava: « Officier de grande valeur », ed altri riconoscimenti come la « Croce di guerra francese con palma », la « Croce al merito di guerra » del Regio Esercito Italiano e la « Medaglia a ricordo della Guerra Europea » dal Ministro della Guerra. Scriverà molti anni più tardi che era rimasto profondamente disgustato dalla guerra: non soltanto per quel che aveva visto, sofferto, e finalmente capito, bensì anche per il bestiale trattamento che suo padre aveva dovuto subire. Sebbene avesse due figli in guerra, dei quali uno volontario, Erwin era stato arrestato e internato, per tutta la durata del conflitto, in un campo di concentramento presso Avellino, come suddito germanico. La reazione e la rivolta morale del giovane contro la « guerra borghese », si complicavano, cioè, di ragioni personali, profondamente giustificate dal sentimento della grave e crudele ingiustizia di cui era stato vittima nella persona di suo padre. La stupidità, la bestialità, la viltà, l’immoralità della borghesia, dello Stato borghese, del patriottismo borghese, della « patria borghese », si rivelavano a lui nel loro aspetto più odioso e più inumano e non soltanto attraverso l’esperienza di trincea, ma attraverso l’umiliazione e le sofferenze del padre. Il suo primo libro Viva Caporetto è nato, vedremo, da quella rivolta morale.

Intanto con le due offensive generali tra l’agosto e il settembre del 1918, gli alleati sul fronte occidentale avevano liberato tutta la Francia occupata e parte del Belgio. Dopo l’armistizio dell’11 novembre, e precisamente tra l’inverno del 1918-1919, Suckert veniva inviato (con le truppe italiane che si trovavano sul fronte francese e come ufficiale d’ordinanza di Albricci) in Belgio, a Saint-Hubert dove scrisse appunto Viva Caporetto. Nel febbraio del 1919 non seguì il generale che rientrava in Italia e così passava, con lo stesso grado, agli ordini del generale Cordero di Montezemolo (che aveva sostituito Peppino Garibaldi al comando della Brigata Alpi), trasferendosi prima a Landau (in Germania in territorio d’occupazione) e poi a marzo a Versailles agli ordini del colonnello Alessandro Casati. Qui si ammalò di « grippe spagnola » (di cui era morto l’amico Apollinaire nel novembre del 1918) e venne ricoverato in ospedale. Una volta guarito diresse l’ufficio stampa e cifre del Consiglio supremo di guerra e si trovò di colpo « nell’ambiente elegante, dilettantesco e superficiale delle missioni militari e delle delegazioni diplomatiche che formavano il mondo della Conferenza di Pace »: conosce Wilson, Orlando, Clemenceau.

Ritorna e frequenta assiduamente Parigi dove, il 1° maggio del 1919, assiste a Place de la Concorde alla manifestazione di protesta dei reduci di guerra del 1914, « bastonati e inseguiti a calci nel sedere » dagli agenti di polizia: « Quell’immenso, invincibile esercito di veterani fuggì, si disperse, sul selciato della sterminata piazza rimasero abbandonati, tristi e lugubri, berretti, grucce e bandiere. Fu quel giorno che sentii oscuramente che la mia generazione aveva perso la guerra ».7

A settembre, Suckert va in Ungheria e poi su consiglio del ministro degli esteri Tittoni partecipa (vincendolo) ad un concorso straordinario per gli ufficiali da inserire nella carriera diplomatica. Viene così da Parigi (vi restò fino all’ottobre del ’19 e fu presente alla firma del trattato di Versailles di giugno) destinato, quale addetto diplomatico alla Regia Legazione d’Italia, col ministro Tommasini a Varsavia dove rimase fino all’anno seguente: « Nel 1920 assistei come testimone diretto, all’occupazione di Kiew da parte dell’esercito polacco e all’assedio di Varsavia per opera delle truppe bolsceviche ».8

A Varsavia risulterebbe anche il primo duello alla sciabola di Suckert con un ufficiale polacco (il tenente degli Ulani Buterliskj) che aveva parlato male dei soldati italiani. Dei sedici-diciassette duelli che sostenne sono in genere ricordati quello a Roma col fratello di una ragazza che lo scrittore frequentava e quello a Milano nel ’26 con Pietro Nenni (per un articolo sull’« Avanti! »). Alla fine del 1920, si legge in un Memoriale, deluso della vita diplomatica, rivelatasi vana e inconcludente, stanco di star lontano dall’Italia, e desideroso di proseguire gli studi interrotti (durante la guerra si era iscritto alla Facoltà di Legge a Roma), chiede all’allora Ministro degli Esteri conte Sforza di essere richiamato a prestar servizio presso il Ministero stesso. Accolta la richiesta, si trasferisce a Roma, dove prende servizio alla Consulta alle dipendenze del comm. Lojacono, in seguito ambasciatore ad Ankara.

È questo anche l’anno in cui si « chiude » la prima parte della vita dello scrittore che appena ventiduenne aveva già alle spalle sette anni di carriera militare e diplomatica in Europa, nonché quattro anni di guerra sempre in prima linea. Circostanze, però, che non gli avevano fatto abbandonare né i libri né l’attività letteraria, per altro già nota all’epoca sia nell’ambiente pratese sia in quello diplomatico-militare. A Saint-Hubert risultano letture (edizioni di Amsterdam e di Liegi) di cui lui stesso ci ha fornito l’elenco nel saggio Ritratto delle cose d’Italia: Virgilio, Omero, Orazio, Locke, Sant’Agostino, Hobbes, Rabelais, Pascal, Montaigne, Saint-Simon, Villon, Shakespeare, Montesquieu, Leibniz, Plutarco, Spinoza e moltissimi altri (« Passavo il giorno sui libri, vicino alla stufa »). Allo stesso periodo risalgono anche la stesura di Viva Caporetto (a Saint-Hubert e Varsavia) e la fondazione (a Roma) del movimento artistico-filosofico internazionale chiamato Oceanismo di cui la rivista « Oceanica » costituiva la rassegna editoriale.

Dal principio del 1921, ci informa lo scrittore, e sino al settembre 1922 rimane quasi sempre a Roma: aveva dato le dimissioni dalla carriera diplomatica per dedicarsi completamente agli studi universitari e alla letteratura e a Prato non fece più ritorno se non per qualche visita di poche ore: « Vi avevo lasciato molti amici: ma ormai avevo detto addio alla mia città, e per sempre ».

A Roma frequenta la compagnia di scrittori, pittori e scultori che si incontravano nella « terza saletta di Aragno » (Cecchi, Savinio, De Chirico, Spadini, Bontempelli, Pirandello, Soffici, Socrate, Vergani, Francalancia, Baldini, Cardarelli, Martini, Broglio, Bacchelli, Montano, De Pisis ed altri). Bragaglia gli apre le porte del suo teatro e della rivista d’arte e di letteratura moderna « Cronache d’attualità » da lui diretta. Prezzolini, Baldini, Saffi e Cardarelli (di cui divenne amico) lo inserirono nel giro della « Ronda » dove Suckert pubblica alcune note critiche (fra le quali una sui ricordi di Massimo Gorki su Tolstoi). Abita prima in via Sardegna, in una pensione, e poi in via Brunetti insieme a Bontempelli in una stanza della pittrice Deiva de Angelis. È anche corrispondente dall’Italia del « Kurjer Polski » di Varsavia. Pubblica Viva Caporetto ricopertinandolo poi col nuovo titolo La rivolta dei santi maledetti.

Agli inizi dell’anno conosce Alberto Cianca che lo invita a collaborare a « Il Mondo », di cui era direttore, un nuovo giornale intransigente e antifascista, organo del pensiero politico di Giovanni Amendola e Suckert scrive articoli su esperienze ed avventure dei suoi viaggi all’estero e ricordi del Papa Pio XI. Ciò nonostante lo scrittore versa in condizioni finanziarie difficili senza poter contare sull’aiuto della famiglia che, per altro, lo rimproverava di aver lasciato la carriera diplomatica (con avvenire e stipendio sicuri) per dedicarsi alla letteratura. La povertà lo costringe ad abbandonare anche l’Università e vive di collaborazioni giornalistiche (« Il Mattino », « Il Tempo », e soprattutto « La Nazione ») occupandosi variamente, con articoli sindacali, di lavoratori e del rapporto proletariato-fascismo-rivoluzione.

Nella primavera entra in rapporto con Piero Gobetti e si avvicina così al gruppo di giovani intellettuali raccolti intorno ad « Ordine Nuovo » (dove Gobetti era critico teatrale) e a Gramsci. In seguito agli articoli apparsi sul « Mondo », Gobetti gli offre di scrivere (chiusa ormai « Energie nuove » nella quale pensava di convogliare la giovane élite rivoluzionaria) su « Rivoluzione liberale » (che aveva fondato in quell’anno e nucleo dell’intellettualismo antifascista) dove Suchert pubblicò saggi sul Dramma della modernità (la crisi italiana espressione non della crisi di una nazione ma di una civiltà, contrasto tra civiltà protestante e cattolica), scritti poi ripresi e riuniti nel libro L’Europa vivente. Teoria del sindacalismo nazionale del 1923.

Quella con Gobetti fu un’importante ed affettuosa amicizia:

Tutte le volte che da Torino veniva a Roma – e mi sembra molto interessante questa confessione di Malaparte – non mancava di farmi visita (abitavo allora in una stanza mobiliata di via Lucina presso certi signori Manara), per scambiare con me idee, giudizi, specie letterari, impressioni, previsioni, etc. Passavamo lunghe ore insieme a discutere di ogni sorta di problemi, sociali, letterari, politici, religiosi. Su un punto solo non eravamo d’accordo: sulla guerra. Egli svalutava l’importanza morale della guerra per le giovani generazioni, io, forse, la sopravalutavo. Egli era più giovane di me, non aveva partecipato alla guerra, perciò era molto più freddo, più sereno, molto più obbiettivo di fronte al dramma della guerra. Era anche molto più libero nei suoi giudizi, poiché non era impacciato e appesantito dalla retorica patriottica di noi reduci. La guerra, per me, era già una mia tradizione personale, la mia prima, fondamentale, esperienza di vita. Non potevo, perciò, essere obbiettivo, né libero, di fronte alla guerra. Ed è appunto il fatto “guerra” che mi ha impedito di essere un antifascista, allora.

Ma, nonostante questa diversità di vedute su un problema fondamentale, quale era appunto l’esperienza della guerra, la loro amicizia era profonda e sincera e Suckert riporta ciò che Gobetti, prevedendo la sua fatale evoluzione in senso nazionalista, spesso gli diceva: « È la retorica patriottica che ha creato il fascismo: per fortuna lei si salva, perché ha molto ingegno, perché è uno spirito libero, e perché è il contrario di un fascista. Lei non sarà mai fascista » [il corsivo è mio, n.d.a.], non valutando appunto abbastanza il « fatto guerra » ed il valore che la guerra aveva, come esperienza morale, per i giovani che vi avevano preso parte: « Sebbene di formazione intellettuale diversa », scrive Suckert

io ero più compromesso con la letteratura classica, con i vecchi schemi della letteratura latina e italiana; egli era meno nutrito di classici, più teoricamente esperto di problemi sociali moderni; io possedevo un’esperienza, sia pur modesta, di azione politica e sociale, che egli non possedeva (ma a cui aspirò sempre, ma vanamente, in tutta la sua breve vita); la nostra amicizia fu vera, affettuosa, inalterabile. Serbavamo entrambi un’assoluta libertà di critica reciproca: spesso eravamo dissenzienti su questo o quel problema, spesso abbiamo anche polemizzato garbatamente. Ma la nostra amicizia non ebbe incrinature. Egli prevedeva che, dato il mio passato di repubblicano e di volontario di guerra, io avrei compiuto un’evoluzione in senso nazionalista. Io prevedevo che, data la sua formazione culturale troppo teorica e libresca e la sua mancanza di esperienza pratica dei partiti politici e della loro azione, egli avrebbe compiuto un’evoluzione in senso astratto teorico-filosofico e che, attraverso la teorizzazione del liberalismo, egli si sarebbe compromesso con gli atteggiamenti politici dei partiti borghesi. Piero Gobetti, infatti, si orientava sempre più verso un liberalismo di estrema sinistra, sebbene fosse impacciato, in questa sua evoluzione, del tutto intellettualistica, dal suo rispetto di discepolo per uomini diversissimi tra loro, quali Giovanni Gentile, Benedetto Croce, Guelfi, Amendola, ecc. Di questo impaccio egli doveva più tardi liberarsi polemicamente, rimanendo dopo il ’24 un isolato nella stessa posizione antifascista, ridottasi a schemi puramente moralistici e parlamentaristici.

Il rapporto con Gobetti chiarisce molte cose della posizione ideologica di Malaparte in questo periodo. Il clamore suscitato da Viva Caporetto aveva concentrato sullo scrittore ventitreenne la curiosità e l’interesse del pubblico e in particolare di quell’élite rivoluzionaria del dopoguerra sopra accennata. Il giovane si accorgeva, altresì, che il suo disagio morale, al rientro in Italia, non era conseguente alla sua esperienza o situazione personale, ma comune a tutta la « gioventù colta e intelligente ». Tornato in patria pieno di fede nella rivoluzione italiana era rimasto profondamente deluso dai metodi antiquati, romantici e incerti coi quali uomini inadatti, e tenacemente fedeli alla tradizione cosiddetta piccolo-borghese del « rivoluzionarismo » italiano, conducevano la lotta:

Il proletariato era, o mi parve – afferma lo scrittore – non solo immaturo per una prova decisiva, ma profondamente disorientato. Un’estrema faciloneria regnava nei partiti rivoluzionari. Avevo pensato, in principio [...] di riavvicinarmi al Partito repubblicano: ma me ne tenni lontano non appena mi accorsi che esso era rimasto fermo a Garibaldi e a Mazzini, né riusciva a liberarsi degli schemi del patriottismo e dell’ordine sociale piccolo-borghesi. Dopo aver visto da vicino i metodi, e lo spirito, della rivoluzione russa, il problema della rivoluzione italiana [i corsivi sono miei, n.d.a.], quale era concepito e impostato, sul terreno teorico e pratico, dal Partito repubblicano, mi appariva antistorico, e sostanzialmente reazionario, tanto nel senso politico quanto nel senso sociale.

Da qui l’avvicinamento a Gobetti alla cui figura occorre riportarsi per giudicare l’attività del Suckert in quegli anni. Nell’estate del “22, poi, dopo il fallimento dello « sciopero legalitario » (che permise al fascismo di vincere « la battaglia decisiva per la conquista dello Stato », come scriverà nella Tecnica del colpo di Stato), Suckert fu molto turbato della crisi politica italiana che assumeva aspetti e proporzioni preoccupanti, soprattutto nei confronti della classe operaia la quale era stata abbandonata a se stessa:

Distrutte, o occupate con la forza, le Camere del Lavoro, disperse con la violenza le organizzazioni sindacali rosse e bianche, stracciati i contratti collettivi, gli operai erano alla mercè dei datori di lavoro, appoggiati dai Fasci e dalle bande armate fasciste. Cominciava allora, nell’agosto 1922, quel torbido interregno sindacale che minacciava di far retrocedere la classe operaia italiana alle condizioni del 1880. Nato in una città operaia, Prato, cresciuto e educato in una famiglia dove gli operai di mio padre erano di casa (mio padre era un tecnico, nato dal popolo, non un industriale), io sentivo con particolare intensità i problemi del lavoro. I problemi della classe operaia non mi erano, non mi sono, non mi saranno mai estranei. A ciò io debbo questa mia fedeltà agli operai, questa mia predilezione un po’ letteraria, forse, certo molto intellettualistica, in un certo senso, per i problemi della vita operaia, cui non sono mai venuto meno in questi trent’anni di attività di scrittore.

Anche di queste problematiche Suckert parlava con Gobetti, per il quale stava intanto scrivendo il romanzo Viaggio in inferno già annunciato nelle sue edizioni, così come aveva proposto all’intellettuale torinese di « lanciar l’idea di una organizzazione sindacale basata sull’accettazione di alcuni postulati nazionali ». Ma per Gobetti la salvezza della classe operaia era il « marxismo integrale », come era necessario abbattere il fascismo « con tutte le forze e con la più assoluta intransigenza », mentre Suckert riteneva più utile modificare il fascismo dall’interno del P.N.F. Malaparte, nonostante le pressioni dei compagni di guerra, era rimasto fuori ed estraneo al fascismo e non nascondeva certo la sua avversione « per la vacuità ideologica ed il formalismo pseudo-rivoluzionario del movimento », al quale tuttavia lo avvicinava:

non soltanto la sua critica ai sistemi parlamentari e la sua polemica contro la verbosa impotenza dei partiti, ma anche la mia intima fedeltà a quella che chiamerei la mia « tradizione personale », comune a gran parte dei giovani della mia generazione: cioè la mia fedeltà alle mie medaglie, alla mia ferita, alla mia personale partecipazione alla guerra, al mio passato, insomma, di combattente. Troppo vivo e recente era il ricordo della guerra, perché io potessi rinnegare i sentimenti che il ricordo della guerra suscitava nei combattenti: un misto di orgoglio e di orrore, di pietà e di vanità, di rivolta e di compiacenza.

