In Lombardia che è casa mia

Traduzione, identità e stile negli adattamenti breliani di Herbert Pagani (1965-1969)

  • «In Lombardia, che è casa mia»

Résumés

Quest’articolo propone un’analisi delle traduzioni di canzoni di Brel incise negli anni Sessanta dal cantautore Herbert Pagani (1944-1988). Nato in Libia e emigrato in Europa durante la sua infanzia, Pagani è particolarmente attento al problema dell’identità. Àncora saldamente i suoi adattamenti nel contesto italiano: Le moribond diventa Testamento all’italiana, Le plat pays diventa Lombardia. Ma la traslazione non è solo geografica e Che bella gente, traduzione di Ces gens-là, mostra come la canzone sia usata da Pagani per descrivere, seppur in un modo sommario, la società del miracolo economico. Questa riflessione tematica viene completata da innovative proposte formali e da un’interpretazione vocale inconfondibile che fondano aspetti essenziali del primo cantautorato.

This article analyses the translation by the cantautore Herbert Pagani of four of Jacques Brel’s songs: Testamento all’italiana (Le moribond), Lombardia (Le plat pays), Sai che basta l’amore (Quand on n’a que l’amour) and Che bella gente (Ces gens-là). Born in Lybia and arrived in Europe during his childhood, Pagani mainly focuses on the question of identity, and firmly settles his translations on the background of Italy’s « miracolo economico ». His work is essential in the constitution of the early cantautori style.

Plan

Texte

L’influenza degli « auteurs-compositeurs-interprètes » francesi sui primi cantautori italiani sembra essere un luogo comune di ogni discorso sul decennio inaugurale della canzone d’autore1. Non serve essere degli specialisti per aver presente l’influenza di Brassens su De André o di Brel su Paoli e Gaber, senza dimenticare il clima rive gauche che aleggia su buona parte della produzione coeva, dalla mala milanese ai solitari capolavori di Piero Ciampi. Tuttavia è stranamente difficile reperire studi sull’argomento che risalgano a più di qualche anno fa. Meritorio a questo proposito è il cantiere aperto dall’antenna italiana della IASPM (International Association for the Study of Popular Music) con la creazione della rivista on-line « Vox Popular », il cui primo numero è interamente dedicato all’argomento2 – così la IASPM, oltre a colmare un vuoto nelle riviste di studi umanistici, esplicita la necessaria premessa francofila di ogni discorso sul cantautorato italiano. In Francia invece un progetto particolarmente promettente è quello portato avanti con altri laboratori di ricerca dal CAER dell’Università di Aix-Marseille, Les ondes du monde; primo risultato notevole, il volume Réécriture et Chanson dans l’aire romane pubblicato nel 20173.

Per proseguire la riflessione iniziata da questi lavori, il nostro contributo intende analizzare – fra i tanti adattamenti ad opera del cantautore Herbert Pagani –, i brani che maggiormente sottolineano la profonda mutazione della canzone d’autore italiana di quegli anni, fra « effetto Tenco »4 e Sessantotto, ripercorrendo il lavoro dell’autore dall’esordio autoprodotto di Una sera con Herbert Pagani (1965) fino alla rivoluzione stilistica di Amicizia (1969), concept-album cronologicamente secondo in Italia solo a Tutti morimmo a stento di De Andrè (1968). Nel suo primo periodo Pagani si dedica quasi solo a cover italiane di cantanti francesi, con un occhio quasi infallibile per la qualità: già nel 1965 traduce tre canzoni di Barbara e l’anno seguente adatta Une petite fille del giovane Claude Nougaro5 (Fermati). Sembra però che ci sia una sostanziale differenza tra queste traduzioni e la presenza costante di canzoni di Jacques Brel; queste ultime costituiranno il nostro corpus.

Scopriremo infatti un tassello doppiamente centrale nella svolta che conosce la canzone italiana alla fine degli anni Sessanta: se da una parte l’influenza di Brel come fonte di ispirazione per i cantautori è senza paragone (quasi unica quella di Brassens su De André; puntuale quella di Piaf, di Mouloudji, di Trénet, di Aznavour o di altri; tarda quella di Ferré), dall’altra il largo numero di collaborazioni di Pagani con autori maggiori della propria generazione, da Gaber a Battiato, lo rende il passeur per eccellenza in un’epoca ricca di sperimentazioni. È attorno al rapporto Brel – Pagani che ruotano importanti rimesse in discussione della tradizione: superamenti linguistici (la lingua di Pagani si stacca dai testi tradotti con un’inesauribile energia metaforica che invano cercheremmo nei testi dei suoi colleghi), stilistici (oltre l’estetica sanremese, ma anche oltre quella prettamente da chansonnier, voce-chitarra) e politici (con l’approdo a un messaggio politico più vario ed esplicito dei primi tentativi cantautoriali – messaggio che per Pagani, ebreo di sinistra nato a Tripoli, veste spesso i panni della questione dell’identità e del pacifismo). Lo stacco è tale che lo stesso Louis Aragon afferma, quando nel 1971 Pagani lascia Milano per Parigi: « Ho la sensazione che Pagani abbia inventato un genere nuovo di canzone e questo non succede tutti i giorni. E’ impossibile, secondo me, parlare di canzone contemporanea senza tenere conto della sua esistenza. La sua comparsa è analoga all’apparizione dei grandi »6. Una singolarità che prende le proprie radici nel percorso personale del cantante.

