Un malinteso ? La poesia di Clemente Rèbora alla prova del francese

Résumés

Prendendo lo spunto da una riflessione sulla traduzione, il presente studio propone un’esplorazione dei modi della scrittura poetica di Rèbora e cerca di capire i motivi per cui il pubblico francese stenti ad intendere una poesia caratterizzata dalla forte valenza espressionistica e – nella seconda fase della sua produzione – da un impegno religioso che contravviene a un’educazione tutta francese che vuole non si mescolino laico e sacro.

Startingfrom a reflection on translation, this paper will address the modalities of Rèbora’s poetry and willtry to understand the reasons why the French public finds it difficult to understand a poetry characterized by expressionist incandescence and - with regard to a second moment of this poetic production - by a religious trend at odds with a French education that is wary of mixing the secular and the sacred.

Texte

La riflessione che vorrei proporre nasce dalla mia esperienza di traduttrice e da una conferenza che ho tenuto a Montpellier nel quadro delle attività di un’associazione culturale « I Dilettanti » i cui responsabili prestano un’attenzione peculiare alla poesia – cosa tanto rara quanto notevole. Quella sera dovevo parlare della poesia di Rèbora, sapendo che questa conferenza andava ad inscriversi in un ciclo in cui era già stato discusso di Sbarbaro, di Betocchi, di Pasolini e di Saba. Tutti questi poeti – io stessa mi ero occupata di Saba – erano stati ascoltati e apprezzati da questo pubblico di conoscitori. Non è stato così per Rèbora, la cui opera ha suscitato una reazione di rifiuto, nata da un « malinteso » sulle cui ragioni tenterò più avanti di far luce.

Ma andiamo con ordine, partiamo dalle traduzioni delle poesie di Rèbora. Quando ho sentito il bisogno impellente di tradurre Rèbora, avevo alle spalle traduzioni di Saba e sapevo che una delle prime condizioni che presiedono al mestiere di traduttore è la capacità d’ascolto, che ci mette in un rapporto di familiarità e anche di intimità con la voce dell’Altro, questa « presenza che chiede di essere accolta », come la chiama Antonio Prete1, fino al punto di diventare, a nostra insaputa, una parte di noi stessi che ci ingiunge di darle voce. Ciò mi porta a pensare che si traduce innanzitutto per se stessi e non necessariamente con lo scopo di far conoscere un autore o un’opera, come si crede di solito. Ci poniamo davvero il problema della ricezione nel momento in cui traduciamo? « On ne traduit pour personne », scrive Inès Oseki-Dépré glossando Walter Benjamin, « car l’œuvre d’art ne s’adresse pas à l’homme, à un public, mais à l’essence de l’homme. […] L’œuvre d’art ne communique pas »2.

Tradurre ha quindi necessariamente a che fare con la scrittura e la creazione. Non è affatto un « esercizio ancillare », un esercizio « al servizio di ». Ne era consapevole Ungaretti quando scriveva nel 1946: « È a tal punto individuale e inimitabile la poesia ch’essa è intraducibile ». Ed elencava ciò che per lui era intraducibile : il ritmo, la qualità sillabica, i valori fonici, il contenuto che è necessariamente sottomesso all’interpretazione, e per finire, la forma e lo stile. E continuava così: « Perché, mi domanderete, si traduce allora? Perché io stesso traduco? Semplicemente per fare opera originale di poesia »3.

Questa citazione di Ungaretti richiama un’altra osservazione riguardo il paradosso della traduzione. Se la traduzione è creazione in un’altra lingua, un’altra materia sonora, sensuale, semantica, concettuale, ciò nonostante il testo originale rimane lo stesso e conserva la sua identità, anche fra innumerevoli traduzioni, poiché la traduzione è questione di « ospitalità », come viene precisato da Antonio Prete :

L’ospitalità è l’esperienza di una cultura che riconosce l’altro senza sottrarre all’altro la sua alterità o diversità, la sua identità di cultura e sapere e costume, e nello stesso tempo pone colui che ospita nella condizione di non dover rinunciare alla sua singolarità, alla sua identità.4

La difficoltà consiste dunque nel tenere insieme due identità: quella dell’opera e quella della traduzione, poiché il traduttore è messo alla « prova dell’estraneo », per parafrasare il bel titolo che Antoine Berman ha preso in prestito da Hölderlin, e deve prepararsi in modo da accoglierlo senza soffocare la sua voce, né cannibalizzarlo nell’identità della propria lingua, dato che la traduzione riuscita deve lasciare che si dispieghi la vita dell’originale5. Del resto, Leopardi, traduttore degli antichi, non aveva come programma : « A Virgilio far parlare l’italiano virgilianamente »6?