Quella fatale evoluzione in senso nazionalista prevista da Gobetti stava maturando e lo scrittore andava sempre più persuadendosi che era dovere di ogni buon italiano entrare a far parte del movimento fascista per tentare di influire sullo sviluppo del movimento stesso. Ma la sua formazione culturale, il senso di smarrimento e di isolamento negli anni del dopoguerra, le lotte intestine tra Partito socialista e Partito comunista, la propaganda marxista che condannava e rifiutava proprio quella gioventù interventista e volontaria di guerra, contribuirono ad influenzarlo: « tanto più che essendo il fascismo, in quel tempo, tendenzialmente repubblicano, esso appariva come il naturale punto di incontro di tutti gli elementi interventisti, i volontari di guerra, ecc. di origine democratica e repubblicana, che l’antifascismo, diffidandone, teneva lontani ».

Anche altre motivazioni furono addotte dallo scrittore:

Se la mia famiglia fosse rimasta a Prato, se io avessi potuto ritornare a vivere tra i miei vecchi compagni operai degli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, a contatto con la massa operaia pratese, è certo che la mia evoluzione si sarebbe compiuta in senso marxista. Ma abitavo a Roma, solo, in condizioni di miseria, in un ambiente letterario agnostico, o decisamente borghese. I miei rapporti con Gobetti erano rimasti molto affettuosi: ma egli viveva lontano da me, a Torino completamente assorbito dalla sua febbrile attività di direttore di « Rivoluzione liberale » e del « Baretti », e dalle sue cure di editore. D’altra parte io ero spinto all’azione: la nostalgia dell’azione, l’impulso all’azione, erano il male caratteristico delle generazioni che avevano fatto la guerra.

Finché, come scrive al Procuratore Generale del Regno:

Ebbi, nell’agosto 1922, un colloquio col capo del Partito Repubblicano di Firenze, Avv. Giulio Meschiari, anch’egli volontario di guerra, che mi consigliò di entrare nel P.N.F. per rafforzare la tendenzialità repubblicana, tali essendo le direttive ufficiose impartite alle Sezioni provinciali dalla Direzione del P.R.I.. Eguale consiglio, ma più vagamente, mi diede il Segretario del P.R.I., Casalini, che io visitai in quel tempo a Roma, in Via Montecatini. Non mi dilungo su questa mia crisi di coscienza, che è stata quella di quasi tutta la mia generazione. Dirò che alla metà di settembre del 1922 mi decisi finalmente a inviare una lettera di adesione, pur con molte riserve, al Fascio di Firenze, dove fui iscritto in data 20 settembre 1922. Scelsi il Fascio di Firenze, perché esso era, allora, un Fascio Autonomo, in lotta col P.N.F. E poiché Umberto Fasella, già Segretario del Fascio Autonomo, e Segretario della Camera del Lavoro di Firenze (organizzazione che egli aveva creato a Firenze solo da poche settimane), era stato espulso dal Fascio proprio in quei giorni, mi fu affidata la Segreteria della Camera Italiana del Lavoro. Questa carica era gratuita, e perciò nessuno la voleva.

Nel Fascio Autonomo Kurt ritrovava tutti i vecchi compagni dell’interventismo e del volontarismo. Informa subito Gobetti della decisione e per rassicurarlo del proposito di dedicarsi non alla politica militante, ma all’opera di organizzazione e di assistenza della classe operaia e gli ripropone l’idea della necessità di creare un’organizzazione sindacale nazionale, italiana, ad evitare che si scagliasse anche contro di essa l’odio cieco degli squadristi, i quali non riuscivano di certo a distinguere fra marxista e antinazionale, fra un operaio e un antitaliano, fra una organizzazione sindacale e una organizzazione antifascista. Gobetti che già lo aveva avvertito: « Te ne pentirai. Ti renderanno la vita dura. Non sei fatto per loro. E loro non sono fatti per te. Diffideranno di te » [il corsivo è mio, n.d.a], gli scriverà il 14 ottobre 1922:

In quanto al sindacalismo, sono sicuro che una persona intelligente come lei non potrà andar a lungo d’accordo, coi fascisti, e mi scusi, ma lo spero vivamente. Del resto penso che per rinnovarsi ed essere italiani sul serio, gli operai non abbiano bisogno di dichiararsi italiani: anzi, la via maestra per la redenzione del proletariato continua ad essere quella sentita come più aderente alle reali condizioni storiche del proletariato: ossia la via rivoluzionaria, sovversiva, mitica. Ci torneremo dopo questa parentesi fascista, così confusa che hanno potuto accogliere anche Lei (proprio non me lo aspettavo), che ne è l’antitesi [il corsivo è mio, n.d.a.]. Oggi bisogna dare tutte le nostre forze a combattere il fascismo. Le ho parlato molto sinceramente: creda alla mia amicizia.

Gobetti aveva visto giusto e la scelta per « crisi di coscienza » poi condizionerà Malaparte per tutta la vita, anche dopo la morte. Mi sembra tuttavia importante riportare la dichiarazione inviata nell’ottobre del 1945 dallo scrittore al Commissario per l’avocazione dei profitti di regime (Ministero delle Finanze-Roma), nella quale, tra l’altro si legge:

Sono stato iscritto al P.N.F. dal 20 settembre 1922 al 18 gennaio 1931. Non ho mai coperto cariche né politiche né amministrative. Non ho mai fatto parte di consigli d’amministrazione. Non ho mai avuto né prebende né sinecure di alcune genere. Non sono mai stato squadrista. Non sono Marcia su Roma, né Sciarpa Littoria. Non sono neppure cavaliere della Corona d’Italia. Ho sempre svolto la mia attività nel campo professionale, giornalistico e letterario. Ho abbandonato il P.N.F. nel gennaio del 1931, emigrando in Francia e in Inghilterra [...] Ho sofferto in quel periodo soprusi e persecuzioni dal fascismo ».

Ed il tutto veniva dimostrato con l’appoggio di « documenti ufficiali » provenienti dagli archivi dell’Ovra e messi a disposizione dalle Autorità Alleate.

Si trasferisce, quindi, a Firenze per il nuovo lavoro di sindacalista e vi rimane « […] durante e dopo la marcia su Roma, fino al marzo del 1923, in una camera mobiliata di via della Madonna, senza risorse, senza aiuti, col solo provento delle mie collaborazioni al giornale “La Nazione” », dove uscivano i suoi interventi sindacali che ritroveremo poi in L’Europa vivente. Il 30 settembre aveva già pubblicato su « Camicia Nera » l’articolo Il paradosso della lotta di classe discutendo di marxismo, rivoluzione, socialismo, fascismo, sindacalismo e del concetto economico marxista introdotto dal fascismo nella lotta di classe, al fine di conciliare capitale e lavoro senza più rivalità e vendette di casta. Suckert interveniva nei contratti di lavoro annullando i patti conclusi e dichiarando validi solo quelli stipulati coi legittimi rappresentanti della Camera italiana del lavoro, proteggeva, garantiva e rappresentava i lavoratori, difendendoli moralmente e materialmente, e voleva che questi fossero accolti insieme ai datori di lavoro in un solo sindacato: « Era un’opera – scrive – di difesa degli interessi dei lavoratori contro la mentalità gretta e reazionaria del fascismo di quel tempo, nettamente e crudamente padronale ». Ma comincia ad essere malvisto da chi non aveva interessi alle sue idee e che risorgesse un’organizzazione ostile ai padroni e favorevole alle conquiste dei lavoratori. Viene così avversato, calunniato, insidiato all’interno del fascismo dove è visto con diffidenza e la cui iscrizione non era stata accolta benevolmente. Gli vengono rimproverati la pubblicazione di Viva Caporetto, l’amicizia « ostinata » con Gobetti, il suo essere protestante, la collaborazione a giornali antifascisti, di essere filocomunista e a favore dei lavoratori: « bolscevico introdotto nelle file fasciste per fare opera disgregatrice e sobillatrice ». Si presentava già come un « fascista » indesiderabile e scomodo, che si era messo contro i Segretari dei Fasci, i quali paradossalmente fungevano da rappresentanti dei lavoratori e a novembre veniva cacciato: si concludeva il sogno che quello fosse il suo « lavoro ideale per tutta la vita », che lo riportava in quel mondo di lavoratori dove era nato.

Come se non bastasse la difficoltosa situazione che stava vivendo, Malaparte ripubblica (in seconda edizione col titolo definitivo) La rivolta dei santi maledetti che viene ancora sequestrato e L’Europa vivente con la prefazione di Soffici. Perduta ormai ogni speranza di essere assunto come giornalista, una volta rientrato in Italia riprende in mano il romanzo Viaggio in inferno promesso a Gobetti e annunciato in uscita per il 1924. Gobetti salva « per miracolo » il manoscritto dell’opera da una perquisizione fascista (lettera del 10 giugno 1924 da Torino, stesso giorno del delitto Matteotti) durante la quale saranno requisite anche lettere di Malaparte. Nello stesso 1924 Suckert fonda e dirige la rivista quindicinale « La conquista dello Stato » (« concepita a imitazione della “Rivoluzione liberale” di Gobetti »), il cui primo numero esce il 10 luglio: « in realtà – scrive Malaparte – usciva raramente, quando cioè possedevo le mille lire necessarie per pagare la carta e il tipografo. La tiratura era molto bassa, 500 copie ».

La rivista, che si rivelerà una voce « scomoda » per Mussolini, teorizzerà il « fascismo integrale » dal « carattere nettamente rivoluzionario » e con un partito che corrispondesse agli « ideali rivoluzionari per cui era sorto »: « O il fascismo – dichiarerà Suckert in una intervista – attua la propria rivoluzione abbattendo lo Stato liberale, e in questo caso il fascismo ha evidentemente un avvenire rivoluzionario; oppure lo Stato liberale, rafforzato dallo stesso fascismo, riesce a stroncare tutte le illusioni fasciste, ponendo la rivoluzione extra legem e soffocandola con un’opera di polizia, e in questo caso i nuclei veramente rivoluzionari del fascismo riprenderanno le ragioni ideali del movimento e daranno l’assalto allo Stato liberale, sul terreno insurrezionale, fino ad attuare la rivoluzione fallita nell’esperimento collaborazionista ».

Nell’articolo Il Fascismo contro Mussolini? (n. 16, 21 dicembre 1924) Suckert ammonisce il Duce e gli ricorda che tanto lui quanto il più umile fascista sono ugualmente figli e servi della stessa rivoluzione, che ha il dovere di attuare la volontà rivoluzionaria del popolo, che i fascisti delle province non ammettono deviazioni, e quindi: o attua la loro volontà rivoluzionaria o rassegna il mandato rivoluzionario affidatogli (« non è l’on. Mussolini che ha portato i fascisti alla Presidenza del Consiglio, ma sono i fascisti che hanno portato lui al potere »), perché: « o è con noi o è contro di noi ».

Riprendendo allora il discorso sull’opera in questione, è necessario conoscere i relativi particolari che ricostruisco. Malaparte stampò presso la Tipografia Martini di Prato nei primi mesi del 1921 un libro intitolato Viva Caporetto! (col punto esclamativo) che fu subito sequestrato per il suo contenuto giudicato antimilitarista, disfattista, antinazionalista ed altro ancora. L’autore allora lo ristampò subito (quindi nel ’21) con la casa editrice Rassegna Internazionale di Roma cambiando solo il titolo in La rivolta dei santi maledetti, ma anche questa « edizione » (ristampa) fu sequestrata. Nel ’23, sempre con la Rassegna Internazionale, Malaparte pubblicò ancora col titolo La rivolta dei santi maledetti una seconda edizione emendata e con l’aggiunta di uno scritto (Ritratto delle cose d’Italia, degli eroi, del popolo, degli avvenimenti, delle esperienze e inquietudini della nostra generazione) preceduto da alcune pagine introduttive (L’autore e la guerra, a firma « Gli Editori ») ed altre pagine conclusive intitolate Resultati.

Anche questa seconda edizione (terza uscita) fu sequestrata. Secondo le informazioni fornitici dallo stesso Malaparte (dal citato Memoriale del 1946 rimasto inedito fino al 1993) veniamo a sapere che ai primi del ’21 diede alle stampe il suo primo libro (« era un libro di guerra ») che aveva scritto a Varsavia. Il titolo « infelicissimo » di Viva Caporetto (senza punto esclamativo) dava un’idea errata dello spirito del libro e delle intenzioni del suo autore. Il Suckert non intendeva condannare la guerra, alla quale aveva preso parte come volontario, né fare l’apologia di fanti che, ritenuti « fuggiaschi » di fronte al nemico, erano stati la causa della sconfitta di Caporetto. Voleva, a suo dire, difendere i soldati della Seconda Armata dall’accusa di vigliaccheria e di tradimento, che Luigi Cadorna, per la sua incapacità e disumanità, aveva loro gettato addosso.

Lo scrittore non era mai stato nella Seconda Armata (non era dunque "uno" dei caporettisti), ma si trovava sulle Dolomiti, nel Cadore con la Quarta Armata, la quale poi ripiegò fino al Piave per arginare la rotta di Caporetto. Solo nell’aprile del 1918 fu inviato in Francia col Secondo Corpo d’Armata comandato da Albricci di cui si ritrovò a fare da « segretario fiorentino » scrivendo per il Comando Supremo proprio la storia (una “relazione ufficiale”) di quella Seconda Armata che, dopo essere stata a Caporetto, aveva poi combattuto a Bligny, Reims, sullo Chemin des Dames e altrove.

La sofferenza che aveva spinto Malaparte a confutare le accuse, che sembravano investire tutti i soldati d’Italia, era sincera e giustificava l’episodio bellico di Caporetto come una « rivolta » contro le sofferenze, le ingiustizie, le prepotenze, che tutti avevano dovuto subire in quei due primi anni di guerra. Guerra che era stata combattuta (pagandone le conseguenze) da chi non l’aveva voluta, mentre aveva giovato (restandone favoriti) coloro che l’avevano voluta ma non combattuta. Il libro, tuttavia, anche se sincero, era di certo inopportuno per quegli anni e fu accolto – scrive Malaparte – con « urla di indignazione » da parte dei fascisti, che ne bruciarono le copie in piazza, malmenarono alcuni librai, finché il libro fu sequestrato per ordine del Ministro degli Interni. Iniziarono gli attacchi contro di lui nei giornali e giornaletti fascisti che già pullulavano in tutta Italia, fu chiamato disfattista, disertore, traditore, vigliacco e perfino imboscato.

Diede allora alle stampe una seconda edizione, col titolo La rivolta dei santi maledetti, ma anche col nuovo titolo il libro, una volta riapparso, provocò proteste, incidenti, e violenze e fu di nuovo sequestrato. E poiché non molto si sapeva di lui (era andato in guerra a 16 anni, tornato da poco in Italia, a 23 anni, dopo un’assenza di ben sette anni trascorsi in trincea e all’estero), dato che il nome Suckert suonava strano e per di più veniva dalla Polonia, i giornali fascisti si misero a chiamarlo ebreo polacco. Per venti anni, per tutta la durata del fascismo, a Malaparte toccò difendersi dall’accusa di essere ebreo polacco o un ebreo tedesco (fu anche aperta un’inchiesta segreta nel 1936, due anni prima della campagna razziale, per appurare, su ordine personale di Mussolini, se fosse ebreo o ariano).

Gli attacchi dei giornali fascisti accentuarono la tendenza dello scrittore ad orientarsi verso gli elementi intellettuali dell’antifascismo, dai quali tuttavia lo divideva, in molti casi, una diversa valutazione della guerra, delle sue premesse e delle sue conseguenze, come detto con Gobetti. Suckert rimaneva legato al fatto “guerra”, che era stata la più valida, rigorosa e impegnativa esperienza della sua gioventù e la più sinceramente sofferta. Fin qui il Memoriale.

Nella citata Autobiografia si leggono press’a poco le stesse cose: che tornato a Roma fece pubblicare il libro Viva Caporetto (scritto ancora senza punto esclamativo) il quale fu accolto dalla generale indignazione borghese; che vari librai di Roma e province furono bastonati e le vetrine infrante; che lui stesso fu percosso malamente dagli studenti dell’Università di Roma, dove si era iscritto durante la guerra; che il libro fu sequestrato ma l’Editrice « Rassegna Internazionale » fece subito uscire una seconda edizione (la quale altro non era che la stessa prima edizione, con la copertina cambiata e col titolo nuovo La rivolta dei santi maledetti); che anche questa seconda edizione fu sequestrata, come eguale sorte toccava a una terza edizione (apparsa nel 1923 presso la stessa casa editrice); e che per non aver chiesto la prescritta autorizzazione, il Ministero degli Esteri di cui era funzionario lo esonerava dai suoi compiti.

Da due lettere, poi, spedite dal Suckert all’amico pratese Bino Binazzi abbiamo ancora altri particolari. La prima (Roma, 5 aprile 1921):

[…] finalmente ho ricevuto le copie del mio libro. Ho fatto tirare una nuova copertina di lusso in carta tela, ed ho inondato Roma. La vendita procede molto bene, quale non l’immaginavo. « L’Avanti! » mi ha promesso una lunga recensione, e così Giovannetti del « Tempo ». Anche Panfilo Gentile, critico del nuovo giornale « Il Paese », che apparirà tra poco [...]. Ora si tratta di smussar la cosa sui giornali. Ma a me preme mostrare all’editore Bellini che ha assunto la divulgazione delle vendite, che il mio libro si smercia, in modo da invogliarlo a pubblicarmi qualcosa [...]. Ho pronto l’altro volume Le nozze degli eunuchi [...] prima di buttarlo fuori, aspetto di conoscere l’esito di Viva Caporetto...

