Résumés

Il presente studio cerca di mostrare come l’atto poetico, essenzialmente indefinibile, si iscriva in una costellazione di segni e di forze che lo determinano e lo mettono in relazione con la nozione spaziale di « luogo », a cominciare dalla pagina stessa, già di per sé fonte di una problematica propria alla scrittura attraverso il rapporto fondante testo poetico / spazi bianchi e la dimensione verticale del poema, fino ai luoghi del « fuori », quando la pagina si apre su « altro da sé », in quanto la scrittura che lo attraversa è collegata da legami invisibili – non iconici, non mimetici – ai luoghi e alle cose del mondo. Scrivere significa entrare in questo rapporto costante, ma anche fuggitivo, di evocazione, di ricordo o talvolta di invocazione di luoghi e cose appartenenti alla sfera di un’esperienza percettiva o memoriale, prolungata da tutte le risonanze affettive e sensibili che tali esperienze hanno prodotto. Attraverso le nozioni di « soglia », « attraversamento », « raggi di mondo », questo saggio esplora le possibilità di pensare il luogo poetico come orientatemento verso l’« aperto », differente in ciò sia dalla semplice nozione fisico-geometrica di spazio, sia dal luogo puramente referenziale e geografico.

This paper attempts to show how the poetic act, essentially indefinable, is part of a constellation of signs and forces that determine it and put it in relation to the spatial notion of « place », starting with the page itself, which is already the source of the question of writing through the founding relation between the poetic text and blank spaces, the vertical dimension of the poem, to the « Outside » places where the page opens onto « something else », because the writing is connected through it with invisible links – not iconic, not mimetic – to the places and things of the world. Writing is entering this constant (but also fugitive) relation – evocation, memory or sometimes invocation – of places and things belonging to the sphere of perceptual or memorial experience, prolonged by all the sensitive and emotional resonances that these experiences have produced. Through the concepts of « threshold », « crossing », « rays the world », this essay explores the possibility of thinking about the poetic place as an orientation towards « the Open », which is different in concept from the mere physical-geometrical space, and from purely referential and geographic space.

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Texte

L’atto poetico, per quanto sia in se stesso indefinibile se non nella pratica che lo fa essere, si iscrive in una costellazione di segni e di forze che lo determinano e ne dicono il come e il dove. In particolare, esso può essere messo in relazione, in diversi modi, con la nozione spaziale di « luogo », secondo che ci si interessi all’atto stesso (in senso fisico, manuale direi : in questo caso, il luogo dove s’iscrive questo atto, mediante le sue tracce, è la pagina), oppure alla scena – chiamiamola « immaginaria » – che tale atto apre, come una sorta di « allucinazione semplice » (Rimbaud), davanti agli « occhi dello spirito ».

La pagina è già di per sé luogo e fonte di una problematica propria alla scrittura, articolandosi come un ritmo (o se si vuole, una respirazione) degli spazi bianchi – intervalli, interstizi – e dei caratteri – lettere, parole, segni di punteggiatura, maiuscole, ecc. – che formano catene segniche che noi chiamiamo frasi, periodi, testi. Per il testo poetico, poi, va sottolineato un altro aspetto peculiare, se non esclusivo : la dimensione di verticalità che il poema quasi sempre instaura, con le scansioni spaziali che essa implica, le tensioni ascendenti e discendenti, ma anche le spaziature meno regolari, e talvolta di grande audacia, inaugurate dalla poesia moderna, almeno da Mallarmé in poi (si pensi a quel grandioso esperimento di partitura quasi musicale che è il Coup de dés) ; spaziature che possono diventare, come in André du Bouchet, non semplici « pause » della parola, ma luoghi attivi, veri e propri tensori, ossia momenti in cui il respiro prepara la tensione e l’imminenza del dire. Come afferma finemente Henri Maldiney : « La poesia di André du Bouchet prende forma e senso solo fondandosi sul silenzio contro il quale e grazie al cui richiamo essa esiste ».1

O ancora, collegando già lo spazio della pagina al mondo esterno (il che ci condurrà sul cammino del mondo) : « Come la terra, supporto in formazione nello spazio della marcia, ha già sempre preceduto il passo, la lingua ancora silenziosa, il “muto nella lingua” ha già sempre preceduto la parola. »2

Questo luogo « inconsistente » che è quindi la pagina si apre, come s’è detto, su altro da sé, poiché la scrittura che lo attraversa è collegata da mille legami invisibili – non iconici, non mimetici – ai luoghi e alle cose del mondo. Nessuno può scrivere senza entrare in questo rapporto costante, ma anche fuggitivo, di evocazione, di ricordo o talvolta di invocazione di luoghi e cose appartenenti alla sfera di un’esperienza percettiva o memoriale, prolungata da tutte le risonanze affettive e sensibili che tali esperienze hanno prodotto, come echi, nella « camera oscura » di ciò che una volta si chiamava « anima », e a cui non sappiamo più dare un nome.