È forte di queste premesse che ho iniziato a tradurre Rèbora, avendo inoltre ben presente l’avvertimento lanciato da Dante nel Convivio:

E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra trasmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia.7

Anche se la poesia di Rèbora non suscita di primo acchito né la dolcezza né l’armonia, il mio proposito non cambiava affatto. Dovevo affrontare questa « cosa (dis)armonizzata da legami musaici » che è la poesia di Rèbora e di cui vorrei ora proporre una lettura.

La prima raccolta di Rèbora, Frammenti lirici è pubblicata nel 1913 per le edizioni della Voce. È dedicata « ai primi dieci anni del secolo ventesimo », mostrando così la preoccupazione del poeta di essere nel mondo. In effetti la poesia, per lui, non sta in una torre d’avorio. Rèbora avverte la crisi, lo sfacelo di un mondo che perde i suoi punti di riferimento e sprofonda. Donde deriva una poetica del grido per dire un mondo di cui non si capisce più il senso poiché, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, il senso è perduto. Ed è così che al caos del mondo corrisponde il caos della poesia e delle forme, a somiglianza, per esempio, della città, luogo dove dominano il rumore, il tumulto e la dissonanza. Di conseguenza la poesia di Rèbora è segnata da un espressionismo originale che si traduce con la violenza deformante, l’accumulo parossistico dei termini, il miscuglio contrastante e dissonante, per non parlare della polivalenza semantica8.

La lingua incandescente di questa poesia è di una forza, un vigore e una ricchezza singolari ai suoi tempi. Mutatis mutandis, Rèbora pratica un’operazione linguistica paragonabile a quella di Dante, ovvero inventa e forgia la lingua che gli conviene. Una lingua aspra e ruvida che non manca di ricordare le « Petrose », queste « rime » di Dante per la « Dama Pietra » di cui il celebre « così nel mio parlar voglio esser aspro » è un manifesto poetico che mette in primo piano l’esigenza di uno stile aspro e duro sia per le sue sonorità che per i suoi contenuti9. Ma, sebbene essa renda conto del caos di una realtà ruvida, sarebbe riduttivo, trattandosi di Rèbora, il limitarsi a questa sola asprezza. Poiché, come fa Dante per La Divina Commedia, Rèbora utilizza tutte le risorse della lingua, dato che la sua poesia deve esprimere tutte le cose del mondo e la natura dei rapporti fra le cose. La sua poesia deve raccontare il più terreno e il più abietto, ma anche il più immateriale e il più celeste.

Ecco perché Rèbora ha creato una lingua poetica che segue la legge di convenienza che gli s’impone. Impiega le parole esacerbandone il significato e giustapponendole per farle scontrare in sonorità aspre e dure fuori da ogni convenzione lessicale e stilistica prestabilita. Fa ricorso anche a prestiti letterari che rende propri rimaneggiandoli (numerosi sono i riferimenti a Dante, a Campanella, a Parini e a Leopardi). Inserisce forme dialettali (soprattutto toscanismi e lombardismi). Amalgama termini tecnici al linguaggio lirico e procede con avvicinamenti audaci di astratto e concreto. E quando la lingua non gli fornisce la parola che serve per dire qualcosa, allora l’inventa secondo i suoi bisogni oppure cerca nel repertorio delle parole arcaiche e cadute in disuso. Questa ricchezza lessicale si congiunge a una sintassi spezzata e dislocata, in cui si sentono la lacerazione violenta e la percussione sonora10 di cui le poesie scritte durante la Prima Guerra Mondiale costituiscono il culmine, quando la « passione » del mondo che anima il poeta assume pienamente il significato.