1. Herbert Pagani cosmopolita e passeur

Herbert Pagani, a lungo ingiustamente dimenticato – oppure solo ricordato in ambienti sionisti per il suo impegno politico, una difesa da sinistra dello Stato israeliano di cui è intrisa la fine della sua carriera di cantante – gode da alcuni anni di un rinnovato interesse, merito specialmente del musicologo Carlo Bianchi, che stende nel 2014 una voce per il dizionario biografico della Treccani e accenna un discorso critico nel primo numero già citato di Vox Popular (2016)7.

Nato nel 1944, Herbert Pagani è leggermente più giovane dei cantautori della prima generazione, nati fra il 1934 (Gino Paoli) e il 1939 (Giorgio Gaber), ma si distingue soprattutto per il suo luogo di nascita, la Libia. Carlo Bianchi torna sullo scenario complesso della Tripoli di quegli anni:

La presenza della comunità ebraica concorreva a fare di Tripoli un calderone di genti e culture, nonché di idiomi disparati, dall’ebraico all’arabo, dall’italiano all’inglese al francese, con esiti spesso conflittuali nell’alternanza fra i vari governi ma soprattutto nella difficile coesistenza fra arabi ed ebrei, precipitata nel pogrom del novembre 1945. L’intreccio fra cosmopolitismo e ostilità, sensi di sradicamento e aneliti alla riconciliazione si sarebbe riverberato sulle vicende personali e sulle istanze artistiche di Pagani, come un’impronta delle caratteristiche sociali della terra natia ma anche per via del burrascoso rapporto fra i genitori, separati poco dopo la nascita di Herbert e poi emigrati in Europa8

Arrivato in Italia nel 1947, dopo un’infanzia lacerata fra i genitori. spende la sua adolescenza a Parigi, dove nasce una passione per il disegno che presto trasforma in attività professionale9. A metà degli anni Sessanta lascia Parigi per Milano, portando la memoria dei cantanti che ha potuto ascoltare nella capitale francese. Con il suo primo 45 giri, pubblicato nel 1965, di certo Pagani non sfigura di fronte al più maturo Paoli, o agli esordienti De Andrè e Guccini. Dopo l’LP Amicizia (1969) torna in Francia e allestisce per il Palais de Chaillot lo spettacolo distopico Mégalopolis, di cui esistono due versioni (la prima in francese e la seconda, più breve, in italiano). Dalla metà degli anni Settanta in poi lascia a poco a poco la canzone e si dedica alla scultura, mentre si afferma il suo impegno politico. La sua poliedrica attività di « cantante, autore e traduttore di canzoni, scrittore, disegnatore, incisore, assemblatore, disc-jokey, ma anche attivista sociale e politico »10 finisce a causa di una leucemia che lo porta via in poco tempo a Miami nel 1988. Viene sepolto a Tel Aviv.

Ovviamente dobbiamo tralasciare nel presente saggio la complessità umana, politica e artistica assunta da Pagani da Mégalopolis in poi: ci limitiamo al periodo di nascita della canzone d’autore italiana, dal 1958 alla morte di Luigi Tenco e al Sessantotto, in quanto momento di definizione di un linguaggio musicale nuovo. Un periodo di sperimentazioni nel quale Herbert Pagani recita, come vedremo, una parte determinante.

2. Il primo 45 giri, Brel italianizzato

Scegliamo di non soffermarci sul primo LP autoprodotto nel 1965, Una sera con Herbert Pagani, ormai introvabile e essenzialmente composto da traduzioni. Per ragioni che appariranno più chiare in seguito, non è semplice rintracciare le singole canzoni dalle quali Pagani trae le proprie versioni, in particolare quando disponiamo del solo testo11. Sui dieci brani di Una serata con Herbert Pagani tre canzoni sono adattate da Brel – Lombardia, Testamento all’italiana e Sai che basta l’amore, che verranno studiate nel corso di quest’articolo –; tre sono traduzioni da Barbara – basandoci su temi e ritmi possiamo solo ipotizzare che Toi l’homme sia Una donna, che Pierre sia Ferragosto, mentre è meno chiara l’origine di Non mi venite a dire – ; la Ballata del fallito è la traduzione della Ballade en si bémol di Mouloudji, Gli emigranti forse la traduzione di Adieu mon pays di Enrico Macias ; infine Giorno di festa e Sedotta e accasata sono due canzoni scritte da Pagani in collaborazione con altri autori. L’LP conosce però una diffusione confidenziale; più importanti quindi sono i 45 giri che dal 1965 in poi presentano un percorso tematico e stilistico coerente a un pubblico più vasto. A dominare il primo 45 giri, Lombardia, è il tema dell’identità: la canzone che dà il proprio nome al disco è infatti l’adattamento del Plat Pays, canzone-inno breliana per eccellenza, mentre la traduzione del Moribond assume il titolo emblematico di Testamento all’italiana.

2.1 Le plat pays – Lombardia

Le plat pays viene cantata per la prima volta nel 1962; quando Pagani la traduce è già uno dei brani maggiori dell’opera di Brel, e nei concerti del cantante viene spesso in penultima posizione, prima della chiusura energica di Madeleine.

Il testo è diviso in quattro strofe, il cui ultimo verso, « Le plat pays qui est le mien », fa da ritornello. Ogni strofa descrive una stagione legata ad un elemento (l’acqua per l’autunno, la pietra per l’inverno...) e un vento che proviene da ogni punto cardinale. Il testo è ritmato da figure di ripetizioni: antanaclasi (figura retorica nella quale la parola ripetuta cambia significato: « Avec la mer du nord pour dernier terrain vague / Et des vagues de dunes pour arrêter les vagues »), frequenti anafore (« Avec » all’inizio di ogni strofa ; « Quand » ripreso più volte nell’ultima).