Qui conviene introdurre una distinzione fra due nozioni che spesso vengono confuse, quella di luogo e quella di spazio. Il luogo dell’esperienza poetica non è in alcun modo riducibile allo spazio dei geometri o dei fisici. Non può essere pensato in termini di spazialità pura, omogenea in ogni suo punto : in altri termini, il luogo nel senso in cui lo intendiamo non ha nulla di uno spazio calcolabile ; è al contrario quel sito, o forse quell’interstizio, ove qualche cosa viene a nascere, da cui qualcosa scaturisce, ove presenza e memoria, passo e attraversamento, paesaggio e orizzonte si compongono insieme. Le linee di paesaggio non sono dati misurabili ma, componendosi con l’aria e la luce, sono « raggi di mondo », comme ebbe a scrivere con grande forza poetica Maurice Merleau-Ponty ne Le visible e l’invisible.3

Un bellissimo brano di Philippe Jaccottet, tratto da Cahier de verdure, può darci un’indicazione sensibile su ciò che si può intendere per « luogo poetico » :

… certi luoghi, certi momenti ci inclinano, c’è come una pressione della mano, di una mano invisibile, che ci incita a cambiare direzione (dei passi, dello sguardo, del pensiero) ; questa mano potrebbe essere anche un soffio, come quello che orienta le foglie, le nuvole, i velieri. Un’insinuazione, a bassa voce, come di chi mormori : guarda, o ascolta, o semplicemente : aspetta.4

Movimento di inclinazione che tende a orientare come per spingerci al riconoscimento del luogo, attraverso lo sguardo e l’azione di camminare, ma anche gioco di voci e mormorii che già, in un certo senso, parla poeticamente, aprendoci all’attesa in quanto disposizione per l’essere, che appare qui sotto l’aspetto del fuori come phusis.

È possibile allora concepire la pagina come una soglia ? Che cos’è una soglia, se non un limite tra dentro e fuori, un limitare, che è possibile – ed anche necessario – varcare, per andare verso un fuori o ritornare verso un luogo-rifugio iniziale ? La soglia permette infatti il passaggio reiterato e la reciprocità dei luoghi secondo la figura centrale del superamento.

Sulla superficie della pagina affiorano e si depongono, dinamicamente, in una perpetua precedenza, i segni senza i quali la poesia resterebbe immersa nell’oscurità della sua scaturigine originaria, ossia quel silenzio inarticolato che Rimbaud chiamava, nella celebre lettera detta « du voyant » indirizzata a Paul Demeny, un « remuement dans les profondeurs », quel luogo abissale che evocava Giuseppe Ungaretti ne Il Porto sepolto, condensato nel pronome locativo « vi » :

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde.

Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto.5

Qui il viaggio orfico, nonostante l’evocazione implicita del porto di Alessandria d’Egitto, luogo natale del poeta, è innanzi tutto viaggio simbolico, rapporto con l’oscura sorgente della parola, « porto sepolto » che è nello stesso tempo luogo d’arrivo e di partenza, di conquista e di perdita. Sperimentando l’impossibilità di sostare nella parola, il poeta è costretto a un duplice movimento : andare verso l’oscuro, sapendo che giungervi è in realtà una partenza – itinerario orfico, s’è detto, ma anche dantesco – e quindi l’inizio di un cammino che porta alla luce i canti destinati ad essere dispersi. Resta solo « quel nulla / d’inesauribile segreto », cioè qualcosa che non cessa di essere presente e nello stesso tempo non può mai veramente essere elucidato, nulla, il segreto non svelato della sua provenienza. La pagina, ma anche il corpo « esistente » del poeta sono qui soglie, limitari, punti d’accesso che permettono l’intuizione fuggitiva dell’oscuro, del non rivelato.