Nel luglio 1915, in effetti, Rèbora è mandato in prima linea, sul Carso, dal lato di Gorizia, e si rende conto ben presto che la guerra non è che distruzione, atrocità, barbarie. Nessuna palingenesi all’orizzonte, contrariamente a ciò che alcuni predicevano ; nulla a che vedere col buon « bagno di sangue caldo » auspicato da Papini o ancora con « la guerra sola igiene al mondo » di marinettiana memoria. Ma il fango, le esplosioni, l’odore della morte, i corpi smembrati degli agonizzanti deprivati della loro umanità. Questa carneficina abominevole e assurda indigna Rèbora, lo rivolta e l’opprime. La morte, atroce, è onnipresente, fetida e mostruosa.

Verso il Natale 1915, l’esplosione ravvicinata di un proiettile d’artiglieria provoca in lui un trauma nervoso. Viene mandato in un ospedale dove uno psichiatra gli diagnostica una « mania dell’eterno ». Rèbora è immediatamente riformato e rimandato a casa. Rimangono le sue poesie di guerra che sono fra le più potenti e le più sconvolgenti mai state scritte per dire la condizione dell’« inumano » come, per esempio, questa « Voce di vedetta morta », voce muta che sale dal carnaio:

C’è un corpo in poltiglia

Con crespe di faccia, affiorante

Sul lezzo dell’aria sbranata.

Frode la terra.

Forsennato non piango:

Affar di chi può, e del fango.

Però se ritorni

Tu uomo, di guerra

A chi ignora non dire;

Non dire la cosa, ove l’uomo

E la vita s’intendono ancora.

Ma afferra la donna

Una notte, dopo un gorgo di baci,

Se tornare potrai;

Sóffiale che nulla del mondo

Redimerà ciò ch’è perso

Di noi, i putrefatti di qui;

Stringile il cuore a strozzarla:

E se t’ama, lo capirai nella vita

Più tardi, o giammai11

Il y a un corps en bouillie

et craquelures de visage, affleurant

sur la puanteur de l’air déchiqueté

Fraude est la terre

Forcené je ne pleure pas:

c’est l’affaire de qui le peut et de la fange

Cependant, si tu retournes

toi, homme, de la guerre

à qui l’ignore ne le dis pas;

ne dis pas la chose, là où l’homme

et la vie s’entendent encore

Mais saisis la femme

une nuit, après un tourbillon de baisers,

si tu peux retourner ;

souffle-lui que rien au monde

ne rachètera ce qui de nous

est perdu, nous d’ici les putréfiés ;

serre son cœur jusqu’à l’étouffer :

et si elle t’aime, alors tu le comprendras plus tard

dans la vie, ou jamais.

Corpo in poltiglia, « io » in rovina, coscienza radicale della catastrofe avvenuta in cui crolla una civiltà intera… Possiamo ancora scrivere della poesia, per parafrasare Adorno ? Infatti, dopo la tragedia della guerra, sembra proprio che le cose non siano più al loro posto e che le parole non riescano più a nominarle. Rèbora appare sempre più invaso da una spiritualità e un sentimento d’attesa indefinibile.

E nel 1922, prima d’entrare in un lunghissimo silenzio poetico, pubblica una nuova raccolta intitolata Canti Anonimi che si conclude con una poesia del 1920, « Dall’immagine tesa ». Questa poesia è caratterizzata dal « motivo […] mistico dell’attesa che si fa presenza, dell’attenzione e tensione spirituale che si fa certezza segreta »12. Tutto il sistema sensoriale è il ricettore di un evento misterioso – appena un « bisbiglio» – che non può realizzarsi che tramite il vuoto e il deserto, la solitudine interiore e il silenzio:

[…] Fra quattro mura

Stupefatte di spazio

Più che un deserto

Non aspetto nessuno:

Ma deve venire,

Verrà, se resisto

A sbocciare non visto,

Verrà d’improvviso,

Quando meno l’avverto :

Verrà quasi perdono

Di quanto fa morire,

Verrà a farmi certo

Del suo e mio tesoro,

Verrà come ristoro

Delle mie e sue pene,

Verrà, forse già vien

Il suo bisbiglio.13

[…] Entre quatre murs

stupéfaits d’espace

plus qu’un désert

je n’attends personne :

mais il doit venir,

il viendra, si je résiste

dans l’éclosion, non vu,

il viendra tout à coup,

alors que moins je le sens,

il viendra comme pardon

de ce qui fait mourir,

il viendra me rendre certain

du trésor sien et mien,

il viendra comme réconfort

des peines miennes et siennes,

il viendra, déjà peut-être vient

son murmure.