La descrizione del « plat pays » di Brel dà un senso di soffocamento. La prima strofa è quella della contaminazione dall’acqua, della negazione del confine fra mare, nebbia e territorio; la seconda rimpiange l’aspirazione mancata delle creazioni umane (di cui le cattedrali e i loro « diables de pierre » sono una metonimia) a lanciarsi in direzione del cielo, a esistere attraverso la trascendenza; la terza strofa precisa l’oppressione di questo cielo basso e grigio che porta perfino i canali alla disperazione. Così quel paese è assediato dal mare, schiacciato dal cielo, battuto dai venti. Ad ogni strofa il narratore invita il pubblico ad ascoltare il paese piatto che si agita in tensioni centrifughe e centripete: « écoutez-le tenir », « écoutez-le vouloir » e infine « écoutez-le craquer ».

La messa in musica del testo gioca anch’essa su estensioni, compressioni, ritorni: la griglia armonica segue una tensione fra un accordo di Do maggiore e la sua terza maggiore Mi, ripetutamente interrotta nel suo sviluppo da un accordo di La minore. Dal punto di vista dell’esecuzione, l’arpeggio della chitarra – supporto quasi esclusivo dell’accompagnamento – con lievi accelerazioni e rallentamenti fa da eco alle tensioni e oppressioni del testo.

Un’unica strofa si stacca dalle altre così nel testo come nell’armonia: l’ultima. Il Nord si riscalda al fuoco del Sud, l’Escaut diventa quasi il Po, la nordica Frida diventa la bruna Margot, e il paese piatto può ridere e cantare nei campi percorsi da un vento che va « au sud ». È l’unico passo in cui si incontrano direttamente gli uomini, che prima si manifestavano solo attraverso le loro creazioni di pietra e d’acqua (cattedrali e canali). Nella griglia armonica cambia solo un accordo, ma è fondamentale: il La minore diventa un La 7 e illumina l’intera strofa.

L’interpretazione scenica è notevole, in quanto costituisce uno dei due soli esempi di uso della chitarra sul palco da parte di Brel (con Quand on n’a que l’amour). Infatti il cantante aveva presto abbandonato lo strumento, sostituendolo vantaggiosamente con le sue doti di attore che costituiscono forse il suo apporto maggiore al genere della canzone. Invece di trasformare la canzone in pezzo teatrale, com’è suo solito, ne Le Plat Pays dà a vedere un uomo che si rinchiude nel rapporto col proprio strumento e la propria memoria. Brel, con la gamba poggiata su una sedia, sottolinea il carattere contemplativo della canzone.

Céline Pruvost, che ha studiato la traduzione di Pagani e una parodia del Plat Pays scritta da Dario Fo12, nota l’« attention méticuleuse à la forme »13 che caratterizza la traduzione di Pagani, Lombardia. La struttura metrica infatti conosce pochi cambiamenti: sono i dettagli descrittivi a radicare la canzone nella realtà italiana. La corrispondenza fra le stagioni e gli elementi viene conservata, e a volte esplicitata (« perché d’autunno piove, qui, e non smette mai », v. 5). Invece il penultimo verso di ogni strofa, dedicato ai venti, è sostituito da un verso sempre uguale, che cambia solo nell’ultima strofa, mantenendo così l’opposizione con le tre prime strofe: «  Se vieni su da me, vedrai, ti abituerai / ti piacerà  ». Tuttavia dal punto di vista tematico scompaiono i venti e insieme a loro svanisce anche una buona parte delle tensioni e delle angosce che dominavano il « plat pays ». Certo d’autunno l’acqua ricopre tutto, ma suonando musica (« qui l’arpa della pioggia per mesi suonerà », v.1), lontana dall’aggressiva marea breliana che ricopre sassi il cui cuore è sempre « à marée basse ». Similmente il cielo verso il quale tende l’architettura della cattedrale è senza nuvole (« con mille guglie bianche che la luna abbaglia », v. 9). Fondamentalmente diverso è inoltre il destinatario dei versi. Brel canta il suo Belgio per un pubblico imprecisato e a priori francese; Pagani invece cerca di convincere un’unica persona, una ragazza, a trasferirsi da Sud verso questa fredda Lombardia; così Pagani « s’éloign[e] un peu du lyrisme pour aller davantage du côté de l’intime »14. Ma non per questo si rinchiude nell’evocazione esclusiva della relazione amorosa.

Infatti l’elemento più caratterizzante di quest’adattamento non è solo l’urbanizzazione della descrizione – già notata da Céline Pruvost – ma anche una maggiore attenzione alla contemporaneità. Ne Le Plat Pays, le cattedrali-montagne delle Fiandre non vengono nominate: saranno quelle di Bruges, di Bruxelles, di Gand? Pagani invece canta « la cattedrale » (v. 8), cioè il Duomo di Milano. Paragoniamo infine l’ultima strofa delle due canzoni, sottolineando gli elementi del paesaggio in senso lato:

Avec de l’Italie qui descendrait l’Escaut
Avec Frida la blonde quand elle devient Margot
Quand les fils de novembre nous reviennent en mai
Quand
la plaine est fumante et tremble sous juillet
Quand le vent est aux rires, quand le vent est aux blés,
Quand
le vent est au sud, écoutez-le chanter
Le plat pays qui est le mien.