Tuttavia, guardiamoci dal « pietrificare »6 questa soglia : essa deve, per essere, lasciare libero il varco, dare passo. Ciò implica che si rinunci alle dicotomie troppo nette fra dentro e fuori, soggetto e oggetto, essere e mondo, per giungere a concepire quello che Rainer Maria Rilke chiamava Weltinnenraum, parola composta che si potrebbe tradurre con « spazio interiore del mondo ». Quasi un ossimoro, eppure è proprio così che si può immaginare una relazione fra dentro e fuori che non sia di esclusione o chiusura. In una poesia intitolata « Conoscerli è morire », Rilke scrive :

Attraverso tutti gli esseri passa l’unico spazio ;
spazio interiore del mondo. In silenzio volano gli uccelli
attraverso di noi. Oh ! io che voglio crescere,
guardo fuori, ma è in me che l’albero cresce.
7

Questa poesia evoca uno spazio paradossale, quello dove fuori e dentro, senza confondersi, si rovesciano tuttavia, dichiarando la comune appartenenza terrestre – alla terra, all’aria, alla luce, alla tenebra – di tutto ciò che è. Questo spazio singolare è detto « unico » non perché risponda alle proprietà dello spazio omogeneo e astratto della geometria, ma piuttosto in quanto è spazio vivente, ritmico, attivo ; insieme o alternativamente vuoto e pieno, attraversato e attraversante. Scambio sensibile fra colui che vede e ciò che è visto, ma anche luogo ove si opera la conversione o la metamorfosi delle cose, delle apparenze e dei fenomeni del mondo in crescita interiore, insorgenza della parola, in un altro modo della presenza.

I versi di Rilke non parlano solo di come le immagini si formano in noi a partire da una percezione, ma indicano precisamente il processo e l’apertura del luogo poetico, rapporto con l’essere condiviso e non semplicemente con il mondo come insieme di « cose » oggettivate. In tal senso, il rapporto dentro-fuori è analogo a quello che, nel respiro, è scandito dal ritmo dell’inspirazione e dell’espirazione.

Ancora Rilke, in uno dei Sonetti a Orfeo :

Respirazione, oh tu invisibile poema !
Incessante scambio dell’essere nel suo seno
del puro spazio universale. Contro-bilanciamento
in cui ritmicamente giungo a me stesso.

Luogo di scambio e di conversione : il respiro, il suo ritmo come ciò che sostiene lo scambio dentro-fuori ed è già, ci dice Rilke, « invisibile poema » in quanto in esso risiede la prima e più profonda legge di ogni poesia come di ogni vita.

Si deve allora escludere dal campo poetico ogni luogo referenziale, cioè che sia ricollegabile – grazie alla memoria o in modo fattuale – a una geografia e a una topografia ? Sappiamo troppo bene la presenza essenziale di tali luoghi nella trama della memoria poetica : basta evocare il « natìo borgo selvaggio » leopardiano, la Parigi baudelairiana, la Liguria di Montale o Caproni, le periferie romane di Pasolini, la Trieste di Saba. Si potrebbero moltiplicare all’infinito questi rimandi a « luoghi di affezione », che sono talvolta anche dei luoghi originari. Resta il fatto che non è il loro carattere strettamente referenziale e topografico che ci sollecita, bensì la loro trasfigurazione mediante la parola, la sua tessitura, il suo « grano » fonico, la sua ritmica. Il mondo detto « reale » entra nel poema, cioè in una trama inedita di nuove relazioni che investe le evocazioni di luoghi – città, paesaggi, marine – di un’aura e di una visibilità del tutto diverse.

In ogni caso, quale che sia il loro statuto letterario, autobiografico, sentimentale, i luoghi della poesia, con l’estensione, gli orizzonti e i limiti che li definiscono, sono luoghi destinati ad essere attraversati. Alla topica classica del locus amoenus succedono, nell’avventura della poesia moderna e delle sue diverse rotture e dislocazioni, delle topiche mobili, che non giungono a cristallizzarsi in loci communes o topoi, ma si aprono al contrario ad esperienze che chiamerei « impure », ibride, in cui tormento, lacerazione, nostalgia, serenità, contemplazione possono alternarsi o mescolarsi. L’attraversamento dei luoghi e delle figure che li portano appare allora come un’incessante metafora della vita stessa, come una « odissea » che ritraccia il percorso vitale dell’uomo fra nascita e morte. Attraversare, significa non accettare la semplice stazione, l’abitazione sedentaria del poema, ma lasciarsi condurre dall’energia stessa della parola poetica al di là dell’orizzonte visibile, verso un oltre, esporsi all’Aperto.

Ma ciò che i poeti chiamano, da Hölderlin a Rilke, l’« Aperto » non ha nulla a che fare con i luoghi concreti del mondo : esso designa un oltre indefinibile e inaccessibile, che solo l’innocenza dell’animale, o dell’infans, può « vedere ». L’uomo, ci dice Rilke, è rivolto verso il mondo, verso le cose che lo abitano e le azioni che lo modificano. Per la sua stessa condizione mortale, egli è prigioniero del suo sguardo e della chiusura del suo essere proprio. Ricordiamo un celebre passo dell’ottava elegia duinese :

Con tutti i suoi occhi la creatura
vede nell’Aperto. Solo i nostri occhi
sono come rovesciati, posti come trappole
intorno ad essa, arrestando il suo libero slancio.
Ciò che è fuori, solo grazie alla presenza dell’animale
lo conosciamo : infatti già il bambino
appena nato, lo costringiamo a guardare
al contrario, verso l’apparenza e non nell’Aperto.