La seconda lettera (Roma, 11 aprile 1921):

[…] mio fratello le avrà già recapitato il mio libro con la nuova copertina, e raccontato il pandemonio successo all’apparizione del mio primo e, forse, ultimo capolavoro [...]. Dunque il volume è stato esposto nelle vetrine delle librerie di Roma, mercoledì della settimana scorsa.[...] Il successo pareva discreto. Quand’ecco che squadre di fascisti, armati di randelli, irrompono nelle librerie ingiungendo di togliere il mio libro dalle vetrine e minacciando rappresaglie se i librai si fossero arrischiati a venderlo. Patatrac! I librai, impauriti, ubbidiscono. Così, per quanto il mio libro continui ad essere richiesto, i librai non lo vendono per paura del peggio. Mi reco al Fascio a protestare e quei monopolizzatori diciottenni del patriottismo mi rispondono per bocca del loro segretario, l’ex colonnello effettivo Vallesi (si figuri che mentalità): « Non è niente, questo! Un giorno o l’altro toglieremo dalla circolazione anche lei. Intanto sappia che oggi i più forti siamo noi e che ce ne infischiamo delle proteste. Il titolo nuovo? La rivolta dei santi maledetti. Vediamo un po’ chi la spunta. Così nella recensione che ella mi farà, parli del libro, come se il titolo fosse il nuovo, e accenni al fatto fascista [...].

Malaparte, vedremo, ritorna su questi fatti ben trentacinque anni dopo, quando nel 1955 pubblica da Garzanti il meglio delle puntate apparse nella sua rubrica su « Tempo » col titolo Due anni di « Battibecco » 1953-1955 con una prefazione (intitolata Prigione gratis e datata: Forte dei Marmi, maggio 1955) che poi sarà riproposta tale e quale nel volume Battibecco (1953-1957) delle « Opere complete » per Vallecchi nel 1967. Nella prefazione, che è quasi una sintesi del contenuto de La rivolta, vengono riconfermati, tra l’altro, i fatti di tanti anni addietro: che sulla guerra del 1915 ha scritto il suo primo libro, La rivolta dei santi maledetti, il quale, stampato nella tipografia Martini di Prato e apparso nel 1920, ebbe un successo clamoroso suscitando aspre polemiche; che tanto la prima, quanto la seconda e la terza edizione, pubblicate dal Palmarocchi [che aveva fatto parte del primo comitato di redazione del settimanale « L’Unità », nota dell’a.] nella casa Editrice Rassegna Internazionale, furono sequestrate prima da Giolitti, poi da Nitti e Mussolini. La sorella di Malaparte, Edda Suckert, nel 1991 confermava che la storia di Viva Caporetto era stata molto movimentata, fin da quando il Generale Albricci chiese a Suckert di scrivere la storia della Seconda Armata, quella di Caporetto9 [stessa informazione del Memoriale, nota dell’a.]; che l’anno era il 1918, dopo la vittoria, ed il fratello si trovava in Alta Europa, nelle terre occupate militarmente; che lavorò al suo primo libro per tutto il 1919, ma il Generale, ascoltata la prima stesura si arrabbiò e si sfogò con un cicchetto ben severo.

Non meno complesso anche l’iter della stesura del libro mai del tutto definita e che è opportuno ripercorrere. Dopo l’armistizio – inforna Malaparte nell’Autobiografia – nell’inverno tra il 1918 e il 1919, le truppe italiane che si trovavano sul fronte francese furono inviate in Belgio. Fu appunto qui, a Saint Hubert, che scrisse questo suo primo libro: nel quale sosteneva apertamente la tesi che Caporetto era stato non una disfatta militare, ma una rivolta della fanteria, cioè del proletariato della guerra. Nel Ritratto delle cose d’Italia si parla ancora di quel lontano libro scritto con furia, con passione, con disperazione d’italiano e di fante, sempre nella casa tetra di Saint Hubert, nel mese di dicembre che seguì l’armistizio e, più avanti, indicando il titolo afferma che passava gran parte del giorno e della notte a scrivere La rivolta dei santi maledetti (si noti che Malaparte non lo chiama Viva Caporetto). La stesura risale dunque al dicembre 1918, ma con un’aggiunta a parte: nelle edizioni (e ricopertinature) del 1921 il libro chiude con in calce un’altra datazione: « Varsavia – nelle giornate di sangue e di battaglia del 1920 ».

La circostanza di una ripresa di scrittura è certificata in quel capitolo finale, Resultati, inserito nel 1923 dove, in una specie di « cappello » che introduce i fatti narrati, si legge di come fu poi indotto « ad aggiungere al libro alcune pagine ». Facendo quindi riferimento al fenomeno rivoluzionario russo di cui parla al termine dell’ultimo capitolo del libro, lo scrittore colloca la fine di quella stesura (effettuata nel dicembre del ’18), nel gennaio del 1919 : quindi stesura dicembre 1918-gennaio 1919 in Belgio, con aggiunta di una parte finale nell’agosto 1920 a Varsavia, mentre la compilazione della citata relazione ufficiale per Albricci risulterebbe posteriore alla fine campagna (novembre 1918) e prima che il generale rientrasse in Italia (febbraio del 1919). La redazione, invece, del Ritratto... risale al luglio del 1923, come si legge in una lettera del giorno 27 a Binazzi: « [...] ho ultimato in questi giorni un lungo Ritratto delle cose d’Italia, degli eroi, del popolo, degli avvenimenti, delle esperienze e inquietudini della nostra generazione da premettere alla seconda edizione della Rivolta dei santi maledetti [...] ».

Dalle ricerche da me effettuate per l’allestimento della curatela delle Opere scelte per il « Meridiano » della Mondadori10, è stato possibile riordinare e precisare meglio tutta la materia dalla quale ha avuto origine il libro. Durante le frequentazioni parigine (sopra registrate) tra il 1915 e il 1919, uno dei punti di riferimento di Kurt Suckert era Montmartre. Scrive sempre a Binazzi (da Versailles il 29 aprile del 1919) di essersi « intrufolato nel quartiere di Ménilmontant (apaches) » e di aver « cantato e sghignazzato nei cabarets e nei casinos (in senso buono, alla franzosa) di Montmartre ». Nel Ritratto, dopo l’affermazione che rimase a Parigi fino all’ottobre del ’19, ricorda le « pazzie di Montmartre ». Nel quartiere il giovane Suckert frequenta il « Lapin Agile », una rustica osteria di periferia che originariamente si chiamava « Cabaret des Assassins » per gli accoltellamenti e le uccisioni tra i frequentatori e per un delitto di cui fu sospettato il proprietario (certo Frédé che aveva avuto anche un figlio ammazzato), il quale, per cancellare la brutta nomea del suo locale delle male notti, incaricò André Gill di dipingere sull’entrata un coniglio che scappava da una padella (simbolo innocente da contrapporre all’oscuro e losco passato del ritrovo). Dalla firma apposta sotto dal pittore (A. Gill), la gargotta fu subito, con un gioco di parole, ribattezzata da « Le Lapin à Gill » (Il coniglio di Gill) in « Lapin Agile » (Il coniglio agile).

Frequentata da Picasso, Max Jacob, Apollinaire, Carco, Modigliani, Utrillo e tanti altri (tra i quali Soffici, come vedremo), in quella taverna c’erano tutti e vi si radunavano artisti, scrittori e poeti di ogni nazionalità e mentalità che in quegli anni approdavano a Parigi per incontrarsi a Montmartre e vivere una vie de bohème. Anche Kurt passò di lì e risulterebbe (come scrive la sorella Edda) che abbia collaborato a « La vache enragée », un bollettino del cabaret nel quale venivano pubblicati i dibattiti che vi si tenevano, mentre Frédé faceva annotare dai frequentatori firme e pensieri su un « Giornale di bordo » che ispirerà poi, di certo, l’omonimo titolo di un libro di Soffici del 1915.

Dalla pratica e dalla frequenza con le diverse posizioni intellettuali, culturali e politiche che i suoi compagni di strada (solo di qualche anno più « vecchi » di lui) discutevano, elaboravano e diffondevano, il Suckert assorbiva conoscenze, concetti e formava la sua mente, in quanto lì le intelligenze si esercitavano a trarre « […] dal guscio delle parole la polpa viva delle idee significate ». In La morte del « colore locale » (datata: Parigi 1919), uno dei due capitoli che precedono Le nozze degli eunuchi del 1922 (libro edito presso la stessa Rassegna Internazionale di Roma, con sul frontespizio la scritta: « Camminiamo alla ricerca dell’infinito » e un’antica stampa raffigurante una girovago con una bandiera dispiegata sulle spalle nella quale si leggeva « Viva l’Oceanismo »), lo scrittore ci fornisce un’interessante ricordo del suo mons martyrum:

Ogni lunedi sera i Sapienti si riunivano a conciliabolo nel cabaret del « Lapin Agile », per discutere del quid divinum in humano dinanzi a un bicchiere di birra bavosa. Chi erano i Savi? Gente che aveva in orrore gli uomini pur amando l’umanità, che preferiva la meditazione alla pratica, il pensiero all’atto, il desiderio alla volontà, che sdegnava l’arrabbiarsi cotidiano dei piccoli uomini; gente di tutte le razze, nemica di tutte le barriere, mentali e pratiche, negatrice di tutte le patrie, di tutte le famiglie, di tutte le società. Uomini d’arte, “internazionali”, astrazionisti, oceanici [il corsivo è mio], fatalisti, cercatori di assoluto e di universale, nemici di ciò che è frammento e riduzione. Riuniti a conciliabolo, essi parlavano d’arte: di quel po’ d’infinito, cioè, ch’è mescolato alla nostra umana esistenza.

E, dopo aver descritto gli interni della taverna-sotterraneo, Suckert continuava: « […] i Savi del “Lapin Agile” non alzavano mai gli occhi alle pareti. Seduti intorno a rozze tavole di legno […] i poveri cercatori di assoluto parlavano d’arte dinanzi alla relatività di un bicchiere di birra bavosa [...] e fra i musicisti [...] la parola che più spesso ricorreva era: “infinito, infinito, infinito’ [...], fra i pittori [...] le parole : “luce, sintesi, infinito’ [...], fra gli scultori [...]: “dinamismo, sforzo, plastico, unghiata, movimento, movimento, movimento’ [...], fra i poeti […] la parola più spesso pronunciata: “infinito, infinito, infinito’. Questo avveniva, ogni lunedì sera, nella taverna di Montmartre, mons martyrum ».

Poi il giorno dopo, martedì, usciva da una oscura tipografia la « Vache enragée », organo del « Lapin Agile », dove i Sapienti proclamavano la loro volontà di vivere e di creare la vita e nessuno, nel mondo, sapeva dell’esistenza di quel cenacolo di Savi se non quei pochi che vivevano nell’attesa di un prossimo ritorno della verità. Anche il giovanissimo Kurt (con in testa frasi come: « Bisogna mettersi in cammino », « Partire alla conquista della vita », « Ritrovare il senso oceanico della vita », « La vita ci soffoca, finirà per ucciderci », « Bisogna sfondare i compartimenti stagni dei nostri cervelli », e via dicendo) diventerà cercatore d’assoluto e di infinito, di internazionalismo e universalismo, di vitalismo e dinamismo.

Quel senso oceanico della vita che lo aveva plasmato lo caratterizzerà, con ritocchi e maturazioni, anche negli anni a venire e costituirà il nucleo generativo dei primi due libri: Viva Caporetto, appunto (poi La rivolta dei santi maledetti) e Le nozze degli eunuchi. In quest’ultimo, tra l’altro, nel capitolo Zarathustra il bolscevico si legge di « Zarathustra uomo-dio diventato uomo umano » e del « piccolo uomo che aveva ripreso a camminare a fianco di Zarathustra »: quel Zarathustra della volontà di verità per il superamento di se stessi (con l’analogia tra i Savi parigini e i Dotti nietzschiani, riscontrabile in Suckert), della luce che cerca, in cammino, il creatore di una nuova verità. Lo Zarathustra, vale a dire, di una conversione alla quale nessuno crederà e che resterà per ognuno l’anticristiano, l’antiborghese, il distruttore della morale, il rovesciatore di tutti i valori, aizzatore di plebi, predicatore d’odio e di violenza.

Così verso la fine del 1920, rientrato a Roma, lo scrittore fonda il Gruppo Internazionale d’Arte e Cultura « L’Oceanica », con relativa rivista, con sede in Piazza Montecitorio 127 e ne scrive a Binazzi il 28 novembre 1920. Ma è la lettera del 12 dicembre a Soffici (su carta intestata del « Gruppo ») quella che più interessa. In essa si annuncia che col 1° Gennaio inizierà la pubblicazione (tiratura 5000 copie) di una grande rivista di “cose” d’Arte, redatta in francese e in italiano che avrà una grande diffusione all’estero affidata a « The Studio » di Londra, alla « Donauland » di Vienna, alla « Zdroj » di Varsavia, e alla « Librairie Internationale » di Ginevra. Vi collaboreranno molti fra i più valenti scrittori d’Europa e Suckert si mette a disposizione per tutte quelle notizie che Soffici desidererà avere sul movimento intellettuale straniero, essendo il “Gruppo” in corrispondenza con tutti i maggiori centri artistici europei (anche quelli della Russia dei Soviet, dalla quale manca da soli due mesi). Lo prega inoltre di mandare qualcosa di inedito per il secondo numero della rivista « Oceanica », mentre potrà leggere, sul primo numero, il manifesto dell’Oceanismo, certo che lo troverà d’accordo con loro. Segue la firma del “Direttore del Gruppo”, Curzio Suckert, ed il seguente post-scriptum: « Tu forse non ti ricordi di me. Ma se qualche volta ti sovviene del povero Apollinaire e del Lapin Agile, il mio nome finirà per tornarti alla memoria. »

Il numero 1 di « Oceanica » (rivista quindicinale del gruppo internazionale d’arte e cultura) diretta da C. Erisch Suckert [sic] esce il 1° gennaio 1921 e contiene, tra l’altro, il Manifesto dell’Oceanismo, a firma di Suckert, nel quale trovano concretizzazione scritta gli echi parigini di quel senso oceanico della vita (unito al coraggio di sentirsi umani), dell’essere cercatori di assoluto, del ritenersi spiriti liberi per ridare agli uomini il senso dell’universale e di considerare, a costo di essere chiamati bolscevichi, i complessi problemi del tempo non nello stretto ambito dei pregiudizi borghesi, della famiglia, della patria e della cultura, ma in quello dell’umanità e della vita: di riprendere in esame le relazioni tra uomo ed uomo, tra l’uomo e l’infinito, non con lo spirito utilitario della cultura borghese, ma con lo stesso spirito universale che riallaccia la vita dell’uomo a quella della natura e l’accomuna in un’aspirazione unica di spazio e di bellezza. In calce al Manifesto l’indicazione: Varsavia-Roma 1920 ci riporta, come stesura, al periodo della permanenza del Suckert a Varsavia dopo aver lasciato Parigi nell’ottobre del 1919. Ed è proprio a Varsavia, come visto, che lo scrittore termina Viva Caporetto con l’aggiunta, alla parte scritta nel 1918, delle ultime pagine sull’invasione sovietica.

Il n. 2 di « Oceanica » esce il 15 gennaio 1921 e, tra le altre cose, vi leggiamo la prima parte del testo La morte del « colore locale » (di cui sopra), l’altro testo La caricatura di Faust (datato: Bruxelles, febbraio del 1919), come anticipazioni – entrambi – del libro Le nozze degli eunuchi e la spiegazione (firmata « Gli Oceanici ») di Che cosa è l’Oceanismo (essendo stato, il Manifesto pubblicato nel precedente numero, ritenuto “astratto” e non da molti capito). Nella chiusa finale troviamo l’importante chiarimento (sul quale ritornerò più avanti) che l’Oceanismo è il movimento artistico-filosofico più diffuso e moderno d’Europa (Parigi, Germania, Cecoslovacchia, Polonia, Russia) e i cui « Gruppi » stanno lavorando al disopra di tutte le passioni di razza e di politica alla ricostruzione dell’internazionale socialista e si legge che « […] in Francia, il Gruppo “Clarté”, capitanato da Henri Barbusse, non è se non una manifestazione dell’Oceanismo ».

Nel numero 3 della rivista (1° febbraio 1921), tra l’altro, troviamo in francese una Lettera ad un oceanico svizzero (a firma C. Erisch Suckert a nome del "Gruppo") nella quale, dopo le coordinate geografiche del movimento (Parigi, Bruxelles, Germania, Polonia e Russia), viene riconfermato il carattere a-politico dell’Oceanismo (in quanto la politica è come una malattia, una sorta di febbre spagnola della quale l’umanità attende un giorno la "décomposition definitive") e, soprattutto, si chiarisce che l’Oceanismo si contrappone al rumore del futurismo e del dadaismo, preferendo la silenziosa promozione di « Groupes de propagande oceanique » per veicolare l’intuizione (contro le impressioni e le sensazioni), l’« art primitif » (contro la maniera e la tradizione, i pregiudizi e l’educazione), l’infinito e l’assoluto (contro il relativo), e quel ritrovato senso universale della vita per un uomo umano, non già “surhumain” o “soushumain”: concetto importante, quello dell’uomo umano, in quanto significato generativo de La rivolta dei santi maledetti (e presente all’interno del libro), dal momento che la rivolta era anche contro la condizione animalesca a cui gli uomini-fanti erano costretti.

Nello stesso numero sono ospitati la seconda parte del testo La morte del « colore locale » e l’esposizione dell’internazionalismo del « Gruppo ». Lo stesso Suckert (definito « apostolo dell’Oceanismo, venuto appositamente in Italia per organizzarvi un movimento italiano e propagarvi le idee », come risulta dai giornali dell’epoca), tiene conferenze in alcune città italiane per illustrare il « movimento intellettuale estero ».