Ma quando il primo fiore dal fango nascerà
e fra
le ciminiere il pioppo canterà
capirai che a novembre noi dobbiamo pagare
quel che maggio promette e giugno ci può dare
fra
i grattacieli e i tram l’estate scoppierà
Se vieni su da me, vedrai, ti piacerà
La Lombardia, che è casa mia.

Fra « ciminiere » e « grattacieli » Pagani descrive lo sviluppo urbanistico dell’Italia del « miracolo economico », laddove Brel si accontenta di vaghe evocazioni rurali. Anche la differenza nell’interpretazione va in quella direzione: il languore di Brel contro la sorridente passione di Pagani anche nel cantare il grigiore lombardo. Per capire le implicazioni di questi slittamenti basta forse ricordare la posizione opposta dei due cantanti, entrambi emigrati: Brel canta da esule a Parigi e cede all’idealizzazione di una terra dalla quale è fuggito; Pagani invece scrive negli stessi luoghi che descrive, una regione che ha scelto come luogo di vita, nella quale ha conquistato una nuova identità, questa « Lombardia, che è casa mia » dove invita l’amata a raggiungerlo.

2.2 Le Moribond – Testamento all’Italia

Le moribond viene inciso per la prima volta su un 33 giri uscito per Barclay nel 1961; la voce di Brel è accompagnata dall’orchestra di François Rauber. La canzone è divisa in quattro strofe ognuna indirizzata ad una persona diversa, quattro allegorie con le quali il morente sta cercando di tirare le somme della sua vita: l’amico, il prete, il nemico (« l’Antoine », amante della moglie), la moglie. Le strofe sono separate da un ritornello che invita i presenti alla gioia per il funerale («  J’veux qu’on rie/ J’veux qu’on danse/ J’veux qu’on s’amuse comme des fous/ J’veux qu’on rie/ j’veux qu’on danse/ Quand c’est qu’on me mettra dans le trou  »). La struttura interna delle strofe è serrata, si presenta come un formulario, quasi un testamento vero e proprio. Lo possiamo esplicitare così:

Adieu [nome o funzione] je t’aimais bien/t’aimais pas bien
Adieu [nome o funzione] je t’aimais bien, tu sais/t’aimais pas bien, tu sais
Verso indipendente per ogni strofa
Verso indipendente per ogni strofa
Verso indipendente per ogni strofa
Adieu [nome o funzione] je vais mourir
C’est dur de mourir au printemps, tu sais
Mais j’pars aux fleurs la paix dans l’âme
Car vu que [cambia ad ogni strofa]
Je sais qu’tu prendras soin d’ma femme/ d’mon âme

La monotonia di questa struttura viene alleviata dal sistema delle rime, che non conosce nessun tipo di regolarità, e dal registro di lingua, ricco di contrazioni, di modi di dire popolari (« bon comme du pain blanc »), di gergo (« j’en crève ») se non addirittura di sgrammaticature (« j’t’aimais pas bien »). La successione delle strofe rivela l’universo mentale del moribondo. Prima di tutto viene l’amicizia – tema breliano all’origine del più gran numero di canzoni intrise di pura bontà e dedizione come Jef o Jojo. Poi il prete, avverso all’ateismo del morente (« on était pas du même bord ») che invece riconosce in lui il compagno di un comune destino (« on cherchait le même port »). La terza strofa, quella indirizzata all’Antoine, è segnata da una doppia gelosia: quella dell’uomo che abbandona al proprio nemico insieme il suo amore e la sua vita. Infine, relegata all’ultimo posto, viene la moglie, alla quale vengono rinfacciate numerose presunte infedeltà. Ateo convinto, anarchico di fatto, il morente riconosce quindi solo i legami individuali da uomo a uomo e esclude del tutto qualsiasi nozione di comunità. Il moribondo è il personaggio che incontriamo nelle altre canzoni di Brel dedicate alla morte: J’arrive, Le dernier repas, Seul...

La musica, su un ritmo di danza tradizionale – bourrée – che ambienta la scena su uno sfondo paesano, si sviluppa su una griglia armonica essenziale e ciclica in I – II – V, Sol – La – Ré. Questa semplicità festiva stride con la voce amara del morente: l’invito alla gioia del ritornello suona così come un’ultima sfida, un’esortazione blasfema a sconvolgere la sacralità del funerale con un atteggiamento fuori luogo.

Di quest’opera irosa Herbert Pagani rovescia quasi tutto. Dal titolo stesso della sua versione si evince insieme la fedeltà al tema (« testamento ») e la trasposizione culturale (« all’italiana »), come se la canzone dichiarasse subito il suo statuto di traduzione e il suo deciso radicamento nello spazio. Nella maggioranza dei suoi tratti la ferrea struttura di Brel è scomparsa. Le rime non seguono un ordine preciso, i versi non conoscono le numerose ripetizioni che davano la sua forma testamentaria al Moribond. L’ordine dei personaggi rimane lo stesso, ma la visione della società trasmessa dal testo è diversa su tre punti: il rapporto con la moglie; il rapporto con la collettività; la rappresentazione della realtà socio-economica del paese.