Questo periodo è un periodo di crisi molto grave per Rèbora. Brucia i suoi libri e le sue carte personali. Non pubblica più poesie, ma legge, commenta e traduce dei testi ascetici di tutte le religioni fino al giorno in cui, come Sàulo sulla via di Damasco, è « chiamato » e come « folgorato ». Otto anni più tardi, nel 1936, dopo cinque anni di preparazioni nel noviziato rosminiano di Domodossola, Rèbora prende i voti e il silenzio poetico durerà ancora lunghi anni. Ma pubblicherà di nuovo e saranno le Poesie religiose, edite nel 1947. A partire da questo momento Rèbora potrà dire che « la poesia è divenuta [per lui] un mezzo concreto per amare Dio e i suoi fratelli », e la speranza ritorna in lui:

Speravo in me stesso : ma il nulla mi afferra.

Speravo nel tempo : ma passa, trapassa ;

In cosa creata : non basta, e ci lascia.

Speravo nel ben che verrà, sulla terra:

Ma tutto finisce, travolto, in ambascia.

Ho peccato, ho sofferto, cercato, ascoltato

La Voce d’Amore che chiama e non langue :

Ed ecco la certa speranza : La Croce.

Ho trovato Chi prima mi ha amato

E mi ama e mi lava, nel Sangue che è fuoco,

Gesù, l’Ognibene, l’Amore infinito,

L’Amore che dona l’Amore,

L’Amore che vive ben dentro nel cuore.

[…].14

J’espérais en moi-même : mais le néant m’agrippe.

J’espérais dans le temps : mais il passe, trépasse ;

en chose créée : ne suffit pas, et nous laisse.

J’espérais dans le bien qui viendra, sur la terre :

Mais tout finit, emporté, en angoisse.

J’ai péché, j’ai souffert, cherché, écouté

la Voix d’Amour qui appelle et ne languit pas 

Et voici l’espérance certaine : la Croix.

J’ai trouvé Qui d’abord m’a aimé

et m’aime et me lave, dans le Sang qui est feu.

Jésus le Tout-bien, l’Amour infini,

l’Amour qui donne l’Amour,

L’Amour qui vit au tréfonds du cœur. […].

Ma il sollievo sarà di breve durata. I tormenti di Rèbora sono aggravati dall’arteriosclerosi che lo affligge. All’angoscia esistenziale dei primi anni si sostituisce l’angoscia dell’uomo che si sa peccatore e teme di essere abbandonato da Dio. Questo tormento sarà tangibile nei Canti dell’infermità scritti fra l’ottobre 1955 e il dicembre 1956. In « Notturno », il poeta grida la sua angoscia di non essere che un « inutile servitore », rinchiuso nella prigione del suo corpo mentre Gesù è fuoco d’amore che fa bruciare il sangue del fedele teso verso il sacrificio e il dono di sé:

Il sangue ferve per Gesù che affuoca.

Bruciami ! dico : e la parola è vuota.

Salvami tutto crocifisso (grido)

insanguinato di Te ! Ma chiodo al muro,

in fisiche miserie io son confitto.

La grazia di patir, morire oscuro,

polverizzato nell’amor di Cristo :

far da concime sotto la sua Vigna,

pavimento sul qual si passa, e scorda,

pedaliera premuta onde profonda

sal la voce dell’organo nel tempio

e risultare infine inutil servo :

questo, Gesù, da me volesti ; […].15

Ardent le sang par Jésus qui embrase.

Brûle-moi ! dis-je et la parole est vide.

Sauve-moi tout crucifié (je crie)

ensanglanté de Toi ! Mais clou au mur,

En misères physiques je suis planté.