Sentimento platonico che può essere accostato al « mito della Caverna », e sarà precisato poco dopo, quando Rilke dice :

Sempre rivolti verso la Creazione,
noi vediamo il Libero solamente
da noi stessi offuscato

La condizione dell’uomo, opposta quindi a quella della « creatura », è tale che egli non può guardare se non verso il mondo. Tuttavia il cammino d’esperienza del poeta può condurre a un’intuizione di questo « luogo », o almeno a un’invocazione, a un’oscura attesa senza oggetto. Speranza, se si vuole, di una libertà e di un’innocenza ritrovate, per « barlumi », come diceva Ungaretti, anche se il linguaggio, con la sua opacità, trasporta con sé tutti i sedimenti e i detriti della storia, tutta la pesantezza della memoria e dei suoi inganni. Il compito della poesia sarebbe di condurre il linguaggio stesso verso questa « trascendenza » immanente, verso questa libertà incondizionata.

Possiamo intravvedere qui un rapporto fra l’Aperto e l’ou-topos, il non-luogo dell’Utopia, ma si tratta di un rapporto paradossale, asimmetrico. Il « nessun luogo senza negazione » che è per Rilke un nome dell’Aperto, non può certo ricondursi all’Utopia come finzione chiusa che la letteratura rinascimentale ci ha tramandato, luogo d’ordine e di controllo delle coscienze, organizzazione superiore, strettamente codificata e immutabile di una società astrattamente idealizzata e senza aperture, ma deve essere concepito, al contrario, come il luogo « altro » in assoluto, che non concede all’uomo la possibilità dell’abitare, del convivere, del fare. Un oltre che non può essere un paese per l’uomo. Il « nessun luogo » poetico, seguendo Rilke, è il limite di ogni luogo, è ciò di cui non si dà esperienza, spazio senza geografia e senza accessi, come un’affermazione pura che lo assimila al Tutto dell’essere, a un « davanti a sé » che è nello stesso tempo origine. Si tratta di un’aspirazione al nessun luogo della pura libertà, quella libertà che solo la morte può concedere ; innocenza aurorale come nella poesia di Ungaretti Girovago, instancabilmente ricercata ma sempre introvabile, innocenza che finalmente risponda all’inquietudine del luogo terrestre : « in nessuna/parte/di terra/mi posso/accasare ». Perché la terra, il « luogo » per eccellenza dell'umano, è insieme residenza e continua perdita, radicamento e fuga, o meglio, come scrive splendidamente Yves Bonnefoy, « une finitude qui illimite ».

Note de fin

1 Henri MALDINEY, «Naissance de la poésie dans l’œuvre d’André du Bouchet », in L’art, l’éclair de l’être, Seyssel, Comp’Act, 1993, p. 111. « La poésie d’André du Bouchet ne prend forme et sens qu’à se fonder sur le muet à l’encontre et à l’appel duquel elle existe. »

2 Ibid., p. 116. « Comme la terre, support en formation dans l’espace de la marche, a toujours déjà devancé le pas, la langue encore silencieuse, le “muet dans la langue” a toujours déjà devancé le mot. »

3 Maurice MERLEAU-PONTY, Le visible et l’invisible, Paris, Gallimard, Coll. Tel, 1964.

4 Philippe JACCOTTET, Cahier de verdure, Paris, Gallimard, 1990, p. 16. « … certains lieux, certains moments nous inclinent, il y a comme une pression de la main, d'une main invisible, qui nous incite à changer de direction (des pas, du regard, de la pensée) ; cette main pourrait aussi être un souffle, comme celui qui oriente les feuilles, les nuages, les voiliers. Une insinuation, à voix très basse, comme de qui murmure : regarde, ou écoute, ou simplement : attends ».

5 Giuseppe UNGARETTI, « Il porto sepolto », L’allegria, in Vita di un uomo. Tutte le poesie, Milano, Mondadori, « Meridiani », 1990, p. 23.

6 L’immagine della « soglia pietrificata » è di Georg Trakl (« Una sera d’inverno ») ed è associata al dolore : « il dolore pietrificò la soglia ».

7 Le traduzioni delle poesie di Rilke qui citate sono mie.

Citer cet article

Référence électronique

Pascal Gabellone, « Luoghi, spazi, esperienze del poetico », Line@editoriale [En ligne], 4 | 2012, mis en ligne le 02 mars 2017, consulté le 04 mai 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/451

Auteur

Pascal Gabellone

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