Nella prima strofa appare precocemente la futura vedova con tre versi che sostituiscono il lamento breliano sull’arrivo della morte: « dov’è mia moglie, cosa fa/ starà provando il velo nero ormai./ Che bella vedova sarà » (vv. 6-8). Se si allontana dalla misoginia di Brel, il ritratto di donna proposto da Pagani è ancora ambiguo. Da una parte la passione del moribondo viene chiaramente espressa, con riferimenti alla bellezza della sposa, assenti nel Moribond (« che bella vedova sarà », v.8; « è una bella donna assai » v.20, « bella e fredda moglie mia », v. 37) e con una dichiarazione erotica esplicita (« se non ci fosse tanta gente, sai/ fra le mie braccia ti vorrei/ l’ultimo addio che ti darei/ non te lo scorderesti mai » vv. 38-41). Ma questa passione sembra poco corrisposta: assente dal letto dove sta agonizzando suo marito, la sposa sta già provando il velo nero come impaziente del suo sposalizio con la morte. « Fredda », sembra necessario pregarla di piangere (v. 42) e di fare il suo dovere (v. 43). Pagani evita certo la condanna morale espressa da Brel, ma nondimeno si riallaccia all’antico modello misogino della donna crudele.

All’amico, chiamato Giuseppe, vengono attribuite le stesse caratteristiche dell’Émile di Brel: la condivisione dei piaceri e dispiaceri della vita (« donne e guai », « armi e osteria », vv. 3-4) e la bontà (« tu che sei buono come il pane » v. 9). Ma il riferimento al « compagno d’armi » – probabilmente durante la seconda guerra mondiale – Giuseppe rimanda a un vissuto collettivo lontano dall’anarchicismo di fatto breliano. Questo rapporto meno antagonistico alla società si ritrova nella strofa del curato. La posizione di Brel era quella di un chiaro ateismo; il moribondo di Pagani, più conciliante, chiede al prete di dire « una parola buona a Dio [...] per conto [suo] » (vv. 16-17), così come chiede alla moglie di raccomandarlo al « buon Dio » (v.44). Attraverso l’esperienza della guerra e la pratica religiosa la società non viene rifiutata; anzi il ritornello sottolinea l’attaccamento del morente ad un funerale tradizionale (canti, preghiere, ceri), « all’italiana » quindi.

Ma la società non è soltanto accettata, viene perfino descritta attraverso uno dei suoi aspetti più notevoli; per questa ragione è forse quella del nemico la strofa più interessante di tutta la traduzione di Pagani. Questo nemico non è l’amante della moglie ma il socio del morente, Turiddu. Un personaggio che evoca la calviniana Speculazione edilizia: il breve ritratto di Turiddu (che approffiterà della morte del socio per impossessarsi della cassaforte, vv. 27-29) fa proprio pensare a Caisotti, l’imprenditore imbroglione che truffa il protagonista di Calvino.

Rispetto a Lombardia il brano segna un importante passo in avanti dal punto di vista stilistico, con il primo uso della tecnica di sampling da parte di Pagani. Inizia e finisce infatti con pianti di donne, scacciapensieri e tamburello, che sottolineano l’ambizione etnologica dell’adattamento e danno alla canzone un colore molto diverso della bourrée di Brel. Nello stesso modo, durante il ritornello una campana suona, eco della chiesa vicina e richiamo alla religione. Ma il contrasto più assoluto è dato dalla voce. Come in Lombardia la voce di Pagani vibra di ottimismo e di felicità, sembra sempre sorridere, di passione per la moglie, di amicizia per Giuseppe e per il prete: mette in scena un’accettazione della morte grazie al suo collocamento in un rito sociale. In questo contesto lo scherno per il socio imbroglione suona addirittura come una critica della modernità del « miracolo economico », che distrugge una tradizione che tutto, in Testamento all’italiana, evoca: stereotipi di genere, presenza acritica dell’aldilà, esperienza collettiva dell’esercito e dell’osteria. Un messaggio apparentemente passatista quindi, ma che serve soprattutto un ideale di fraternanza e di pacifismo, uno dei temi più cari a Pagani.

3. Accostamenti pacifisti: Sai che basta l’amore / Un capretto (1965)

Quand on n’a que l’amour, incisa nel 1957, è il primo grande successo di Brel. Il suo esordio nel 1954 era stato accolto con freddezza dai critici, uno dei quali scrisse che esistevano « d’excellents trains pour Bruxelles »15. La canzone del 1957 è la prima nella quale il cantante utilizza quello che diventerà un elemento essenziale della drammaticità delle sue opere: il crescendo. Il testo consiste in un susseguirsi di immagini colme dell’ingenuo ottimismo cristiano del primo Brel: se l’uomo riesce ad affrontare le laidezze della vita con la forza dell’amore – un amore forse per una donna, « mon amour », nella prima strofa, e poi per un « ami » nella seconda e ultima –, potrà conquistare il mondo intero. Certo la forza della canzone proviene più dall’emozione creata dal crescendo che non dal testo (chi vorrebbe parlare ai cannoni armato solo dell’amore?). Lo capisce Herbert Pagani quando propone una versione nel 1966. Pochissimi sono i versi rimasti tradotti dall’originale: « couvrir de soleil la laideur des faubourg » diventa « Sai che basta l’amore per trovare parole / Che convincano il sole a venire in città », mentre alcune parole riemergono qua e là, sistematicamente spostate e fuori contesto, come il « voyage » (« Se ti basta l’amore, dài mettiamoci in viaggio »), la « prière » (« Sai che basta l’amore quando non hai bandiera / Quando non hai speranza, quando non hai preghiera ») o il « canon » (« E noi due con l’amore canteremo canzoni / Per far battere i cuori e tacere i cannoni »). Pagani si impegna quindi in una riscrittura quasi totale; interessante in questo 45 giri è l’accostamento di Sai che basta l’amore a Un capretto, traduzione italiana della canzone in yiddish Dona dona (Sholom Secunda, 193516) che paragona la persecuzione subita dai bambini ebrei al destino di un vitello portato al macello. C’è già in nuce, in questo 45 giri, la futura linea sionista di sinistra, caratteristica dell’ultimo Pagani, quando predicherà l’amore fra israeliani e palestinesi e risponderà nel 1975 alla classificazione del sionismo come un razzismo da parte delle Nazioni Unite con il Plaidoyer pour ma terre.