La grâce de souffrir, de mourir obscur,

pulvérisé dans l’amour du Christ :

servir d’engrais sous sa Vigne,

pavement sur lequel on passe, et qu’on oublie,

pédalier pressé d’où monte

profonde la voix de l’orgue dans le temple

et n’être finalement qu’inutile serviteur :

cela, Jésus, de moi tu as voulu […]

Lo si nota, la conversione è lontana dall’aver scacciato le angosce e i tormenti del poeta. Rèbora ha l’impressione, anche se la fede è sempre ardente dentro di lui, di non meritare l’amore di Dio né il suo perdono. S’interroga senza sosta. Di fronte alla malattia, solo, come Giobbe sul suo letamaio, si crede abbandonato. A testimonianza di ciò una breve poesia scritta alla fine della sua vita dopo una crisi che l’aveva dato quasi per morto. Stremato da atroci dolori cui nulla più dava sollievo, risente ancora di più della pesantezza del corpo – intento a decomporsi vivo16 – che lo trascina nella pura materialità. L’anima è dispersa, perduta nell’oscurità. Donde segue, dal suo abisso di miseria, l’appello all’abisso di misericordia di chi confessava agli infermieri seminaristi che lo curavano: « fra Dio e me c’è un muro! Non sento più nulla » o ancora « sono lontano da Dio », « sono stato abbandonato! »:

Terribile ritornare a questo mondo

quando già tutte le

erano

a transitare 

E il corpo mi rifiuta ogni servizio

e l’anima non trova più suo inizio

Ogni voler divino è sforzo nero.

Tutto va senza pensiero:

l’abisso invoca l’abisso.17

Qu’il est terrible de retourner à ce monde

quand toutes les fibres déjà

étaient tendues

pour passer !

Et mon corps me refuse tout service,

et mon âme ne trouve plus son origine.

Tout vouloir divin est effort noir.

Tout va sans pensée :

l’abîme appelle l’abîme.

L’angoscia che si percepisce crescerà fino alla morte, che sopravviene il primo novembre 1957, a Stresa, mettendo fine alla Passione di un poeta il cui cammino singolare è caratterizzato interamente dall’angoscia esistenziale e dalla sete d’assoluto, che sia prima o dopo la conversione e l’unione mistica con Dio. Uno psichiatra non gli aveva forse diagnosticato « una mania dell’eterno »? Ecco perchè lontano dall’essere un semplice esercizio letterario, la poesia è per lui ricerca della verità al prezzo di un vero e proprio « travaglio » che torce i versi e le parole fino alla dissonanza, fino al grido. Accogliere il sublime e il triviale, dire l’ambivalenza delle cose e dei sentimenti, mettere insieme i contrari, scavare nelle profondità di se stessi, ecco l’esigenza poetica e morale di Rèbora. Ne conseguono lo scontro delle parole, la dissonanza e la disarmonia, ma anche l’elevazione, la pienezza e la leggerezza. « Poesia d’escremento e di fiore » . Terra e cielo abbracciati.

Ma la poesia di Rèbora non s’esaurisce nella rappresentazione dell’inferno, dell’orrore e dell’abiezione. In effetti, che sia prima o dopo la conversione al cattolicesimo, la problematica di Rèbora resta sempre la stessa : non un itinerario dalla terra verso il cielo, ma terra e cielo insieme. Perciò la sua è una poesia non solo intellettuale a misura – o piuttosto a dis-misura – del caos, ma allo stesso tempo una poesia carnale e sensuale che racconta il mondo in tutti le sue manifestazioni e metamorfosi. Poesia energetica per eccellenza, tende a conciliare l’eterno e il contingente, il transitorio e il continuo, il residuo e l’infinito, poiché, in Rèbora, la « mania dell’eterno » e il desiderio d’assoluto sono inseparabili dalla « passione del mondo ». Dato che accoppia i contrari, la sua poesia è compromessa nel ciclo della vita che comprende il detrito, la decomposizione, l’escremento e il concime sui quali i fiori prosperano. E l’essere umano – così come la poesia – fa parte di questo ciclo vitale:

O poesia di sterco e di fiori,

Terror della vita, presenza di Dio,

O morta e rinata

Cittadina del mondo catenata!18

Ô poésie d’excrément et de fleurs,

Terreur de la vie, présence de Dieu,

Ô morte et ressuscitée

Citoyenne du monde chaînée !