Nel quarto ed ultimo numero di « Oceanica » (uscito a marzo) troviamo, con ritorni teorici sull’oceanismo, l’annuncio pubblicitario sopra segnalato e così formulato:

È uscito: Viva Caporetto! di C. Erich Suchert scritto a Varsavia durante l’assedio bolscevico. Caporetto non è un fatto militare, ma un fenomeno sociale, che continua a svolgersi anche oggi nei movimenti rivoluzionari [i corsivi sono miei] che insanguinano l’Italia. Non è un libro di guerra, questo: ma di attualità. L’autore di queste pagine, che tanto rumoroso interesse han suscitato all’estero, giustamente è stato chiamato il Barbusse italiano.

L’annuncio è posto sotto un articolo dello stesso Suckert dedicato a L’ora di Barabba di D. Giuliotti, il quale intervento, chiudendosi in forma colloquiale con l’« amico », si conclude con la seguente frase (alquanto indicativa per questa ricostruzione): « Nota bene. Sono tornato dalla vecchia Russia appena tre mesi or sono » (che ci riporta alla fine del 1920). Il riferimento a Barbusse (è facile prevedere un’autostesura dell’annuncio pubblicitario) era già stato fatto nel n. 2 di « Oceanica » dove il Gruppo « Clarté » veniva accomunato al Gruppo « Oceanico » e l’internazionalismo (di cui l’internazionalismo socialista) delle teorie ha uno spazio ben dichiarato (Parigi, Vienna, la Russia, Ginevra, Bruxelles, la Cecoslovacchia, Londra, Varsavia, la Germania): la geografia, cioè, coperta dalla rivista « Oceanica », coi suoi punti di diffusione all’estero elencati a Soffici.

Ma accanto all’autodenominazione di « Barbusse italiano », derivante da Le feu, lo scrittore francese è qui, nel contesto dell’Oceanismo, chiamato in causa soprattutto per il romanzo Clarté del 1919 da cui nacque l’omonimo movimento e la rivista « Clarté » (1919-1927) che mirava ad avvicinare, negli ideali pacifisti e di solidarietà umana, intellettuali ed operai di tutti il mondo. Anche se il movimento internazionale chiamato « Clarté » fu di breve durata, fiorì tuttavia in Francia, America, Inghilterra, Scandinavia e in Italia, dove il Gruppo barbussiano della « Clarté » era collegato ad un’« Associazione italiana del controllo popolare » fondata da Guglielmo Lucidi, non a caso editore della « Rassegna Internazionale » (ed anche finanziatore della rivista « Oceanica ») e, con questa sigla, anche delle successive edizioni del primo libro di Malaparte e del contemporaneo Le nozze degli eunuchi, nati entrambi sotto l’egida dell’Oceanismo.

Ma l’« Associazione italiana del controllo popolare » di cui Lucidi era rappresentante in Italia, derivava dall’organizzazione internazionale inglese politico-umanitario-pacifistica « Union of Democratic Control » ed era stato lo scrittore-editore toscano Roberto Palmarocchi (autore di una Letteratura francese contemporanea, una copia della quale Malaparte spedì all’amico Prezzolini il 24 maggio 1927), che lo aveva presentato a Lucidi (del quale Suckert era diventato a sua volta amico). Circostanze che spiegano sia la pubblicità di Viva Caporetto! su « Oceanica » (e relativo riferimento a Barbusse), sia la lettura di Caporetto non come « fatto militare » ma come « fenomeno sociale » (e conseguente aggancio ai « movimenti rivoluzionari » contemporanei allo scrittore), sia il richiamo all’attualità di un avvenimento non relegabile ad un passato storico, sia il « rumoroso interesse all’estero » del libro, inteso come argomento (la guerra) oggetto di discussione all’interno dell’internazionalismo pacifistico europeo.

Basti ricordare che dell’« Union of Democratic Control » faceva parte lo scrittore inglese Israel Zangwill (che nel 1922 Malaparte salverà da un arresto fascista a Firenze nei giorni della marcia su Roma, come si legge in La tecnica del colpo di Stato, cap. XIII) e che tra il Gruppo della « Clarté » troviamo Einstein, Mann, Duhamel con le sue drammatiche esperienze di medico in guerra (Vita dei martiri del 1917 e Civiltà del 1918), Rolland col suo universalismo e internazionalismo (Au-dessus de la melée del 1915) e l’austriaco Zweig col suo pacifismo e l’amicizia che lo legò a Ginevra con Rolland. Per non dire dell’altro pacifista Pierre-Jean Jouve che condannò gli orrori della guerra (Vous êtes des hommes del ’15 e Dans des morts del ’17) e di cui Malaparte fu traduttore. La luce, il chiarore, la trasparenza, la limpidezza di « Clarté » hanno molti punti in comune con l’Oceanismo del Suckert, per non dire del concetti martire-santo e di quello di uomo. Per altro le idee di “sinistra” del movimento francese avvicineranno poi al marxismo ed al comunismo molti dei componenti il Gruppo.

Perciò anche se la rivista « Oceanica » vivrà soltanto per quattro numeri, è all’interno delle elaborazioni teoriche dell’Oceanismo che nasce, viene definito e veicolato ideologicamente Viva Caporetto (con o senza punto esclamativo), con l’esigenza di internazionalizzare l’episodio italiano come momento di una visione più globale della guerra e delle sue conseguenze. Per non dire inoltre della presenza – il lettore può facilmente riscontrarlo – all’interno del testo (sia di Viva Caporetto sia de La rivolta dei santi maledetti) di parole, frasi, concetti che ritroveremo poi ne Le nozze degli eunuchi (ideale prosecuzione ideologico-letteraria di quel connotativo « colore locale » già contenuto in entrambe le edizioni dell’opera precedente) e nel citato manifesto dell’Oceanismo pubblicato dal Suckert nel gennaio del 1921: « cercatori di verità » e di « assoluto », « l’infinito » (umano e inumano), « l’universale », « l’umanità umana » [il corsivo è mio], il « senso oceanico della vita ».

Da quanto finora detto risulta evidente che il ventenne Suckert aveva già un suo “spazio” europeo nel quale si era mosso e stava muovendosi, e che il suo nome non era completamente sconosciuto all’estero, almeno all’interno degli ambienti in cui era vissuto o aveva frequentato e nei quali aveva iniziato letterariamente e culturalmente ad operare.

È stato possibile, inoltre, dalle ricerche condotte, rinvenire nella Biblioteca dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito di Roma la « relazione ufficiale » di cui parla Malaparte (l’unica esistente) sull’attività militare della Seconda Armata comandata dal generale Albricci. Si tratta di un opuscoletto anonimo (come tutte le relazioni del genere) con sulla copertina e sul frontespizio, sotto lo stemma su quattro righe, la dicitura: R. Esercito Italiano / Comando Supremo // Il II° Corpo d’Armata sulla fronte francese // Aprile-Novembre 1918. La stesura confrontata con altre relazioni simili è da far risalire, secondo la ricostruzione effettuata dai responsabili della Biblioteca, tra il dicembre 1918 (dopo la fine della campagna a novembre) e il gennaio 1919 (poiché a febbraio Albricci rientrò in Italia). Considerando il tipo di opuscoli (allestiti con finalità propagandistiche e comuni ad altre unità dell’esercito), risulta che la compilazione doveva essere quasi immediata, alla fine cioè delle operazioni. Resta comunque il fatto che queste « relazioni ufficiali » erano subordinate a due condizioni ben precise: la prima alla possibilità economica di stamparle e la seconda – che è poi quella che ci riguarda più da vicino – che ci fosse qualcuno in grado di scriverle, cosa non semplice e non facile. E Malaparte era l’unico che potesse venire incontro a quest’ultima esigenza, il che spiegherebbe l’incarico da parte di Albricci. E poiché la redazione di Viva Caporetto è da collocarsi proprio tra il dicembre 1918 e il gennaio 1919, non ci sembra azzardata l’ipotesi di una contemporanea stesura (come risulta dalle testimonianze di Malaparte) del libro e della relazione (per altro commissionata dal generale dopo la fine della campagna francese). Anzi Viva Caporetto assumerebbe il carattere di quel « Rapporto sulla guerra d’Italia » (sottotitolo, s’è detto, apparso sulla Rivolta) come la relazione ufficiale lo era sulla guerra in Francia.

La relazione, però, è anonima e solo dal riscontro del contenuto possono essere rintracciate alcune “spie linguistiche” concernenti luoghi, ore, date, nomi, elenco caduti, episodi (si pensi a quello del bombardamento a gas yprite) e lemmi (si pensi a fronte del titolo usato al femminile « la fronte », come lo era comunemente, che si ritrova nel testo al III capitolo di entrambe le edizioni di Viva Caporetto, poiché dalla prima guerra mondiale il sostantivo è diventato maschile con riferimento ad un esercito): “spie linguistiche” che ci riconducono ad una materia tipicamente malapartiana, riversata dallo scrittore già nella segnalata poesia Alla Brigata « Cacciatori delle Alpi (51-52) » e nell’altra I morti di Bligny giocano a carte, delle quali la prima, circostanza interessante, fu stampata nel 1918 dalla lito-tipografia Martini di Prato, la stessa di Viva Caporetto. Tipografia certo “oscura” ma il cui proprietario era quel tipografo radicale della cerchia di amici pratesi del giovane Curzio.

Tuttavia il ritrovamento della « relazione ufficiale », anche se allo stato attuale non è possibile attribuirla con certezza a Malaparte (nonostante i responsabili della Biblioteca pensino il contrario), non mi sembra marginale, in quanto proverebbe non solo la sua esistenza ma anche che Malaparte, menzionandola, aveva detto la verità.

Come vera è anche l’esistenza dell’introvabile Viva Caporetto, una cui copia l’ho rintracciata all’Istituto Gramsci di Roma nella Biblioteca della Fondazione.

Ne fornisco la descrizione. Copertina: Autore (in alto): C. Erich Suchert; Titolo (subito sotto in maiuscolo): viva caporetto [senza punto esclamativo, nota dell’a.]; Sottotitolo (in corsivo sulla destra): (Varsavia 1920).

Collocata al centro in basso è riportata la riproduzione di un volto con sopra la firma: Rembrandt 1635, e dovrebbe trattarsi di un particolare, non ben identificabile, di uno dei suoi tipici ritratti della madre o di anziana o di vecchio.

A piè di pagina, separata dal cliché da una linea tipografica, in maiuscolo corsivo, su tre righe, si legge questa informazione di un certo rilievo: Libro ammesso alla Biblioteca Comu- / nista di Mosca dal Comitato Esecutivo / Dell’Internazionale Comunista.

Frontespizio interno: pagina a sinistra, su quattro righe, la scritta: Edizione della rivista "Oceanica" / Rassegna dell’Oceanismo, movimento artistico - filosofico / internazionale. / Roma - Piazza Montecitorio 127 - Roma.

Pagina a destra (p.1): Autore (in alto sottolineato): Curt Erich Suchert; Titolo (al centro spostato sulla sinistra e sottolineato): Viva Caporetto! [con punto esclamativo, nota dell’a.].

Sotto il titolo al centro l’ulteriore ripetuta specificazione, in tre righe: Libro prescelto e ammesso alla Biblioteca / Comunista di Mosca dal Comitato Esecutivo / dell’Internazionale Comunista. Ancora sotto, sulla destra: Varsavia - 1920. A piè di pagina, su tre righe il colophon: - Prato - / Stab. Lito-Tipografico M. Martini / - 1921 -.

Il testo, suddiviso in XIII capitoli, occupa le pagine 3 a 138, termina con la datazione: Varsavia - nelle giornate di sangue / e di battaglia del 1920, e contiene decine e decine di refusi. Costo del volume (IV di copertina): Lire 6 (sottolineato).

Il libro, perciò, avrebbe dovuto trovarsi anche nella Biblioteca del Comitato Esecutivo del Comintern. Ma da ricerche effettuate a Mosca ho appurato che questa biblioteca fondata nel 1920 (si trovava in via Moschovaja, n. 16) aveva un fondo di quarantamila volumi ed era specializzata in politica, movimento operaio, marxismo e leninismo, storia, economia. Vi accedevano solo funzionari del Comintern. Nel 1943, a causa dello scioglimento del Comintern, la biblioteca fu chiusa e dopo la fine della guerra i libri in essa conservati furono distribuiti tra varie biblioteche di Mosca, tenendo principalmente conto in questo smembramento e dato il periodo, delle moltissime distruzioni e sottrazioni. Una parte del fondo fu trasferito presso la biblioteca del Marxismo-Leninismo (ora Biblioteca statale della letteratura politica e sociale), ma qui non esistono tracce del libro di Malaparte, come non si trovano a Mosca risconti in altre: Biblioteca Russa Statale (ex Lenin), Biblioteca statale della letteratura straniera e Biblioteca statale pubblica della storia. Né risulta nella Biblioteca statale pubblica « Saltykov Scedrin » di S. Pietroburgo. Una copia è risultata presente in una libreria antiquaria di Firenze.

La prima edizione di Viva Caporetto, quindi, esce come edizione della citata rivista « Oceanica » (organo del movimento internazionale Oceanismo di Roma di cui s’è detto), ma stampata a Prato dall’amico Martini. A questa prima edizione (prima stampa), Malaparte cambiò, in quel 1921, vista la reazione, il titolo (correzione d’autore coatta) e fece ristampare solo la copertina ed il frontespizio interno. Di questo tipo di copia ne ho rinvenuti due diversi esemplari. Il primo è quello conservato presso la Biblioteca Cantonale di Lugano (Archivio Prezzolini) e così formato: Copertina: autore (in alto): C. Erich Suchert-Titolo (al centro della pagina in maiuscolo su tre righe doppiamente sottolineato): La rivolta // dei santi // maledetti – a piè di pagina in caratteri gotici: Varsavia 1920. Frontespizio interno: pagina a sinistra, su quattro righe, la scritta: Edizione della Rivista « Oceanica »/Rassegna dell’Oceanismo, movimento artistico-filosofico inter-/nazionale./Roma-Piazza Montecitorio, 127 – Roma [si notino la mancanza di corsivi e la diversa divisione, nota dell’a.]; pagina a destra (p.1) uguale alla copertina e con la firma autografa di Prezzolini. Alla copertina, tipograficamente diversa, segue il testo con le stesse caratteristiche della prima edizione, refusi compresi. Il colophon su tre righe è passato all’ultima pagina: -Prato- / Sab. [il corsivo è mio perché trattasi di refuso non registrato da nessuno] Lito-Tipografico M. Martini/-1921-. Costo del volume (IV di copertina) Lire 6 (sottolineato).

Si tratta di un esemplare già presente nel passato in cataloghi di librerie antiquarie e, contrariamente a Viva Caporetto, ancora rintracciabile, ne ho trovato copia presso un bibliofilo di Prato e presso la Biblioteca della Columbia University di New York.

Ne descrivo la copertina (che mi sembra fondamentale). Autore (in alto). C. Erich Suchert – Titolo (al centro della pagina in carattere gotico minuscolo su due righe): La rivolta / dei santi maledetti. Sotto è posto un cliché tipografico a cerchi concentrici nel cui interno si leggono le lettere intrecciate U D C (tale cliché appare anche sul frontespizio interno ma non è stato né notato né descritto da alcuno), sigla di quell’U.[nion] D.[emocratic] C.[control] – di cui sopra – che ci riporta all’internazionalismo già argomentato sia come spazio editoriale sia come contenuto del libro. A questa descrizione va aggiunta, sempre a completamento di quanto non detto (da altri) o erroneamente ritenuto, anche la registrazione della pagina 2 nel cui centro si legge la dicitura (tra due righe tipografiche): Diritti d’autore riservati, mai apparsa in precedenza. Nella ristampa della copertina e del frontespizio sono scomparsi, come si nota, l’altra dicitura: Edizione della Rivista « Oceanica », ecc. ed è subentrata la sigla (UDC) della Casa Editrice Rassegna Internazionale.

Nel 1923 Malaparte rimette le mani al tutto, lo ristruttura e corregge, aggiunge materiali, fa ristampare completamente il libro ed esce la seguente seconda edizione definitiva: Autore (in alto): Curzio Suckert - Titolo (sotto centrale su due righe): La rivolta / dei santi maledetti - Sottotitolo (su due righe): 2° edizione (8° migliaio) / con l’aggiunta, sotto ancora su quattro righe di un: Ritratto delle cose d’Italia / degli eroi, del popolo, degli avvenimenti / delle esperienze e inquietudini / della nostra generazione; sotto il cliché tipografico ad archi concentrici sopra descritto (U.D.C.) e a piè di pagina in unica riga: Casa Editrice Rassegna Internazionale - Roma. Frontespizio interno: pagina destra (p. 3) stessa della copertina con la sola differenza dei caratteri e dell’indicazione editoriale a piè di pagina su due righe (Casa Editrice Rassegna Internazionale / Roma); pagina sinistra: in un riquadro al centro sono indicate alcune opere « Dello stesso autore » (due delle quali, per altro, mai realizzate). Ancora (p. 4): al centro, tra due linee tipografiche, la scritta: Proprietà Letteraria, a piè di pagina (sotto una linea tipografica) l’indicazione dello stampatore: Ditta Alberto Pacinotti & C. - Officina Tipografica - Pistoia. Di seguito (pp. 5-9) il testo (aggiunto) L’autore e la guerra (a firma: Gli Editori). Alla p. 11 al centro il titolo (su quattro righe: Ritratto delle cose d’Italia, degli eroi, / del popolo, degli avvenimenti, / delle esperienze e delle inquietudini / della nostra generazione) del saggio aggiunto diviso in quattro parti numerate, le quali contengono in pagine a sé (13-39-61-83) quasi uno schema sinottico e una sorta di cornice di raccordo e preambolo all’argomento poi affrontato. A p.111 al centro il titolo del testo: La rivolta dei santi maledetti (che occupa le pp. 113-266) ed infine lo scritto a sé (con titolo centrale alla p. 267) Resultati (da p. 269 a p. 278). Questa edizione della Rivolta ora descritta presenta la duplicazione del III cap. della 1° edizione alla fine della p. 31 e l’inserimento di un IV cap. all’inizio della p. 32, e così - scorrendo i capitoli - il XII della 1° edizione qui diventa XIII, ed il XIII della 1° edizione si trasforma rifatto in Resultati (testo quest’ultimo che è formulato come una sorta di peroratio conclusiva). Chiude il libro un: Indice (p. 279). Nell’edizione non figura la data di stampa, ma è possibile indicare il 1923 da riferimenti bibliografici forniti dallo stesso Malaparte, dalle sue testimonianze biografiche, dalle affermazioni della sorella Edda e, infine, da una lettera all’amico Binazzi (da Roma, il 27 luglio 1923) nella quale si legge: « [...] ho ultimato in questi giorni un lungo Ritratto delle cose d’Italia [...] da premettere alla seconda edizione della Rivolta dei santi maledetti ». Praticamente il Viva Caporetto (1° edizione con nuovi frontespizi e varie ricopertinature) era di 138 pagine e La rivolta dei santi maledetti (2° edizione) di 278 pagine.