4. Ces gens-là – Che bella gente: definizioni della borghesia

Ces gens-là, forse il capolavoro di Brel, è scritta nel 1965. Il testo sviluppa il proprio percorso su una base musicale molto ridotta – pianoforte e contrabbasso che suonano accordi in Mi minore e La maggiore, uggiosi quanto la vita della borghesia descritta. La melodia è praticamente inesistente, si risolve in un parlare che evoca le confidenze di un ubriaco. La canzone è divisa in quattro strofe: le prime tre, ognuna di ventidue versi, descrivono i membri della famiglia avversa al narratore (il figlio maggiore; il fratello giovane; la madre, il ritratto del padre e la nonna morente); la quarta, composta invece da trentotto versi, strabocca per narrare l’amore fra il narratore e la figlia della famiglia, Frida. Il quadro enunciativo diventa chiaro già dalla prima strofa: il narratore nomina nel quinto verso un certo « Monsieur » che ascolta le sue confidenze, probabilmente al banco di un bar anonimo. Il ritmo ripetitivo della voce del cantante, il suo tono amaro nel contare i peccati veniali di « quella gente » non lascia sospettare l’arrivo improvviso del crescendo finale, l’espressione di un amore impossibile che viene velocemente repressa negli andirivieni della musica. L’orchestra infatti segue questa struttura: interviene solo dalla terza strofa, con l’arrivo discreto della fisarmonica e dei violini, per preparare l’irrompere finale del crescendo della quarta strofa, con variazioni nell’intensità che seguono i dubbi del protagonista nei confronti di Frida. L’interpretazione scenica di Brel – per esempio nel concerto degli addii all’Olympia del 196617 – tende ad esplicitare il tono, drammatico (le mani dell’antenata), burlesco (la « petite auto » del fratello minore) o lirico (le mani tese dell’innamorato). In Ces gens-là l’espressione della carica emotiva non spetta quindi direttamente al testo né alla musica, ma più che altro all’orchestra, all’interpretazione vocale e ai gesti sul palco, che ne fanno la canzone-teatro per eccellenza.

In quella famiglia, dove anche da morto il padre domina il suo « troupeau » dal quadro che lo ricorda, vige il più stretto patriarcato. Nessuno spazio rimane per le donne: la madre rimane muta, la nonna – che possiede l’eredità aspettata da tutti – è universalmente disprezzata, Frida è prigioniera per colpa non solo dei fratelli che la sorvegliano ma anche dell’educazione ricevuta: non saprà, non vorrà fuggire con il narratore. Le descrizioni, in particolare quelle dei due fratelli, insistono sul ridicolo delle loro apparenze: « D’abord il y a l’aîné / Lui qui est comme un melon / Lui qui a un gros nez ». La decadenza fisica porta il figlio maggiore ad essere « Raide comme une saillie / Blanc comme un cierge de Pâques » ogni mattina a chiesa per colpa dei suoi eccessi alcolici. Anche per quanto riguarda ambizione personale e professionale l’apparenza inganna: il beniamino, che vuole assumere « des grands airs », in realtà « n’a pas l’air du tout »; sua moglie è prima presentata come « une fille de la ville », il che potrebbe indicare una progressione sociale attraverso il matrimonio; ma il narratore si corregge subito: « enfin, d’une autre ville ». Insomma, illusioni e simulacri sostituiscono sistematicamente la realtà, come viene sottolineato nei versi finali di ogni strofa: in quella famiglia non si pensa, ma si prega; non si vive, ma si bara; non si chiacchiera: ci si accontenta di contare i soldi. Una borghesia fiamminga arretrata e reazionaria quindi, ma soprattutto immobile, senza il coraggio di realizzare le proprie ambizioni: il delitto capitale della filosofia di Brel, che vede nella vigliaccheria di una vita sempre uguale l’essenza di quello che chiama il borghese. Capiamo quindi che il traduttore che ha scritto Lombardia e Testamento all’italiana dovrà modificare nel profondo queste coordinate ideologiche.

Che bella gente è incisa sull’album Amicizia, del 1969. Primo cambiamento notevole, Pagani introduce il brano con una lunga battuta parlata: la storia gli è stata raccontata dal suo amico Enzo, « brillante avvocato penalista » che invece di fare carriera a Milano si compiace nel suo ruolo di intellettuale di paese che raccoglie confidenze. L’attenzione si sposta così drasticamente: Brel interpretava fisicamente sul palco il narratore anonimo, uno dei tanti falliti delle sue canzoni18, e potevamo immaginare l’interlocutore del suo protagonista, « Monsieur », muto e seccato al banco del bar. Pagani invece crea una distanza aggiuntiva: la voce narrante non è mai stata attrice né testimone del dramma e presenta ad un pubblico che immaginiamo urbano un racconto che le arriva dalla provincia, mediato dall’avvocato Enzo, benevolo nei confronti di un esponente di una classe sociale inferiore.