Di fronte a questa poesia difficile, a tratti oscura, grande sarebbe stata la tentazione di cedere a ciò che l’intrattabile Henri Meschonnic chiama « l’idéologie cliché du traducteur »19, ideologia di cui Milan Kundera dà un’idea panoramica quando racconta come sia passato di sorpresa in sorpresa il giorno in cui si è interessato da vicino al destino della sua opera e in cui s’è reso conto che era stata fatta a pezzi da traduttori poco scrupolosi che non si erano certamente mai posti la questione dell’ascolto e della ricezione:

En 1968 et 1969, La Plaisanterie a été traduit dans toutes les langues occidentales. Mais quelles surprises ! En France, le traducteur a récrit le roman en ornementant mon style. En Angleterre, l’éditeur a coupé tous les passages réflexifs, éliminé les chapitres musicologiques, changé l’ordre des parties, recomposé le roman. Un autre pays. Je rencontre mon traducteur : il ne connaît pas un seul mot de tchèque. « Comment avez-vous traduit ? » Il répond : « Avec mon cœur », et me montre ma photo qu’il sort de son portefeuille. Il était si sympathique que j’ai failli croire qu’on pouvait vraiment traduire grâce à une télépathie du cœur. Bien sûr, c’était plus simple : il avait traduit à partir du rewriting français, de même que le traducteur en Argentine. Un autre pays : on a traduit du tchèque. J’ouvre le livre et je tombe par hasard sur le monologue d’Helena. Les longues phrases dont chacune occupe chez moi tout un paragraphe sont divisées en une multitude de phrases simples… Le choc causé par les traductions de La Plaisanterie m’a marqué à jamais.20

Da parte mia, non dovevo più preoccuparmi di tirarmi addosso i fulmini di Rèbora, ma solo quelli della mia coscienza. Una sorta di imperativo categorico mi impediva – per rispettare le leggi dell’accoglienza e dell’ospitalità – di eliminare la polisemia e di rendere chiaro ad ogni costo ciò che era oscuro. Non avevo dimenticato che sant’Agostino aveva già reclamato « il diritto d’essere oscuro e il diritto di rivelare, con diverse traduzioni, il doppio senso d’un testo »21.

Dovevo ugualmente evitare il difetto relativo all’ideologia del traduttore francese, ovvero l’ossessione per l’eleganza, per il buon gusto e per l’armonia ad ogni costo, poiché dovevo accogliere la voce della disarmonia e della dissonanza. Era dunque imperativo passare oltre le prescrizioni tipicamente francesi che conducono il traduttore a chiarificare piuttosto che a tradurre (da ciò derivano le traduzioni in forma di spiegazioni del testo), a razionalizzare, in una parola a « omogeneizzare ». Fino a dimenticare il ritmo al solo beneficio del senso. « Il senso c’è », come si sente troppo spesso, come se il senso non fosse ugualmente questione di ritmo, come se si potesse dissociarlo. Tutto questo deriva da quello che Meschonnic chiama la « sordità », questa sordità che conduce al disastro: la « désécriture » e le « dérythmement », per riprendere i suoi stessi termini22. Ho dunque tentato di ascoltare il ritmo, di rendere lo scontro delle parole, le dissonanze, i momenti di elevazione, il misto di puro e impuro, le svolte improvvise attorno a un « ma » avversativo, l’estasi e il grido.

E per questo ero ben cosciente che era la mia lingua, il francese, ad essere messa in gioco per tessere una rete di corrispondenze ed equivalenze con l’originale. Era la mia stessa lingua che non smettevo d’interrogare, di inquisire, d’interpellare, di ammansire nei suoi modi, nella sua natura, nella sua ritmica. Ne deriva questo lavoro di scrittura al quale appartiene la traduzione che instaura una relazione profonda con l’originale, reinventandolo in un’altra materia sonora e verbale, che porta all’inevitabile infedeltà costitutiva della traduzione, costitutiva in quanto garante della sua autonomia. Ed ecco perché potremmo dire con Borges che è l’originale ad essere infedele alla traduzione. Poiché, se c’è infedeltà, questa è a doppio senso dal momento che si considera la traduzione come reinvenzione, scrittura, relazione profonda con l’originale23.