È necessario, altresì, ricordare che, a proposito della diceria che il libro di Malaparte non voleva pubblicarlo neppure Prezzolini per le Edizioni della « Voce », lo stesso Prezzolini in un appunto-ricordo del 1962 così scrive:

Quando Malaparte era un giovane principiante, mi venne ad offrire il suo primo libro I Santi maledetti di Caporetto, come mi par si intitolasse un’operetta che faceva in un certo modo, l’apologia di coloro che avevano abbandonato armi a bagagli in quella occasione. Non mi piacque. Non dico lo stile, ma l’idea. I soldati che scappano, dicevo io, scapperanno sempre, anche se cambia il regime italiano. O, almeno ci sarebbe voluta da parte loro la dimostrazione di una grande fede, differente da quella della patria e del dovere, qualche cosa come la fede cristiana, che li avesse mossi. Ma non ce la trovavo. Ora Malaparte non se n’ebbe per male. Qualunque altro letterato italiano, credo, se la sarebbe legata al dito. O, diciamo per essere caritatevoli ed ipotetici, una buona parte me l’avrebbe giurata. Invece Malaparte no.

Mi sembra, però, opportuno ricordare anche (e questo Prezzolini non lo dice) che lo stesso Prezzolini nel 1919 aveva pubblicato un libro (scritto nel novembre 1917) intitolato Dopo Caporetto (Roma, La Voce), nel quale aveva sostenuto la tesi (« l’idea ») completamente opposta a quella del Suckert, vale a dire che la catastrofe del fronte non era una rivoluzione, e non era stata neppure una rivolta, ma era stato uno sciopero, cioè, in guerra, un suicidio, e parlava di « disgregamento morale ». Come poteva, dunque, Prezzolini pubblicare nella medesima casa editrice dove era uscito poco prima il suo libro su Caporetto un altro volume su Caporetto per giunta contrario nell’« idea » alla sua stessa tesi? Non risultano tracce inoltre né nell’archivio Prezzolini né nell’archivio Malaparte di altri contatti editoriali. Prezzolini comunque non riferisce anche, in quel suo ricordo, del giudizio negativo che poi espresse sulla Rivolta quando Suckert lo pubblicò senza il suo aiuto. Ma leggere una lettera che l’8 agosto 1923 Malaparte scrive a Giovanni Ansaldo (il quale definì l’articolo di Prezzolini « stupido ») meglio contribuisce a capire quanto accadde:

[…] Ho letto l’articolo di Prezzolini sul mio lavoro e debbo esprimerLe la mia meraviglia per la inguaribile malignità vegetariana del povero Prezzolini, che ancora mi rimprovera il mio presunto caporettismo, senza accorgersi che esso è e resta uno degli atti più sinceri, più interessanti e più giusti della mia, fin qui poca, attività letteraria. Non rinunzierò mai alla Rivolta dei santi maledetti e a ciò che Prezzolini e certi stupidissimi socialisti dell’« Avanti » e della « Giustizia » e certi imboscatissimi filistei repubblicani della « Voce » (quelli che nel 1914 non vennero con noi nelle Argonne e che durante la guerra s’imboscarono qua e là in nome di Mazzini) mi rimproverano col nome di « disfattismo ». […] Ho difeso i fanti di Caporetto dall’accusa di tradimento e di vigliaccheria, qualificando il loro gesto per una « rivolta » e non per una « fuga » [...]. Non vuol dunque capire Prezzolini, questo zitello puritano, questo « Christian Scientist », questo metodista filantropo, che nello stesso modo come ho reagito a revolverate contro chi mi sputacchiava perché ho fatto la guerra da fante volontario, sono sempre pronto a reagire contro tutti coloro che insultano e insulteranno o insultassero con la loro bolsa retorica le mie fatiche di fante? [...] Prezzolini è stato molto più idiota degli avantoidi e dei vilissimi retori della « Voce ». A furia d’esser vegetariano si rischia di diventar della famiglia dei ruminanti; i quali, se quel che so di anatomia non m’inganna, hanno nello stomaco un affare, importantissimo per la digestione, che si chiama « libro ». Ho paura che Prezzolini abbia molti di questi « libri » nello stomaco da vegetariano anglosassone. [...] Ho delle medaglie, ho una ferita, ho quattro anni di vera guerra, ho la coscienza a posto e fo quel che mi pare. Mi meraviglia che Prezzolini abbia scambiato questa mia libertà orgogliosa per il solito disfattismo di molti proletari e di molti borghesi [...].

Alla luce dei fatti argomentati, quando ho dovuto scegliere il testo da inserire nel « Meridiano » tra la stesura Viva Caporetto e la stesura La rivolta dei santi maledetti, ho ritenuto più saggio e filologicamente più corretto (e la nuova struttura del libro dimostra quanto sia importante tale scelta) riproporre l’edizione del 1923 col titolo La rivolta dei santi maledetti, in quanto si trattava di testo e titolo elaborati secondo l’ultima revisione dell’autore che, vivente, ne aveva stabilito la stesura definitiva. La scelta era stata inoltre motivata dal fatto che l’aggiunta delle citate pagine introduttive (L’autore e la guerra) non mi sembravano (e non ci sembrano neanche oggi) di doverle catalogare come una sorta di avvertenza con la quale Malaparte voleva cautelarsi, ma come semplice informazione ed illustrazione di chi era (al tempo) l’autore (dal momento che non lo sapeva nessuno), il quale aveva combattuto in trincea, già volontario, poi mutilato, ecc. e che, quindi, rispecchiava (nel contenuto del libro) la voce di uno che parlava dal di dentro della guerra stessa (dalla quale vengono recuperati quei fatti e quegli argomenti oggetto della narrazione).

Né mi sembra opportuno neanche chiedersi se è « vero o falso il nuovo mondo della grande guerra che Suckert ci disvela », sia per il contesto culturale e socio-politico sia per i modelli letterari sopra indicati (Malaparte non è il primo e il solo che scrive in tal senso), sia perché lo stesso scrittore aveva già risposto a questa eventuale « futura » osservazione addirittura – vedremo – trentacinque anni dopo (circostanza di cui non si è mai tenuto conto) nella citata prefazione a Battibecco, soprattutto quando scrive: « Tutto questo sembra oggi talmente assurdo, che appare incredibile. Ma vorrei vederlo in faccia, colui che mi venisse a dire che tutto ciò non è vero ».

Non mi sembra, inoltre, opportuno ripristinare il titolo originario di Viva Caporetto (con o senza punto esclamativo) per il fatto che il « secondo titolo » è giudicato un equivoco ripiego, in quanto il nuovo titolo La rivolta dei santi maledetti è da considerare sì – come lo stesso Malaparte ha più volte dichiarato – un ripiego-soluzione per superare la censura e il sequestro del 1921 (con conseguenti interventi di ricopertinature e nuovi frontespizi), ma trattasi – si diceva – di una correzione d’autore coatta, non certo « equivoca » o « obliqua » poiché il nuovo titolo sarà mantenuto nell’edizione definitiva del 1923 (e non è quindi più un « ripiego » occasionale visto che l’altro titolo scomparirà per sempre) ed il termine rivolta rispecchia più (dell’iniziale Viva Caporetto) lo spirito, la tesi e il significato del libro. Non è opportuno nemmeno accoppiare i due titoli e metterli insieme, essendo stato il primo titolo, una volta mutato, definitivamente abbandonato da Malaparte e non più riproposto in alcuna sede.

Inoltre il saggio introduttivo (Ritratto delle cose d’Italia...) non mi sembra debba essere giudicato « filofascista », in quanto Malaparte interpreta lo svolgimento del fenomeno rivoluzionario italiano in modo diverso, ma secondo una linea parallela a quella del fenomeno rivoluzionario russo nella contrapposizione fascismo contro bolscevismo, come in Resultati è bene spiegato. Va, per altro, evidenziata una maturazione a posteriori dello scrittore del fatto storico e quindi un riequilibrio di posizioni radicali che tuttavia non affievoliscono la vis polemica dell’opera che ancora oggi la rende attuale mantenendo il ruolo di testimonianza di un’epoca. Infine la ristrutturazione dei capitoli, la riscrittura, il riordino dell’ultimo di essi (al quale è stato dato il titolo di Resultati), le correzioni dei refusi della prima stampa, le varianti, rientrano in un procedimento normalissimo nelle riedizioni e comune a tutti gli scrittori, ma che in Malaparte (e non è da sottovalutare questo aspetto) costituisce il suo vero e proprio esasperato modo di operare, caratterizzato da continui interventi, rifacimenti, aggiunte, ripensamenti e via dicendo, sempre in lotta con la sua insoddisfatta esigenza di migliorare il testo e che costituiscono il suo immenso lavorare sulla pagina da artigiano della scrittura che Pampaloni sintetizzò nel giudizio: « In apparenza improvvisatore, era in realtà uno sgobbone. Se poté apparire un avventuriero del vivere, non fu sicuramente un avventuriero della letteratura ». Tutte le opere di Malaparte hanno subito questo trattamento, per altro documentabile.

Dal riscontro effettuato tra la prima stesura apparsa nel 1921 e la seconda edizione definitiva uscita nel 1923, risultano all’interno dei singoli capitoli una serie di varianti tutte registrate nella citata Notizia al testo che correda il « Meridiano » in questione ed alla quale si rimanda per ovvi motivi e per conoscere altri curatori ai quali queste osservazioni (da me virgolettate) sono rivolte. Il criterio adottato è stato perciò sostanzialmente quello conservativo, valutando positivamente l’attendibilità dell’autore, sempre del resto molto attento alla sua scrittura.

Gli interventi che sono stati registrati, siano essi stilistici, formali, integrativi, lessicali o miranti ad attenuare la crudezza di una certa terminologia ed il tono in qualche passaggio acre ed esasperato presente nella prima stesura; le frasi e i periodi tolti o aggiunti; le annotazioni (glosse intese come bisogno di spiegazione) ed altri marginali emendamenti, non mutano né la tesi né l’identità del saggio, del quale vengono salvaguardate le coordinate ideologiche individuate – provenienti dai germi rivoluzionari nazionali e internazionali – nell’insieme: rivoluzione collettiva (bolscevismo)-rivoluzione individuale (fascismo). Né vengono censurati i massacri, i sacrifici, le morti, come sono confermate le colpe e le responsabilità, i giudizi e le affermazioni accusatorie, vale a dire che l’asse portante del pamphlet (costruito sulla verità e sulla difesa del popolo) non viene spostato né demolito per dare spazio ad altri sostegni (politici o ideologici) all’architettura iniziale. Al contrario le ultime pagine (aggiunte ex novo) nell’edizione del 1923 confermano in proiezione « idee » e « fatti », « avvenimenti » e « sviluppi », « previsioni » e « fenomeni »: quasi che il resultato finale fosse la conseguenza-rivelazione di un effetto evidente, l’esito provato di un’idea preesistente o che si sospettava fosse tale, e quindi constatazione o conferma dell’impressione.

Riporto anche le citate aggiunte pagine introduttive L’autore e la guerra (a firma « Gli Editori »), del resto sopra ricostruite:

Gli editori credono opportuno premettere a questa seconda edizione alcune brevi notizie intorno al modo come l’autore ha di persona affrontato il dramma della guerra. Ciò soprattutto per rimediare all’ingenuità dell’a., cui è sembrato inutile, a torto, di far conoscere ai lettori della prima edizione il suo stato di servizio in guerra, parendogli che bastassero all’uopo le cose dette nel libro. Qualche mese dopo lo scoppio della guerra europea, l’a., allora giovanissimo e segretario della sezione di Prato del Partito Repubblicano fuggiva ad arruolarsi volontario nella Legione Garibaldina delle Argonne, unico fra i pochi interventisti della sua città. Tornato in Italia nell’Aprile del 1915, (accolto trionfalmente a Firenze, era invece bastonato al suo arrivo a Prato, da una folla di onesti cittadini, fra i quali molti che oggi sono... ma lasciamo andare!) l’a. prendeva attiva parte alla campagna rivoluzionaria per l’intervento, a Firenze, a Roma, specie a Milano, col gruppo corridoniano e con i Fasci Interventisti. Nel maggio l’a. con tutta la sezione repubblicana di Prato, si arruolava volontario nel 51° Regg. Fanteria (Brigata Alpi) dove si era dato convegno gran numero di legionari delle Argonne. Inviato subito al fronte, partecipava da semplice fante a tutti i sanguinosi assalti al Col di Lana, al Sasso di Mezzodì, al Pescoi, a San Giovanni, alla Tagliata di Ruaz, alla Marmolada. Promosso ufficiale nel 1917, poco innanzi la “rivolta’ di Caporetto, l’a. compieva la ritirata dell’Ottobre come Alfiere del 52° Regg. Fant. (IV Armata) dal Col di Lana al Ponte di Vidor sul Piave. Ha poi combattuto sul Piave, sul Grappa, sul Col del Miglio, sul Col Caprile, alle falde del Col Berretta (Casa Celotti), sul Monte Tomba. Nell’Aprile del 1918 l’a. allora comandante della 94° Sezione Lanciafiamme d’Assalto, seguiva la Brigata Alpi in Francia, agli ordini di Peppino Garibaldi, e partecipava agli epici combattimenti di Bligny e della Montagna di Reims (Giugno-Luglio). Ferito durante l’offensiva tedesca del Luglio l’a., dopo due mesi d’ospedale, tornava in linea sullo Chemin des Dames e prendeva parte alle continue azioni che fruttarono al Secondo Corpo d’Armata italiano la conquista dello Chemin des Dames, il forzamento delle paludi di Sissonne e la presa di Rocroi (11 Novembre 1918). Negli ultimi mesi di guerra l’a. si guadagnava la medaglia di bronzo al valor militare con la seguente motivazione: « Alla testa della propria Sezione Lanciafiamme d’Assalto, scontratosi più volte con le rilevanti forze avversarie le attaccava con risolutezza, le volgeva in fuga ed infliggeva loro gravi perdite col fuoco dei suoi apparecchi, infondendo costantemente coraggio nei dipendenti e dando bello esempio di fermezza e di slancio singolari. - Bois de Courton, 16 Luglio 1918 ». (Bollettino del 24 Agosto 1920, Dispensa 70, pag. 3950). L’a. si guadagnava inoltre la croce francese concessagli personalmente dal Comandante della V° Armata, Generale Guillaumat, con una motivazione di cui basterà riprodurre le prime parole: « Officier de grande valeur ». Alcuni mesi dopo l’armistizio, l’a. veniva scelto come ufficiale d’ordinanza del Generale Albricci, a Saint-Hubert nel Belgio, e, in seguito del Generale Cordero di Montezemolo, in territorio d’occupazione sul Reno. Alla fine di Marzo del 1919 l’a. era chiamato a Versailles al Consiglio Supremo di Guerra, a dirigere l’Ufficio Stampa e Cifra. Alla fine di Settembre dello stesso anno l’a. passava alle dipendenze del Ministero degli Affari Esteri in qualità di Addetto alla R. Legazione d’Italia in Varsavia, dove rimaneva sino al principio del 1921, assistendo così alla tragedia dell’invasione bolscevica e alle sanguinose battaglie per la difesa della capitale della Polonia. Tornato in Italia l’a. riprendeva la sua attività letteraria e politica, riuscendo ben presto a imporsi per la originalità della sua arte e la spregiudicatezza delle sue idee. Abbandonato nel 1921 il Partito Repubblicano si iscriveva ai Fasci. È stato fino a poco tempo fa Segretario della Federazione Provinciale Fiorentina dei Sindacati fascisti. È attualmente Segretario Generale dei Sindacati italiani all’Estero e Fiduciario Fascista per l’emigrazione.11 Collabora ai più importanti quotidiani e alle migliori riviste letterarie e politiche d’Italia.