Inoltre, l’interpretazione vocale di Pagani trasforma la struggente ironia breliana in una deliziosa scanzonatura, che toglie alla canzone buona parte della sua valenza tragica. Come in Testamento all’italiana, all’accompagnamento musicale vengono aggiunti rumori: la campanella della cassa, che illustra ad ogni ritornello il tema dell’attaccamento al denaro della piccola borghesia descritta. L’accompagnamento segue fedelmente la versione di Brel: chitarra e pianoforte per le due prime strofe, arrivo della fisarmonica per la terza, poi entrata dirompente dell’orchestra per l’andirivieni finale del crescendo.

Nella sua traduzione Pagani cancella numerose immagini per dedicare più spazi ad alcuni elementi scelti:

Et du soir au matin
Sous sa belle gueule d’apôtre
Et dans son cadre en bois
Il y a la moustache du père
Qui est mort d’une glissade
Et qui regarde son troupeau
Manger la soupe froide.

e il padre possidente
che è morto scivolando
sul pavimento a cera.
Da una cornice nera

come da una finestra
osserva tutto il gregge
che mangia la minestra

L’esplicitazione della traduzione a volte dilaga ulteriormente, con l’effetto di precisare aspetti importanti della relazione fra il narratore e la sua amata. Così impariamo che Margherita19 non è libera di raggiungere il narratore neanche di nascosto:

Parfois quand on se voit


Da un mese a questa parte
la tengono al guinzaglio
e quando ci incontriamo
gli occhi di lei mi fissano

Pagani introduce anche nella sua versione brillanti immagini, sostituendo espressioni gergali con una descrizione dinamica: così « et [on] attend qu’elle crève / Vu que c’est elle qui a l’oseille » diventa « aspettano il momento / di chiudere la bara / e aprire il testamento ». Ma troveremo le modifiche più importanti nella caratterizzazione dei membri della famiglia. Prendiamo, per esempio, uno dei figli:

[…] Qu’est méchant comme une teigne
Qui a marié la Denise
Une fille de la ville
Enfin d’une autre ville […]
Qu’aimerait bien avoir l’air
Mais qu’a pas l’air du tout
Faut pas jouer les riches
Quand on n’a pas le sou.

[…]
incassa bustarelle
pensi che s’è sposato
con una mezza gobba
solo perché ha la dote […]
Non manca una funzione
deve tenere d’occhio
sessanta debitori
che lui tiene in ginocchio.

Qua l’attenzione breliana alla meschinità del carattere si trasforma nella denuncia dell’ossessione per il denaro. Si tratta di uno slittamento già incontrato in Lombardia e Testamento all’italiana, nelle quali allusioni alla realtà economica e industriale del tempo contano più della descrizione psicologica.

I provinciali avari e bigotti di Brel sono diventati capitalisti. I borghesi fiamminghi erano caratterizzati dall’immobilismo intellettuale; sotto la penna di Pagani praticano la corruzione e l’usura. Assistiamo a un cambiamento simile per quanto riguarda la psicologia del narratore: nel testo originale il suo discorso rasenta la pazzia, nella traduzione il suo dramma si limita alla povertà e introduce una differenza di classe che non era esplicita in Ces gens là:

Les autres ils disent comme ça
Qu’elle est trop belle pour moi
Que je suis tout juste bon
À écorcher les chats
J’ai jamais tué de chats
Ou alors y’a longtemps
Ou bien j’ai oublié
Ou ils sentaient pas bon

Ce l’hanno su con me

mi danno del pezzente
mi danno del barbone
E già, per quella gente
Meglio un delinquente
Ma con la posizione.

Notevole l’approdo di Che bella gente: negli anni in cui si sveglia su larga scala la contestazione politica contro la nascente società di consumo, Herbert Pagani trasforma in profondità Ces gens-là. Niente più pazzia di un emarginato in un paese anonimo: la tragedia atemporale della fuga impossibile viene sostituita da un preciso quadro socio-economico con larga eco al presente. Un borgo lombardo dominato da una famiglia di usurai, un giovane avvocato che si dà arie da intellettuale organico gramsciano, così in Che bella gente affiora la lotta di classe. Non sembra siano passati solo quattro anni fra la canzone originale e la sua versione italiana tanto sembrano il frutto di due mondi diversi. Un’evoluzione che opera anche nello stile. Aggiunta di suoni contro il classicismo del rapporto interprete-orchestra, voce ridente contro greve elocuzione di Brel: così Pagani oppone alla disperazione del fallito l’ironia leggera di chi pensa sia possibile superare le strettezze del vecchio mondo.

5. Conclusione

Al pari delle migliori traduzioni di quegli anni (citiamo almeno la prima di tutte, Non andare via di Gino Paoli incisa nel 1962), le versioni breliane di Pagani hanno soprattutto la funzione di definire la grammatica del cantautore esordiente. Notevoli soprattutto le mutazioni nello stile, che aggiungono suoni e voci secondarie in uno sperimentalismo che porterà al complesso capolavoro costituito da Mégalopolis. L’attenzione alla società del tempo, all’identità mutevole dell’Italia del « miracolo economico » che trapela nella condanna dei capitalisti di Testamento all’italiana e Che bella gente, mostra in Pagani un precursore degli studenti del Sessantotto. Ma la critica della modernità non è univoca e lascia sempre spazio ad una speranza che strabocca nella ricca interpretazione vocale del cantante: così la città, anche se proverbialmente brutta come la Milano del tempo, viene risarcita attraverso gli affetti in Lombardia e Sai che basta l’amore.