Questa questione dell’infedeltà così spesso associata all’esercizio della traduzione ci rinvia a un’altra idea comune : quella della perdita. In un’intervista, Valerio Magrelli dice che con la traduzione « si perde molto » e che « solamente nell’originale senti la grana, la consistenza, la materialità della lingua »24. Se seguissimo Magrelli, saremmo portati a pensare che traducendo non solo si perde molto, ma tutto, poiché si perde la materialità della lingua ; ovvero la lingua stessa. E non bisogna affatto dimenticare, pensiamo a Pareyson, « che l’opera è tutta nella sua presenza fisica, ch’è corpo e spirito insieme »25.

Inoltre non si perde ciò che l’opera porta in sé poiché traducendo, secondo le stesse parole di Magrelli, « l’autore che traduce, a un certo grado di intensità, riporterà nella sua scrittura l’esperienza che ha fatto. L’esperienza dell’altro »26. La perdita è una falsa questione. Così come la questione che rinvia al tradimento. Infatti, la paronomasia « traduttore-traditore », sebbene abbia l’aspetto dell’evidenza, è molto riduttiva. In realtà, la trasposizione in un’altra lingua – con tutti gli esercizi richiesti – « pour ménager des effets analogues […] [et] provoquer la même émotion que l’original »27, questa trasposizione « a un rôle de "révélateur"; elle ne crée rien qui n’ait déjà existé dans l’œuvre originale mais elle rend visible ce qui, jusque-là, demeurait caché », come dice Gilles A. Tiberghien, lettore di Pareyson28.

Tradurre dunque non sarebbe una perdita, ma un’occasione, un’apertura verso nuovi orizzonti. Presentando ai lettori del quotidiano Le Monde il Vocabulaire européen des philosophies a cura di Barbara Cassin, sottotitolato Dizionario degli intraducibili, Roger Pol-Droit sottolineava che « la parte intraducibile non è una pura e semplice perdita. Al contrario, la differenza di potenziale tra i vostri termini e quelli stranieri genera, per voi, nuove possibilità di pensiero »29. Ed è in questo senso che Barbara Cassin modifica completamente la lettura della Torre di Babele. Babele non sarebbe quindi una maledizione, ma una « chance ». E aggiunge: « La multiplicité n’est pas seulement entre les langues, mais en chaque langue. Une langue […] n’est pas un fait de nature, un objet, mais un effet pris dans l’histoire et la culture, et qui ne cesse de s’inventer – derechef, energeia plutôt que ergon »30.

Allora dobbiamo ribadire che le lingue sono vive, sempre prese ad inventarsi. Sono lontane dall’essere semplici strumenti di comunicazione, come troppo spesso ci si vuol far credere. Dire che sono portatrici di una visione del mondo, di un pensiero singolare che non autorizza la trasposizione meccanica da termine a termine o da sintassi a sintassi, è mera banalità. Eppure... dentro le università certi giudicano obsoleto lo studio delle letterature e delle civiltà straniere, in nome dell’efficacia e della comunicazione. Ma chiudiamo questa parentesi. Visione del mondo, dunque, che ha per corollari dei malintesi legati a ciò che conviene chiamare oggigiorno interculturalità. Cosa che induce concretamente che non basta tradurre un testo per far sì che sia compreso.

Qualcosa a volte ostacola la fruizione dell’opera, qualcosa che non ha niente a che vedere con la traduzione in senso stretto né con la qualità del lavoro del traduttore. Mi sono resa conto al momento della mia conferenza su Rèbora davanti ad un pubblico di appassionati di poesia che Rèbora era pressoché inascoltabile. In un primo tempo le reazioni si sono concentrate sul suo espressionismo, sulla disarmonia costitutiva dei suoi versi, sulla violenza inaudita delle sue poesie di guerra. Ma, poco a poco, ascoltando attentamente il non-detto, ho capito quale fosse il tasto dolente e ho fatto in modo che la conversazione andasse verso ciò che costituiva un ostacolo. Infatti, per il pubblico francese Rèbora era troppo religioso, troppo mistico. Al limite non si doveva parlare delle liriche seguenti alla conversione. Questa « alta figura di religioso e di poeta », secondo le parole di Eugenio Montale, suscitava quella sera l’incomprensione e il rifiuto. Rèbora era inascoltabile perché contravveniva a un’educazione tutta francese che vuole non si mescolino laico e sacro.