Ritornando alle due stesure dell’opera, il problema delle correzioni e dei rifacimenti de La rivolta dei santi maledetti rientra nella complessa casistica delle varianti volute sì da un autore ma determinate da quello che filologicamente viene definito come « […] l’urgere di coazioni esterne irresistibili ».12 Sia la questione del titolo sia gli interventi su un originale (Viva Caporetto), anche se ci richiamano alla salvaguardia dell’integrità testuale dell’archetipo, tuttavia ci ricordano anche che bisogna tenere conto di un percorso di scrittura che ci conduce ad un restauro (La rivolta dei santi maledetti) il quale costituisce la « volontà ultima dell’autore », anche se questa volontà « […] non sempre e non necessariamente coincide con l’originale ». Siccome trattasi di testo che è stato redatto e ha avuto un suo iter sotto l’incombere di costrizioni esteriori che, nel caso, sono il condizionamento storico del periodo di Caporetto, i ripetuti sequestri del libro, il clima prefascista prima e fascista poi, mi sembra evidente che esista un rapporto tra l’effettiva e libera volontà dell’autore e tali costrizioni.

Ma il passaggio da Viva Caporetto a La rivolta dei santi maledetti va visto come un atto riproduttivo col quale un autore « […] non intende manifestare un nuovo pensiero, bensì restaurare un pensiero una volta manifestato », vale a dire che l’azione di Malaparte non presuppone un « animus dictandi », ma solo una « voluntas restituendi »: e in tal senso vanno visti il Ritratto, le chiose (vere e proprie aggiunte interpretative), Resultati, in quanto l’autore intervenendo non ha rifiutato nulla ma, al contrario, ha definito meglio la materia trasferendola dalla memoria del passato ad una più recente.

Quanto argomentato ha poco a che vedere con l’intenzione dell’autore da quello che potrebbe essere chiamato opportunismo politico o ragioni sociali, né è riscontrabile una violenza al testo tale da evocare auto-censure spontanee o imposte che – mi sembra sottinteso, dato l’autore – un Malaparte non avrebbe mai accettato o subito. Se lo scrittore fosse stato veramente costretto da pressanti imposizioni o da posizioni di convenienza, la seconda edizione avrebbe dovuto, per avere la benevola accettazione dei fascisti, essere emendata da tutto ciò (frasi, allusioni, giudizi, riferimenti, nomi e quant’altro) che aveva il sapore di bolscevismo, se non aria di sinistra estrema (come si può leggere nell’opera). Devo ricorrere ancora a Firpo per ribadire che la seconda stesura « attutita » (rispetto alla prima libera e coraggiosa) presenta « rielaborazioni spontanee » che non sono state imposte dalla censura, ma « suggerite dall’occasionale ripresa del lavoro » e, in questo senso, il testo del 1923 testimonia un sicuro progresso stilistico rispetto a quello del 1921: « in casi del genere – concludeva il filologo – mi sembra più saggio attenersi a quella che fu l’ultima volontà dell’autore ». Anche a me è sembrato così.

Per quel che concerne, infine, il lungo saggio del Ritratto, tale testo si presenta diviso in quattro parti numerate le quali – si diceva – contengono, in pagine a se stanti, quasi uno schema sinottico dell’argomento poi affrontato da Malaparte secondo il seguente ordine:

1: « che la fatalità, quando un popolo si ribelli alla tirannia dei propri eroi legittimi e voglia far da sé, si trasporta dagli eroi negli avvenimenti, sempre contrari, e punisce in tal modo il popolo dell’orgoglio di una libertà usata in proprio danno, aiutandolo tuttavia a ritrovar così la ragione dei fatti e a sottomettersi nuovamente alla tirannia legittima degli eroi »;

2: « che lo spirito della nostra generazione è uno spirito rivoluzionario ed eroico, spregiudicato fino all’ingiustizia, e che le violente passioni di cui soffre l’autore non sono proprie di lui soltanto, ma di tutti gli inquieti e impazienti figliuoli del suo tempo »;

3: « che era ed è necessario difendere i fanti, tutti i fanti, anche quelli di Caporetto, contro gli imboscati, i profittatori, i vigliacchi, i ciurmatori, i retori, i politicanti, i Trissottini, contro tutti coloro che hanno osato, con la scusa di Caporetto, accusar di vigliaccheria gli eroi cristianissimi della Bainsizza, del Monte Santo, del Piave e del Grappa; e che era ed è necessario considerare i fanti ribelli di Caporetto come gli strumenti di quella nostra fatalità nazionale, che del nostro ingiustificato orgoglio democratico sempre si vendica contro noi stessi »; 4: « che lo spirito inquieto ed eroico, spregiudicato fino all’ingiustizia, della nostra generazione, non sa spesso contrastare con le occasioni piacevoli e vincerle, ancorché la fatalità ci aiuti; e che sempre, quando ci siamo alfine pacificati con noi stessi e lasciati vincere dalla piacevolezza delle occasioni, la fatalità ci dà contro e ci salva ».

Le quattro cornici (che nell’edizione delle Opere complete, iniziate nel 1961 ma non portate a termine, a cura di Enrico Falqui che ha scelto per altro la stesura La rivolta dei santi maledetti sono state invece e inopportunamente collocate a mo’ di epigrafi dei quattro capitoli) raccordano le tesi svolte nel Ritratto, « spiegano » la materia (che dalle tesi deriva) contenuta nella Rivolta, che viene dopo (mentre Falqui ha fatto inspiegabilmente il contrario mettendo prima la Rivolta e poi il Ritratto) e segue un filo logico argomentante. Da prodromi storici delle disfatte nazionali (Custoza, Lissa, Adua, Caporetto...), punizioni tremende ma giuste – come scrive –, che si vorrebbero ancora oggi considerare (in modo pessimisticamente antieroico e anticristiano) alla stregua di disastri nazionali, Suckert passa all’ottimistica visione delle sconfitte che fanno « risorgere », giorni nefasti che spingono alla « rinascita »: lutti e vergogne che hanno preparato gli Italiani alla « […] necessità di una ripresa rivoluzionaria che continuasse storicamente la rivoluzione nazionale iniziata nel 1821 e soffocata dal compromesso del settanta, e hanno determinato il sorgere del nuovo spirito della nostra generazione, spirito d’insofferenza, di rivolta e d’inquietudine eroica ».

Cosicché: « […] l’esperienza delle vergogne e dei danni sofferti ci vale ora più delle altrui felicissime esperienze » e vedere così la funzione delle « infauste giornate ». Contro l’« antieroismo delle democrazie » bisogna rimettere gli eroi al loro posto. Ne consegue la teoria degli eroi capovolti, ripresa dal prologo (intitolato appunto Gli eroi capovolti) dell’Europa vivente pubblicata prima della Rivolta in quello stesso 1923 con una lunga lettera-prefazione di Ardengo Soffici (il quale scriveva: « Caporetto fu la catastrofe tipica della tragedia »).

Non più uomini rappresentativi (i « representative men » di Carlyle e di Emerson), definiti dal giovane Suckert dei « mediocri » (nell’Europa) e addirittura « nani vociatori » (nella Rivolta), ma

[…] è necessario un eroe, sempre; un uomo che rappresenti non quello che siamo, ma il nostro contrario; che opponga la sua volontà alla nostra retorica e sia solo, chiuso e impassibile, contro noi tutti; che sia il nostro nemico più duro e sappia soffrire e vincere per noi, [...] che sia grande per noi, e che ci salvi [...] un eroe tradizionale e legittimo, di buon sangue, spregiudicato e ottimista, generoso ma di cuor fermo, antiborghese, antiproletario, antiliberale, antidemocratico, antimoderno, antieuropeo » per contrapporre così l’uomo rivoluzionario all’uomo rappresentativo. Se non accadesse questo ci ritroveremmo in « quel tempo storico, cui si riferiva Montesquieu parlando di un’età favolosa. Ainsi, dans le temps des fables, après les inondations et les déluges, il sortit de la terre des hommes armés qui s’exterminèrent.

Da queste premesse si giunge al secondo passaggio, dove lo « spirito rivoluzionario ed eroico » trova immedesimazione nell’autore come figlio del suo tempo, tra « passione » e « responsabilità » del periodo storico a cui appartiene. Perché lì – scrive – le inquietudini del suo spirito, le sue inquietudini d’uomo moderno, ammalato di nostalgie e rammarichi, di persuasioni e di dubbi, di sconforto soprattutto, sono le stesse della sua generazione, con la fiducia altresì di aver ritrovato nelle esperienze del suo tempo « […] il misterioso significato della nostra umanità ». Il recupero allora, attraverso la memoria, dei ricordi delle sue esperienze di soldato sui vari fronti e in trincea, delle letture e scritture coltivate per ritrovare giorni, luoghi e stagioni di un tempo, si fonde col desiderio d’azione, misto di rancore e ribellione, per non soffocare il fante ch’era dentro di lui (« naturale, fisico, terrestre, semplice, primitivo, eroico e antico e umano »), diventare « falso, riguardoso, esperto, ipocrita, ragionante » e sentirsi « avvilire, incattivire, immeschinire ». Da qui la ribellione e perseguire, con spirito spregiudicato ed eroico, quella che Suckert chiama « rivoluzione nazionale »: una specie di « continuazione tumultuosa e popolaresca del Risorgimento, e perciò antiborghese, antifilistea, antipolitica ».

La difesa dunque, terza cornice, dall’accusa di « vigliaccheria e tradimento » dei fanti di Caporetto, oltre che aver origine dalla « sincerità » dell’autore, dalla sua « innocenza » e dalla sua mancanza di « egoismo e vanità », lo conducono verso quel concetto di rivolta (sinonimo di « tradimento ») che lo scrittore riconosce sì come pericoloso, assunto come difesa di un esercito che deve solo battersi e non rivoltarsi, ma – si chiede il giovane Suckert – chi ha tradito?:

I fanti che si sono orrendamente ribellati, o coloro che li hanno spinti alla disperazione? »; chi i responsabili?: « coloro che l’hanno provocata ad arte, o coloro che l’hanno compiuta in un momento di disperazione o d’imbestialimento? ». L’autore non esita a dichiarare che: « [...] siamo stati i soli a mostrare che la rivolta di Caporetto non era stata né un tradimento né una fuga, ma una selvaggia e orrenda sollevazione dei fanti, del popolo delle trincee, dei soldati della rivoluzione nazionale, contro chi s’era tenuto lontano dalla guerra bestemmiando il sangue versato, i sacrifici sofferti, la gloria e l’orgoglio della nostra passione.

La rivolta, vale a dire, della « nazione » contro l’« antinazione », contro l’« antirisorgimento ».

La certezza – quarta cornice – di « un’imminente rivoluzione nazionale in Italia, compiuta dai veri combattenti, cioè dal popolo dei fanti; rivoluzione, cioè, di contadini » costituisce la sintesi – attraverso il libro che stava scrivendo – di quella fiducia-sicurezza che le cose in Italia avrebbero avuto uno « svolgimento » e uno sbocco verso « avvenimenti » che sarebbero stati di aiuto allo spirito rivoluzionario ed eroico suo e della sua generazione. Ma nessun « gesto rivoluzionario », nessuna « impresa », nessuna « pazzia » sono seguiti alla scrittura e l’esserne « usciti scontenti e insoddisfatti » (per la « fatalità eroica avversa al comune spirito nazionale ») rappresenta un risultato non rispondente alle prime intenzioni che, però, li ha salvati. Perché da quel momento quella generazione è stata « feroce e implacabile » contro « l’antieroismo, democratico, liberale, socialista, eretico e moderno, del diciannove e del venti », e si è salvata così dagli uomini rappresentativi con l’inizio di quella rivoluzione che ha fatto rinascere, tra ira e orgoglio, l’antico spirito inquieto ed eroico, spregiudicato e passionale, insieme all’« […] immortale speranza di un lentissimo mutamento », ovvero « siamo tornati antichi ».

La Rivolta13 conteneva tutti i motivi fondamentali della storia personale di Suckert, accanto a quella del popolo italiano dopo il 1918, nonché la « […] negazione assoluta della patria borghese, del patriottismo borghese, della guerra borghese ». Era il libro di un giovane fra tanti che era andato in trincea come un altro sarebbe andato in un posto qualunque, accogliendo tutto come un naturale sacrificio, un dovere istintivo, ma soprattutto « […] con un profondo spirito di rassegnazione, senza indagarne le ragioni e il significato ». Le giustificazioni addotte dallo scrittore sembrano quasi assurde:

[…] La guerra è stata voluta dagli interventisti, quelli che gridavano viva la Francia e viva Trento e Trieste. I neutralisti non la volevano: perciò urlavano abbasso la Francia e Trento e Trieste. Noi, che stiamo facendo la guerra non abbiamo gridato nulla.

Eppure era questo il ragionamento che, secondo lo scrittore, facevano i suoi compagni contadini e artigiani, in quanto il loro semplicismo da povera gente non ammetteva discussioni o teorie. I ripetuti discorsi sui « fratelli da liberare » o sulla « civiltà da salvare » non scuotevano nessuno, la patria era un riferimento estraneo alle loro menti, Trento e Trieste sembravano « creazioni mitiche », nazioni come la Francia, la Germania e l’Austria costituivano delle verità inconfutabili, soprattutto quest’ultima la cui realtà si perdeva nelle connotazioni storiche del 1948 o la si identificava con quella di un paese dove si parlava una lingua diversa dalla nostra. Malaparte continuava:

La profonda ignoranza delle nostre masse – secondo lo scrittore – non ammetteva complicazioni storiche o geografiche. Quando gli ufficiali ci spiegavano le ragioni ideali della nostra guerra e la necessità di schiacciare la barbarie e il militarismo degli Imperi Centrali, i soldati ascoltavano con profonda attenzione, ammirando la cultura e l’intelligenza dei superiori: ma non ne capivano niente. I pochi che riuscivano ad afferrare, all’ingrosso, il senso del discorso, lo dimenticavano subito. Il voler insistere sarebbe stata fatica sprecata: che importava ai soldati di sapere per quale ragione si faceva la guerra?

E quando parlava di soldati Suckert intendeva la fanteria, composta di artigiani, operai, braccianti, lavoratori di ogni mestiere, di contadini soprattutto, quella « parte della nazione armata », cioè, che non aveva né penne, né piume, né distintivi, ma solo un numero sul berretto. Gente comune, paziente, ignara che, per prestar fede all’intellighentia della piccola borghesia italiana, aveva raggiunto montagne attraverso piste create dal nulla, aveva conquistato trincee su trincee, uccidendo senza odio, aveva compiuto sacrifici più grandi delle loro forze, per morire a migliaia « senza capire e senza farsi capire ». Malaparte li ricordava tutti quei ragazzi della sua età, li rivedeva lucidamente davanti agli occhi quando l’assalto ricominciava:

[…] Avanti, ragazzi! I fanti uscivano ancora, per la ventesima volta, dalle buche fangose, avviandosi verso i reticolati nemici con quel trotterello, magnifico di coraggio buono e di rassegnazione, che i dilettanti e i corrispondenti di guerra hanno gabellato al pubblico per « impeto garibaldino » e per « slancio aggressivo ». Credendo di far onore alla fanteria, li vestivano di pennacchi e di gesti eroici, mettevano sui visi gravi e tristi dei morituri la maschera bellicosa delle oleografie di occasione. No! la fanteria nostra, la più cristiana di tutte, usciva all’assalto umanamente: una, due, dieci volte di seguito [...]. Laceri, sudici, imbrattati di fango e di sangue, i fanti nostri arrancavano su per le petraie e i costoni, senza un lamento, senza una bestemmia, senza atteggiamenti eroici, senza impeti garibaldini.

Questi erano i santi con la loro accettazione, la rinuncia, il sacrificio, il silenzio, la fede, l’ubbidienza, senza un lamento. Tutti colpiti da una maledizione (di trovarsi in quello stato) e condannati a morte, imprecando con ira, con rancore, con dolore. All’immagine del nostro combattente che aveva avuto fiducia nella Nazione, Malaparte sostituisce quella di un soldato che si batteva per niente, per bontà o per una virtù tutta mediterranea mentre l’Italia, nell’ironia dello scrittore, appariva costernata nel volto, trafitta nell’orgoglio, la Patria era al di sopra della morte e un popolo di madri, di sorelle e di padri era solidale col loro sacrificio in nome della giustizia, del coraggio e dell’eroismo. Quel soldato allora si batteva per tutto: « […] per nessuna ragione speciale, cioè per un’altissima ragione morale » ed aveva obbedito agli ordini:

[…] Gli avevano detto: « La Germania è barbara, l’Austria è feroce: ambedue hanno voluto la guerra ». E il nostro soldato, che non aveva mai voluto la guerra e non ne voleva saper nemmeno allora che la stava facendo [...] si batteva contro chi l’aveva voluta; ma senza odio, perché l’odio presuppone una convinzione. L’odio presuppone una fede, politica o morale, che i nostri fanti non avevano.

E quando i fanti si accorsero di non odiare il nemico e che anche il nemico era avverso alla lotta, quando scoprirono che a fare la guerra erano proprio quelli che non l’avevano invocata né voluta, il loro modo di vedere cambiò improvvisamente e verso la fine del 1916 i primi segni di rivolta e di insofferenza apparvero fra le linee. I soldati ricordarono allora i giorni precedenti l’entrata in guerra. Rividero l’Italia, la Nazione, la Patria, il Risorgimento e s’accorsero che non erano mai esistiti e che il popolo, né neutralista né interventista, era rimasto popolo, spettatore anche quando il 24 maggio era partito per il fronte. Malaparte affermava che tutto questo era accaduto perché:

[…] La piccola borghesia (elemento spregevole e ammirevole, abituata a stentare e ad ubbidire, a lasciarsi sfruttare senza mai chiedere niente) imbandierò le finestre, invocò l’elmo di Scipio e partì per il fronte il 24 maggio con le stellette sul collo e sulle maniche, credente in dio e nella patria, nelle istituzioni e nel sovrano, convinta che i tedeschi fossero barbari e che la Giustizia, il Diritto e la Civiltà fossero figli dell’immacolata vergine Giovanna d’Arco.