Pagani, l’abbiamo detto, è relativamente dimenticato oggi; il che non ci autorizza a sottovalutare il ruolo fondamentale da lui giocato nello sviluppo della canzone d’autore di quegli anni. Questo ruolo andrebbe ulteriormente indagato a partire, ad esempio, dalla collaborazione artistica con Giorgio Gaber che nasce nel 1968/69. Pagani lavora in particolare all’album L’asse di equilibrio (1968), preludio alla rottura totale del Signor G (1970). Quando poi Gaber approda al bilancio tematico dell’album I borghesi, proponendo più versioni di canzoni di Brel (L’amico adatta Jef, e ovviamente I borghesi riprende Les bourgeois) non dimentica il gioiello costituito da Che bella gente. Un ascolto preciso delle differenze fra l’interpretazione di Pagani e quella di Gaber rivela una forte teatralizzazione da parte di quest’ultimo: il passo successivo sarà la creazione del « teatro-canzone » gaberiano, che sfrutta appieno la doppia lezione, tematica e formale, di Brel mediato da Herbert Pagani.20

Note de fin

1 Come si sa una triplice rottura nella storia della canzone italiana avviene nel 1958: vittoria a Sanremo di Volare di Domenico Modugno, una rivoluzione stilistica; fondazione di una collana di dischi di canzone d’autore da parte della casa editrice Ricordi; creazione attorno al PCI del gruppo Cantacronache.

2 Vox Popular, Anno I, Numeri 1/1 e 1/2, Torino, IASPM Italia, 2016-2017.

3 Perle ABBRUGIATI, Réécriture et Chanson dans l’aire romane, Aix en Provence, PUP, 2017.

4 Riprendiamo qui l’espressione con la quale Marco Santoro qualifica la centralità del suicidio sanremese di Luigi Tenco nel divorzio fra la prima generazione di cantautori e il mercato della «  canzonetta  » da festival (Marco SANTORO, Effetto Tenco. Genealogia della canzone d’autore, Bologna, Il Mulino, 2010).

5 Ricordiamo che Nougaro registra il suo primo disco nel 1958, cioè lo stesso anno dell’esordio discografico dei suoi colleghi italiani che coincide con la nota iniziativa editoriale della Ricordi.

6 Cf. Giangilberto MONTI, Veronica DI PIETRO, Dizionario dei cantautori, Milano, Garzanti, 2003, p. 370.

7 Carlo BIANCHI, « La chanson errante: tra Italia e Francia le inquietudini di Herbert Pagani », in Voxpopular, 1, 2013, p. 80-102.

8 Carlo BIANCHI, «  Pagani, Herbert Avraham Haggiag  », in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 80, Roma, Treccani, 2014 (http://www.treccani.it/enciclopedia/herbert-avraham-haggiag-pagani_(Dizionario-Biografico)/, consultato il 24/3/2017). Più dettagliato – ma meno facilmente accessibile – Herbert Pagani. Canzoni, scritti, disegni, sculture, a cura di R. Castellani, Firenze, Barbés, 2010.

9 Per l’attività non canzonistica di Pagani, cf. Herbert PAGANI, Œuvres 1963/1986, Roma, Spazio Skema, senza data. Arrivato a Milano lavora anche per Einaudi: disegna fra l’altro la prima copertina delle Cosmicomiche di Italo Calvino.

10 Carlo BIANCHI, « La chanson errante: tra Italia e Francia le inquietudini di Herbert Pagani », op. cit., p. 80.

11 I testi possono essere letti in Herbert Pagani. Canzoni, scritti, disegni, sculture, op. cit.

12 Cf. Céline PRUVOST, «  Sur deux réécritures du Plat pays de Jacques Brel », in Perle ABBRUGIATI, Réécriture et chanson dans l’aire romane, op. cit. ; cf. inoltre Leonardo MASI, «  Immagini e suoni di Milano nella canzone d’autore italiana  », in Archiv für Textmusikforschung, n° 2, 2017 (online): Masi avvicina Lombardia, per lo strano accostamento amore-Milano, a canzoni come Autunno a Milano di Piero Ciampi, o Innamorati a Milano di Memo Remigi.

13 Ibid., p. 165.

14 Céline PRUVOST, «  Sur deux réécritures du Plat pays de Jacques Brel », in Perle ABBRUGIATI, Réécriture et chanson dans l’aire romane, op. cit., p. 165.

15 François GORIN, Jacques Brel, Paris, Folio, 2002, p. 22.

16 Nel 1964 era stata cantata in una traduzione francese, Donna donna, da Claude François; sicuramente Pagani era a conoscenza di questa pluralità di versioni.

17 Jacques BREL, Les adieux à l’Olympia, Paris, Universal, 1966 (édition DVD sans date).

18 Fra i casi più ovvi di falliti breliani, che il cantante culla di una particolare tenerezza disperata, possiamo citare almeno quelli di Au suivant, Madeleine o anche, fino ad un certo punto, quello di Mathilde.

19 Notiamo qui l’umorismo di Pagani che sostituendo il nome dell’amata, Frida, con Margherita, strizza l’occhio ai versi del Plat Pays già ricordati, che ha tradotto tre anni prima: « Avec de l’Italie qui descendrait l’Escaut / Avec Frida la blonde quand elle devient ‘Margot’ ».

20 Ringrazio, per le ricche riletture di quest’articolo, Chiara Egidi e Matilde Mari.

Citer cet article

Référence électronique

Fabien Coletti, « In Lombardia che è casa mia », Line@editoriale [En ligne], 8 | 2016, mis en ligne le 09 mars 2018, consulté le 29 avril 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/941

Auteur

Fabien Coletti

Alma Mater Studiorum, Università degli Studi di Bologna

cayincoletti@yahoo.it

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