E tutti gli italiani s’erano ritrovati con gli occhi bagnati di lacrime quando a Quarto d’Annunzio aveva inaugurato il monumento a Garibaldi:

Il poeta, che porta un alto colletto e una cravatta di amoerro, tocca l’anima dei convenuti. Gli stendardi delle logge massoniche, il gonfalone di Genova, le bandiere dei gruppi repubblicani e dei ginnasi ondeggiavano nel cielo chiaro. Ai piedi di una Vittoria ignuda, opera dello scultore Baroni, sta il poeta. In sua parola risuona nell’aria marina e accende i cuori dei presenti. La guerra appare agli occhi della folla come un bellissimo viaggio nel paradiso degli eroi. Anche il bidello del Liceo Cristoforo Colombo sente palpitare la sua vecchia anima. Com’è sublime l’eroismo! Nessuno se n’era accorto finora. Abbasso Giolitti! Abbasso l’Italia dal piede in casa! Perché vivere in un regno cosi meschino e gretto? perché rimanere neutrali quando ci attende la Bella Morte?14

Anche agli stessi soldati fu chiaro l’inganno: « La borghesia ricca si sparse per i mercati: accaparratrice d’oro. Le ruote del carro della Fortuna erano unte col grasso degli eroici morti. L’aristocrazia si sparse per i comandi: accaparratrice di croci e di onori. [...] I vigliacchi, e qualche coraggioso, rimasero a casa. Strano a dirsi, gli interventisti non erano, in massima, vigliacchi (anzi: onore all’onore) ma tra i rimasti a casa i vigliacchi erano tutti interventisti […] ».

Cominciò a crescere la sfiducia nei comandi. L’agonia davanti a Gorizia, lo « scivolone » del Trentino, i massacri di San Marco, il nuovo metodo di guerra inventato ad Udine e « […] che consisteva nel ricorrere ai soldati, al loro buon volere, alla loro gloriosa abitudine di farsi ammazzare senza lagnarsi, per rimettere le cose a posto », tutto questo fece definitivamente aprire gli occhi ai soldati.

E come se non bastasse si aggiunse lo scenario dei feriti non completamente guariti e degli ammalati ancora in convalescenza che andavano a « rinsanguare » gli attacchi frontali delle trincee: larve di uomini, pallidi, zoppicanti, con gli « abiti sgualciti dal forno di disinfezione » che venivano gettati in prima linea con le ferite non ancora cicatrizzate.

Questo spettacolo « indignava e stupiva ». La Nazione aveva toccato il fondo del disgusto. « Si è spesso parlato di propaganda disfattista » si chiede Malaparte, per concludere che « dire la verità è fare del disfattismo » [il corsivo è mio]. Il soldato si accorse quindi, anche se in ritardo, di essere divenuto un condannato, ed allora:

[...] solo, disperato, invelenito d’odio, si buttò contro la legge, Cioè contro la nazione che non lo capiva, contro gli imboscati, contro gli inabili alle fatiche di guerra, gli esonerati, i patrioti retorici, gli speculatori del sacrificio altrui, contro il Governo disfattista, contro nemici della fanteria, contro i nemici dell’Italia, del Carso e degli Altipiani. Caporetto.

Malaparte col suo primo libro faceva dunque luce sui fatti di Caporetto e non parlava solo di errori, di politica, di responsabilità militari, di Badoglio, di Cadorna o di altri; non raccontava solo storie di ufficiali venduti, di imprevisti, di compromessi, come i giornali dell’epoca15; non se la prendeva solo con la pioggia, o il destino, con lo schieramento o con la mancanza di ordini-contrordini, non gettava solo lacrime sulla leggenda del « disgraziato episodio di guerra » o « del disastro irreparabile che aveva gettato vergogna sul popolo italiano »; Malaparte dimostrava anche che quello di Caporetto era un fenomeno schiettamente sociale. Lo scrittore non accettava di certo la giustificazione dei fatti con l’immagine inventata sulla natura del soldato italiano, nemico d’ogni sofferenza e privo di spirito di sacrificio, perché Caporetto si rivelava una vera e propria rivoluzione, la « rivolta » di una determinata classe, di un modo di vedere le cose e di sentirle, contro « un’altra classe, un’altra mentalità, un altro stato d’animo ». Suckert, col suo saggio politico, dimostrava senza mezzi termini e reticenze, che Caporetto era servito da paravento « […] alle rinunce di Nitti nell’Adriatico o al compromesso Tittoni-Venizelos pel Dodecaneso », da scudo « alla diligenza ministeriale », da propaganda elettorale « per i socialisti e i nazionalisti » e da diversivo « per gli onorevoli delle due Camere, annoiati e irritati dall’afa estiva ».

In realtà Caporetto era stata una forma di lotta di classe, un fenomeno di turbamento sociale, di demoralizzazione, di presa di coscienza. L’abbandono delle trincee nell’ottobre del 1917 non era un semplice o isolato episodio militare, ma un più complesso groviglio di sentimenti e di ideologie: l’altro aspetto della medaglia « di quella rivoluzione nazionale che, iniziata nel 1821 e soffocata nel Settanta, è stata ripresa nel 1914 da noi interventisti, sindacalisti, repubblicani, volontari garibaldini sempre, nelle Argonne e sul Carso ». Caporetto per Malaparte era la trasformazione di una mentalità, una « pietra miliare » del cammino dell’umanità. La rivolta dei santi maledetti allora diventava una violenta denuncia contro quella specie di italiani falsi e ipocriti, nutriti di mezza cultura, politicanti e parolai:

[…] destra e sinistra storiche, per intenderei, liberali, democratici, socialisti, Italiani moderni, uomini di piazza, di governo, di caffè, di università, d’accademia, che dal settanta in poi hanno sputtanato in mille modi l’Italia eroica, santa, cristianissima del 1821 con la scusa del patriottismo o della retorica, della democrazia o della rivoluzione sociale, a piacere [...].

E ripetendolo, continuava a chiedersi:

[…] Se tradimento c’è stato, chi ha tradito? I fanti che si sono orrendamente ribellati, o coloro che li han spinti alla disperazione? L’esercito della Bainsizza e del Monte Santo, o l’innumerevole e lucidissimo esercito di imboscati, dei profittatori, dei puttanieri, dei falsi patrioti, degli umanitari, dei retori, dei vigliacchi, dei trissottini, dei disfattisti, degli austriacanti, l’innumerevole turba, militare e civile, che si era accampata alle spalle dei combattenti schernendo e insultando, piagnucolando e gozzovigliando? Chi ha dunque tradito? Chi sono dunque i responsabili dell’orrenda rivolta? Coloro che l’han provocata ad arte, o coloro che l’hanno compiuta in un momento di disperazione e d’imbestiamento?16

Queste erano le domande che si poneva un giovane che a 23 anni aveva cominciato a scrivere un libro per raccontare la sua esperienza, scampato quasi per miracolo tra i sedici e i diciotto anni dall’inferno della Prima guerra mondiale dove era entrato in nome dell’« anima italiana », per dirla con Croce.17 Cosa fosse quell’anima se lo era chiesto anche Longanesi che aveva finito per rispondere che forse si trattava di una parola magica, di quelle che scandiscono l’ora di una Nazione e della storia e « […] in suo nome facciamo guerre, rivoluzioni, marce, alleanze e conquiste coloniali ».18 E proprio a quell’anima era stato dato prima un volto ideologico ben preciso negli anarchici pentiti, nei repubblicani pronti a morire per la « sorella latina » e nei sindacalisti rivoluzionari; poi una fisionomia culturale con le parole dei nazionalisti seguaci di Corradini, i miti dei soreliani, i giornalisti del « Corriere » e del « Giornale d’Italia », il Futurismo coi suoi programmi; infine l’anima aveva assunto una personificazione nei due protagonisti: Mussolini e d’Annunzio. Da tutto ciò, secondo Malaparte, avevano avuto origine i « valori ideali » della retorica, del fremito, della poesia, dell’azione, della storia, della forza. I valori ideali erano figli legittimi dell’anima italiana, pronti per le giornate di morte, così che « tra le tante voci democratiche d’esaltazione della guerra, è interessante che la più audacemente discorde sia proprio quella dell’interventista e futuro fascista Malaparte ».19

La rivolta dei santi maledetti non è, perciò, semplicisticamente una confessione-reazione alla guerra, ma ben altro. Innanzitutto è il libro di Malaparte, non un libro dei tanti, perché « […] in quel libro ci son tutto, dalla testa ai piedi, quel che ero allora e che son poi diventato, come uomo e come scrittore […] », dal momento che La rivolta non solo contiene i germi dei motivi fondamentali della sua storia personale con l’orgoglio di essere rimasto fedele (sia al libro sia alle ragioni che ne hanno mosso la scrittura), ma anche della storia del popolo italiano dal 1918 in poi. Perché tutte le vicende della vita italiana che ne sono seguite negli ultimi quaranta anni nascono dalla dolorosa esperienza di quella guerra e, soprattutto, dall’aver scoperto che vi erano, e vi sono, due Italie: « L’Italia dei codini, dei bigotti, degli sbirri, dei ladri, degli Alti Comandi, (e per Alti Comandi non intendo solo quelli militari), di tutti coloro che disprezzano il popolo italiano, lo sfruttano, l’opprimono, l’umiliano, l’ingannano, lo tradiscono, quella ignobile Italia che la mia generazione, e tutte le generazioni del Carso e del Piave, hanno rifiutato e rifiutano. E l’Italia della fanteria, l’Italia della povera gente, l’Italia generosa, leale, onesta, coraggiosa, nemica d’ogni prepotenza, d’ogni sopruso, d’ogni privilegio, nella quale abbiamo creduto e crediamo ».

Queste parole Malaparte non le scriveva negli anni Venti, quando accaddero le cose ricostruite in questo intervento, ma quaranta anni dopo, nella citata prefazione intitolata Prigione gratis (Forte dei Marmi, maggio 1955) a Battibecco (1953-1957), e poco prima di partire per l’ultimo viaggio in Russia e in Cina e ritornare per morire nel 1957. In quella prefazione lo scrittore ritornava con la memoria indietro nel tempo per narrarci quello che la guerra (quella prima guerra mondiale) era stata per i giovani della sua generazione, vale a dire la scoperta di un’Italia che si ignorava esistesse: dell’Italia ufficiale, dell’Italia-Stato, dell’Italia-classe dirigente e per i giovani della fanteria (soldati come lui) appariva come il crollo – scrive – di « […] quell’Italia borbonica, profondamente incivile, pretesca e poliziesca, contraria ad ogni spirito di libertà e di giustizia, che era, ed è, all’origine di tutte le nostre vergogne e sventure: il crollo di quell’Italia, di cui avevamo scoperto l’esistenza nel fango delle trincee ». Non è possibile comprendere la storia del popolo italiano dal 1918 in poi – argomenta Malaparte – se non si tiene conto di questa scoperta da parte di tutti quelli che combattevano, i quali credevano che l’Italia fosse una grande e nobile nazione civile. Ma prosegue:

[…] ci accorgemmo che di nobile, in Italia, nonostante i suoi antichi difetti, la sua ignoranza, la sua miseria, il suo vergognoso stato servile, non c’era che il popolo italiano, tutto il popolo italiano, dalle Alpi alla Sicilia, specie le buone, generose plebi analfabete del Mezzogiorno, soldati dai grandi occhi stupiti, dal sorriso timido, che non osavano parlare perché erano come bambini, perché non sapevano parlare la lingua dei signori, la lingua italiana, che era la lingua degli ufficiali, dei carabinieri, dei giudici militari, la lingua della legge, la lingua dei tribunali, delle carceri, degli ospedali, la lingua degli Alti Comandi e dei plotoni di esecuzione. Credevamo che l’Italia fosse la patria della libertà, della giustizia, della pietà per i deboli, del rispetto per i poveri, per chi soffre, per chi muore, la patria della speranza e non della disperazione: in una parola, la patria di Garibaldi. E ci accorgemmo con delusione, con dolore, con furore impotente, che l’Italia ufficiale era una miserabile, meschina, vile italietta balcanica e levantina, dove non esisteva né giustizia né rispetto umano, dove lo Stato, insensibile, indifferente alla miseria e alla sete di giustizia del popolo, non era nient’altro che lo strumento di difesa degli interessi materiali e dei privilegi della classe possidente, detentrice del potere politico, burocratico, e militare.

Quell’orgoglio affettuoso col quale si parla della guerra del 1915, ha una sua ragione d’essere se si riferisce al popolo, ai soldati, agli ufficiali minori, ma non c’è alcuno che abbia veramente combattuto e vissuto in trincea per mesi ed anni che dimenticherà e perdonerà mai « l’imbecillità, l’albagia, la prepotenza, il disprezzo non solo della vita dei soldati, ma della loro dignità di uomini e di cittadini, con cui quella guerra fu condotta dalla classe dirigente, politica e militare ».

Era questo l’argomento della Rivolta, perché difendendo la fanteria di Caporetto, Suckert difendeva i soldati italiani, quelli che avevano realmente combattuto in trincea (e non nelle comode retrovie) in quanto solo questi erano in grado di sapere che la disfatta non era dovuta alla loro viltà (« […] vigliaccamente arresi al nemico senza combattere », affermava « l’ignobile comunicato di Cadorna », come Malaparte lo definisce) ma « […] all’insipienza e imprevidenza » del Comando Supremo: se c’era una colpa era di ribellione e non di vigliaccheria.

Dettagliato, anche dopo tanti anni, è il racconto dello scrittore:

Poiché Caporetto fu una grande sconfitta militare degenerata fin dai primi giorni in aperta rivolta della fanteria, e non già per la propaganda pacifista dei marxisti e dei clericali, come si volle far credere, né per contraccolpo della rivoluzione bolscevica in Russia (di quasi tre settimane posteriore a Caporetto), ma per disperazione, per insofferenza della miseria, degli inutili massacri, della fame, della dura schiavitù cui eran soggette le fanterie, della bestiale e imbecille maniera con la quale eran trattati i fanti in prima linea. Che non solamente erano male armati, vestiti di stracci, quasi scalzi, (i soldati alleati, inglesi e francesi, andavano in licenza ogni quattro mesi, i nostri in teoria ogni dodici mesi, in pratica ogni quattordici, ogni quindici mesi: per tacere dei siciliani e dei sardi, per i quali era stata soppressa, nel 1917, ogni licenza, col ridicolo pretesto delle difficoltà, più immaginarie che reali, del trasporto marittimo tra Reggio e Messina, e fra Civitavecchia e la Sardegna), ma erano, ed è terribile doverlo dire, affamati. Mi spiace di togliere un’illusione ai « patrioti » in pantofole: in prima linea, in trincea, i fanti italiani soffrivano la fame. E non già perché l’Italia (grazie anche ai rifornimenti di carne e di grano da parte degli alleati) non avesse la possibilità di nutrire i suoi soldati, ma per l’incuria, le ruberie, la corruzione, l’indifferenza criminale degli Alti Comandi e della classe dirigente. È quasi incredibile l’insufficienza della razione alimentare delle fanterie di prima linea: che consisteva, quando il rancio poteva giungere in trincea, in una mezza gavetta di brodo con un centinaio di grammi di carnaccia lessa, in una pagnotta, quasi sempre ammuffita, e la sera in una gavetta di colla di riso. Il cosiddetto « miglioramento rancio », col quale Cadorna, nel 1916 s’illuse di chiudere non lo stomaco, ma la bocca dei soldati, non era altro che un pezzetto di formaggio coperto di muffa. Il caffè mattutino, in mancanza di zucchero, (agli imboscati degli Alti Comandi e delle retrovie piaceva il caffè molto dolce), era condito col sale. Sembra uno scherzo: il caffè salato! Ma nel 1917, Cadorna fece un altro passo avanti verso la sconfitta e la rivolta di Caporetto: al posto del caffè salato, fu distribuita ai soldati in trincea una razione di fichi secchi. Le nozze coi fichi secchi: ecco che cosa il generale Cadorna era riuscito a fare, di quella « quarta guerra d’indipendenza ». L’Italia, grande produttrice di vino, non dava ai suoi soldati in trincea che una tazzina di vino acido ad ogni morte di papa. Chi osava lamentarsi, finiva davanti al Tribunale militare: la cui leggerezza, il cui servilismo, la cui ferocia, fanno, a distanza di tanti anni, gelare il sangue solo a pensarci. (E per conoscere quel che i soldati alleati pensavano della nostra giustizia militare, basta leggere Addio alle armi di Hemingway.) Informatori degli Alti Comandi, travestiti da soldati, si insinuavano nei reparti di prima linea per riferire i lamenti e le proteste dei fanti: i colpevoli di « disfattismo » venivano, di notte, arrestati in trincea, ammanettati, trascinati davanti ai Tribunali militari. (Quegli informatori, quelle spie degli Alti Comandi, se i soldati riuscivano a scoprirli, finivano massacrati in qualche camminamento). Le decimazioni, le fucilazioni, erano poi all’ordine del giorno. Se un’aziona andava male, erano i soldati a pagare, non i generali. E i soldati pagavano in contanti. Ogni ritardo di più di ventiquattr’ore nel ritorno dalla licenza era punito come reato di diserzione di fronte al nemico. Nell’agosto 1917, sentendo avvicinarsi la tempesta, Cadorna diventò feroce. A Santa Giustina, presso Belluno, mentre tornavo in linea dalla scuola militare di Caserta con la stelletta di aspirante, fui obbligato, con molti altri giovani ufficiali, ad assistere alla fucilazione di alcuni soldati calabresi, che tornavano dalla licenza con ventiquattr’ore di ritardo non per colpa loro, ma per colpa della tradotta (quella stessa sulla quale avevamo viaggiato, i miei compagni ed io), che nel lungo interminabile viaggio da Catanzaro a Belluno aveva perso tempo per la strada. Furono ammazzati come cani arrabbiati, nonostante le loro grida, le loro proteste, le loro lacrime. Due soldati del plotone d’esecuzione spararono in aria: vennero immediatamente afferrati e passati per le armi. Benché due anni di trincea mi avessero indurito il cuore, non riuscii a sopportare quell’atroce spettacolo: e chiusi gli occhi. Quanto a me, e agli altri spettatori obbligati, fu permesso di allontanarci dal luogo del massacro (un prato dietro la stazione ferroviaria di Santa Giustina), mi ritrovai tutto imbrattato di vomito. A rafforzare nell’animo dei soldati di fanteria la persuasione di essere considerati dagli Alti Comandi come i « paria » della guerra, contribuiva (oltre la vergognosa abitudine di legare i soldati ai pali dei reticolati, fuori delle trincee, per la più futile mancanza disciplinare), anche l’umiliante trattamento cui eravamo sottoposti durante i rari e brevi turni di riposo nelle seconde linee, o nelle retrovie, e durante i quindici giorni di licenza invernale. Il “riposo’ in seconda linea consisteva in interminabili « corvées » sotto il tiro delle artiglierie nemiche, in fatiche bestiali, in lavori da forzati, che ci facevano rimpiangere i pericoli e le sofferenze delle trincee. Nelle retrovie, il « riposo » aggiungeva, alle fatiche, intollerabili umiliazioni. Accantonati nei fienili, o attendati sotto la pioggia in prati fangosi, non potevano, né soldati, né ufficiali, recarsi nei vicini villaggi. Ci era proibito perfino, durante le due ore serali di libera uscita, di andare a bere un bicchiere in qualche osteria. Più che un « riposo », era una quarantena. Ci sentivamo appestati. Passavamo le due ore di libera uscita sotto una tenda, a scrivere a casa. Se poi ci accadeva di essere mandati a riposo presso qualche cittadina, Bassano, Thiene, Cittadella, Cormons, Pordenone, i nostri accampamenti diventavano campi di prigionieri. Pattuglie di carabinieri sbarravano le strade e i sentieri per vietarci l’ingresso nell’abitato. Gli Alti Comandi non volevano straccioni fra i piedi. (E i fanti si vendicavano sui poveri carabinieri: i soldati di fanteria chiamavano « aeroplani abbattuti » i carabinieri assassinati). Quando andavamo in licenza dovevamo percorrere decine e decine di chilometri a piedi, sotto la pioggia, o nella neve, per raggiungere la stazione ferroviaria più prossima: proibito salire nei camion che, in file interminabili, scendevano vuoti verso le retrovie. (I soldati della mia Brigata, in linea sul Col di Lana e sulla Marmolada, dovevano fare a piedi, per andare in licenza, ottanta chilometri di strada fino alla stazione di Belluno, o cento fino a quella di Feltre.) Durante i quindici giorni di licenza era vietato ai militari che venivano dal fronte, e agli stessi ufficiali, di entrare nei caffè dalle tredici alle diciotto, « per non dare alla cittadinanza l’impressione che ci fossero troppo imboscati in giro ». (Così diceva l’ordine del Comando del Corpo d’Armata territoriale di Firenze, che ogni ufficiale, giungendo a casa in licenza, doveva firmare « per presa conoscenza »: se questo avveniva a Firenze, penso che avvenisse anche nelle altre città.) I trasgressori erano puniti col ritiro della licenza, e con l’immediato rinvio al fronte. Ai soldati e agli ufficiali in licenza, era vietato, aggiungeva l’ordine del Corpo d’Armata territoriale, di mostrarsi in pubblico con donne che non fossero la madre o la moglie legittima. Proibite, dunque, perfino le sorelle e le fidanzate. […] E che dire delle sanguinose offensive, degli immani massacri, dei continui, incessanti assalti per la conquista del tronco di un albero, di una roccia, di un parapetto di trincea, di una casa diroccata? Le famose offensive di Cadorna, studiate secondo la sua celebre e imbecille teoria dell’attacco frontale, consistevano nel lanciare una Brigata dietro l’altra, una Divisione dopo l’altra, all’assalto della prima linea nemica, non già col proposito di sfondarla e di dilagare nelle retrovie dell’avversario ma con quello di occupare una trincea o due, e poi fermarsi. Nessuno di noi, neppure gli ufficiali superiori, sapeva che cosa dovesse fare una volta conquistata la trincea che ci stava di fronte. Giungevamo decimati sulla posizione che costituiva il nostro obbiettivo, e ci dovevamo fermare, anche se, continuando, avremmo potuto rompere il fronte nemico. Queste erano le gloriose, cruente, bestiali, cretine, inutili offensive di Cadorna, del quale, alla sua morte, il miglior elogio è stato pronunciato dal generale tedesco von Seeckt: « Cadorna è il solo generale della storia, che abbia vinto undici battaglie offensive rimanendo sempre sulle posizioni di partenza ».

Tutto questo, e quant’altro lo scrittore non dice, costituiscono il contenuto della prefazione Prigione gratis (e della Rivolta), né Malaparte vuol sentirsi ripetere che certe cose non si dicono, è meglio tacerle, dimenticare per carità di patria di cui, al contrario, lo scrittore non vuol neanche sentir parlare, perché così è troppo facile e semplice, troppo comodo, ci sono invece delle cose che non si devono e non possono essere dimenticate e perdonate. Solo gli ipocriti e gli imboscati sono capaci di farlo, ma non lui soldato, fante di trincea (poi ufficiale), lui non può farlo: per se stesso, per quelli come lui, per i morti e per gli italiani che verranno. La vita letteraria di Malaparte ha avuto inizio da quel libello. Un’ultima cosa resta da capire: come si legano i fatti del 1915 coi fatti di quarant’anni dopo (1955), contemporanei a Battibecco? Quella che lo scrittore chiama « ricerca della verità », la sola capace di rendere « […] questa nostra povera Italia una nazione di uomini liberi e giusti » e di cui il popolo ha bisogno « più del pane », perché la verità alimenta la libertà, mentre la menzogna è sinonimo di servitù. E avviandosi verso la conclusione, Malaparte chiariva quel legame:

Nella guerra del 1915 il popolo italiano non ha combattuto soltanto per liberare Trento e Trieste dalla servitù straniera, (com’era nei propositi dell’Italia ufficiale), ma anche per liberare tutti gli altri italiani dalla servitù domestica, dall’oppressione delle classi privilegiate, dei ceti reazionari, della burocrazia e della polizia borboniche. Nell’oscuro, inespresso sentimento popolare, quella guerra era, anche, una guerra politica e sociale. Il nostro dramma nazionale ha avuto origine, nel 1918, dal fatto che la classe dirigente, inetta, corrotta e vile, mancò di parola ai combattenti, negando loro, dopo la vittoria, quella libertà e quella giustizia sociale che nel 1915 aveva promesso al popolo per spingerlo a farsi ammazzare « per la libertà dell’Europa ». Tornati dalla guerra, i soldati furono accolti dalle bastonate della Guardia Regia.[Come era accaduto a Parigi, nota dell’a.] « A cuccia e zitti! »: fu questo il saluto e il ringraziamento dell’Italia ufficiale ai combattenti del Carso, del Grappa, e del Piave. Quel grido spiega tutto ciò che è avvenuto in Italia dal 1918 in poi: spiega i disordini sociali del 1919 e del 1920, le bandiere rosse e le bandiere nere, Gramsci, Mussolini. Quello stesso grido, che Mussolini fece suo dopo la conquista del potere, spiega la dittatura, l’alleanza con la monarchia e con la Chiesa, la difesa degli interessi e dei privilegi di quell’Italia borbonica, della quale, di fronte alle masse dei combattenti, egli si era proclamato avversario implacabile. « A cuccia e zitti! »: questo grido ripreso dopo il 1945 dall’Italia clericale, spiega questa repubblica fondata sulle leggi fasciste, questa democrazia borbonica, questa solita Italia caduta nuovamente nelle solite mani. Questa solita Italia ha nella verità il suo più pericoloso avversario. Ma alle Cinque difficoltà di chi scrive la verità, elencate nel suo famoso saggio da Bertolt Brecht, l’autore di Mutter Courage, dobbiamo, noi italiani, aggiungerne un’altra, la sesta: la difficoltà di persuadere gli italiani che una verità è una verità, che la verità è la verità. Poiché in Italia, dove è viva la tradizione della menzogna, ed è vivissima la tendenza a scambiar per verità le menzogne della classe dominante, la prima reazione dell’opinione pubblica di fronte alla verità è di negarla: « non è vero, non può essere vero ». Gli italiani, purtroppo, preferiscono la menzogna alla verità. È più facile, meno pericoloso, più comodo, e più redditizio, credere nella menzogna che nella verità. La menzogna li lascia tranquilli, dà loro il senso della sicurezza morale e materiale. La verità non solo non li fa arrossire, ma li spaventa, turba i loro sonni, mette in pericolo i loro meschini compromessi di tutti i giorni. La verità è nemica del conformismo. E purtroppo gli italiani inclinano ad esser conformisti con la menzogna, piuttosto che con la verità. Sanno che si tratta di una menzogna, ma vi si conformano. In un paese borbonico come il nostro, la verità è sempre sediziosa. Ecco perché gli italiani giudicano con sospetto tutti coloro che dicono la verità. Si domandano che cosa spinga costoro a dire la verità contro il parere dei più, e contro il tornaconto di chi comanda, quali segreti scopi perseguano, a quali misteriosi interessi obbediscano; e il nome che essi danno a questi sediziosi è tristissimo: li chiamano « nemici della patria ». Chiunque dica la verità, in Italia, è un nemico della patria.

I nostri mali, le vergogne, le miserie, le ipocrisie che si spacciano come « virtù nazionali », il chiudere gli occhi contro la realtà, il far finta di niente e che nulla stia accadendo (mentre in realtà accade di tutto), il riempirsi la bocca di innografici elogi, non nascondono e non nasconderanno mai tutti i mali dell’Italia, i suoi panni sporchi, le corruzioni, le ruberie, le oppressioni, perché bisogna « […] denunziare ad alta voce i soprusi, le violenze, le corruzioni, le frodi ».

Questa non è la patria degli italiani ma, come alludeva il Carducci, « la patria di lor signori », e allora

[…] se la difendano, se la cùllino, se la ciùccino loro, quella patria di cui van tanto cianciando. La patria di loro signori, quella di cui denunzio in Battibecco gli errori, i delitti, e le viltà, non è un’Italia rispettabile. È l’Italia dei servi e dei padroni, un’Italia spregevole che non merita né pietà né rispetto. Essa non ha nulla a che fare con l’Italia vera, umiliata, ricattata, affamata, tradita. E non si dica che l’Italia è ormai talmente avvilita, che non può sopportare la verità, e che ha bisogno della menzogna per vivere e per sopravvivere. Se non sopporta la verità, crepi pure. Io non so che farmene di una patria che non sopporta la verità. L’Italia in cui credo, in cui ho sempre creduto, per la quale ho combattuto in trincea, ho versato il mio sangue, ho sofferto la prigione e il confino, l’Italia per la quale son pronto, così oggi come ieri e come domani, a lottare e a soffrire, è la patria ideale dell’onore, della libertà, della giustizia, la patria di tutti coloro che hanno sofferto e soffrono per la verità, di tutti coloro che hanno dato la vita per combattere la menzogna: è l’Italia degli uomini semplici, onesti, buoni, generosi, chiusi da secoli in quella « prigione gratis » della miseria e della delusione, delle leggi borboniche e degli arbitrii polizieschi, dei privilegi di classe e della corruzione amministrativa, che « lor signori » chiamano libertà italiana.

E la rivolta-rivoluzione continua...

Note de fin

1 « Quando si arruolò volontario, gli ho procurato io in Comune un certificato di nascita alterato. Io ho fatto tra gli amici una colletta per il biglietto in treno », testimonia Alighiero Ceri, un professore di Prato che insieme al quattordicenne « Curt » (come lo chiamavano) nel 1912 aveva fondato un giornalino letterario, politico, satirico chiamato « Il Bacchino » dalla fontana dello sculture Tacca che si trova in piazza del Comune a Prato sotto il Palazzo Pretorio.

2 Cfr. Curzio Malaparte, Diario di uno straniero a Parigi, Firenze, Vallecchi 1966, p. 13.

3 L’Autobiografia di Curzio Malaparte fu pubblicata per la prima volta su « Rinascita » in due puntate: nel n. 7-8 del luglio-agosto 1957 e nel n. 9 del settembre 1957. La accompagnava una nota siglata p.[almiro] t.[togliatti]. Poi riproposta in « Prato storia e arte », n. 88/89, dicembre 1996, p. 6-58 corredata da un mio scritto Malaparte, Togliatti e altro.

4 Da un brano dell’Archivio Malaparte.

5 Materiali poco noti ma leggibili nella seconda parte (1914-1919) del Malaparte I (1905-1926), Firenze, Ponte alle Grazie 1991, il primo dei dodici volumi su Malaparte nei quali la sorella Edda Suckert Ronchi ha raccolto i documenti d’archivio dello scrittore.

6 Il brano riportato è tratto dalla Nota alla poesia I morti di Bligny giocano a carte. La lirica fu stampata in fascicolo dalla rivista « Circoli » di Roma, nel novembre 1939. Era preceduta da una nota editoriale con la quale il ragazzo Kurt si presentava, e seguita da una Nota alla poesia che rievocava gli avvenimenti di quei giorni. Sia la poesia sia la nota sono state poi inserite, insieme all’altra Alla brigata « Cacciatori delle Alpi »(51-52), in L’Arcitaliano e tutte le altre poesie, Firenze, Vallecchi 1970.

7 Come racconta nella descrizione della manifestazione nel Diario di uno straniero a Parigi, cit., p. 48-49.

8 Un ricordo-omaggio alla Polonia lo ritroveremo molti anni dopo (1951) nel suo unico film Il Cristo proibito dove Malaparte inserirà tra le musiche una melodia che chiamò Polonaise per la quale aveva tratto spunto da una canzone udita cantare da alcuni Ulani del 3° Reggimento nei sobborghi di Varsavia, nel “20, durante i vari assalti dell’Armata Rossa di Leon Bronstein, detto Totzki, contro la capitale della Polonia: « l’udii una mattina mentre accompagnavo il Nunzio Apostolico, Monsignor Achille Ratti [di cui era assiduo frequentatore, n.d.a.] che fu poi Papa Pio XI, ad assistere, dalla riva del Vistola, ai combattimenti che si svolgevano sulla riva opposta ». Per questo film si veda Curzio Malaparte, Il Cristo proibito, a cura di L.Martellini, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1992.

9 Esiste, quindi, una storia-relazione ufficiale redatta dal Suckert sull’attività della Seconda Armata, quella di Caporetto e forse per questo nella prima edizione di Kaputt (Napoli, Casella 1944), nelle pagine dedicate alle informazioni biobibliografiche sull’autore, alla voce « Opere di Curzio Malaparte » al primo titolo si legge: La rivolta dei santi maledetti – rapporto sulla guerra d’Italia (Casa Editrice Rassegna Internazionale, Roma, 1° edizione 1921, sequestrata; 2° edizione 1922, sequestrata; 3° edizione 1923, sequestrata.

10 Alla quale edizione (la prima è del 1997 e l’ultima ristampa: Milano, Mondadori 2016) si rimanda, in particolare alle Notizie sui testi relative all’opera La rivolta dei santi maledetti, le cui stesure e le varie edizioni, anche a confronto con le relative curatele apparse in Italia, vengono argomentate e discusse alla luce delle varianti. Da questa edizione sono tratte, della complessa vicenda, le poche e brevi note informative qui utilizzate. Ringrazio l’editore per la gentile concessione.

11 Per l’iscrizione al Fascio e per le « immaginarie attività fasciste », cfr. la Cronologia della vita di Malaparte nel « Meridiano », cit.

12 Cfr. L. Firpo, Correzioni d’autore coatte, in « Studi e problemi di critica testuale – Convegno di studi di filologia italiana nel Centenario della Commissione per i Testi di Lingua », Bologna, 7-8 aprile 1960, p. 143-157.

13 I passaggi della Rivolta di seguito riportati, provengono dall’edizione del « Meridiano » citato, passim.

14 Cfr. L. Longanesi, In piedi e seduti, Milano, Longanesi 1968, p. 67.

15 In particolare l’« Avanti! ».

16 Curzio Malaparte, Ritratto delle cose d’Italia, degli eroi, del popolo, degli avvenimenti, delle esperienze e inquietudini della nostra generazione, cit., p. 168-174.

17 B.Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1967.

18 In piedi e seduti, cit., p. 64.

19 Cf. A. Asor Rosa, Dalla prima alla seconda guerra mondiale: interventismo, fascismo, antifascismo, in Scritttori e popolo, Roma, Savelli, 1975.

Citer cet article

Référence électronique

Luigi Martellini, « Caporetto e La rivolta dei santi maledetti di Malaparte », Line@editoriale [En ligne], 9 | 2017, mis en ligne le 20 janvier 2019, consulté le 30 avril 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/1161

Auteur

Luigi Martellini

Università della Tuscia

l.martellini@unitus.it