Allo stesso tempo altri nomi venivano alle labbra dei partecipanti, fra cui quello di san Giovanni della Croce. In questo caso, nessun rifiuto. E, a sentire il pubblico, Rèbora al limite non sarebbe stato che un sottoprodotto poco interessante della mistica dei secoli passati. Un mero imitatore di una retorica religiosa esaurita. Allora mi sono chiesta da dove potesse venire questa sordità nei riguardi di Rèbora e questa differenza di considerazione nei riguardi di san Giovanni della Croce. Mi formai allora la convinzione che il tempo, lo spessore dei secoli facessero la differenza. Ed ascoltando Franc Ducros, durante il convegno su Saba, ho compreso con più sottigliezza ciò che era successo. Franc Ducros ricordava che nel 1951 Éluard scriveva: « Villon, de loin, à travers les siècles qui nous séparent de lui, nous touche, mais Baudelaire nous concerne »31. Allo stesso modo, san Giovanni della Croce, da lontano, attraverso lo spessore dei secoli, ci tocca, ma Rèbora, pressoché nostro contemporaneo, ci riguarda, come ci riguarda in Francia questa vecchia questione così attuale della separazione tra Chiesa e Stato, tra religione e laicità per la quale le passioni sono lontane dall’essere sopite.

Volevo parlare di questo episodio che ha dato il titolo alla mia comunicazione, perché mostra bene che la traduzione non mette semplicemente in causa « l’ordre formel de la langue », per citare nuovamente Franc Ducros32. Siamo ancora con Rèbora in una relazione di prossimità ed ecco perché può essere percepito come un pericolo – o almeno un ostacolo – su un terreno sempre estremamente sensibile, fonte di malintesi e sordità.

Note de fin

1 Antonio PRETE, « Sulla traduzione », in D’Italie en France – Poètes et passeurs, sous la direction de Marie-José Tramuta, Peter Lang, 2005, p. 2.

2 Inès OSEKI-DEPRE, Théories et pratiques de la traduction littéraire, Paris, Armand Colin, 1999, p. 101. Il riferimento a Walter Benjamin è estratto dai primi paragrafi de « Il compito del traduttore ».

3 Giuseppe UNGARETTI, Vita d’un uomo, in Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay, Milano, Mondadori, « I Meridiani », p. 739.

4 A. PRETE, op. cit. p. 3.

5 Cfr. I. OSEKI- DEPRE, op. cit., p. 101.

6 Citato da A. PRETE, op. cit., p. 2.

7 Dante ALIGHIERI, Convivio, VII, Milano, Garzanti, « I grandi libri », 1987 p. 28.

8 Vedi Pier Vincenzo Mengaldo, in Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, « I Meridiani », 1987, p. 250-252.

9 Dante ALIGHIERI, Rime, a cura di Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, « ET Classici », 1995, pp. 167-171.

10 Cfr. Fernando BANDINI, « Elementi di espressionismo linguistico in Rebora », in AA.VV., Ricerche sulla lingua poetica contemporanea, Padova, Liviana Editrice, 1966 ; GIANFRANCO Contini, « Due poeti d’anteguerra : Dino Campana e Clemente Rebora », Letteratura, a.1, n.4, ottobre 1937 ; ora in Esercizi di lettura, Torino, Einaudi, 1974.

11 Clemente RÈBORA, « Voce di vedetta morta », Le poesie, Milano, Garzanti, « Gli elefanti », 1994 p. 204 (d’ora in avanti traduco io).

12 Vittorio BOARINI et Pietro BONFIGLIOLI, Avanguardia e Restaurazione, vol. 1, Bologna, Zanichelli, 1976, p. 130.

13 Cf. RÈBORA, op. cit., pp. 161-162.

14 Ibid., p. 269.

15 Ibid., p. 289.

16 Ibid.,p. 287 : « L’umiliante decompormi vivo ».

17 Ibid., p. 293.

18 Ibid., p. 93.

19 Henri MESCHONNIC, Poétique du traduire, Lagrasse, Verdier, 1999, p. 214.

20 Milan KUNDERA, L’art du roman, Paris, Gallimard, 1986, pp. 149-150.

21 Citato in I. OSEKI-DEPRE, op. cit., Paris, Armand Colin, p. 46.

22 H. MESCHONNIC, op. cit., p. 220.

23 Vedi A. PRETE, op. cit., pp. 3-4 : « Insomma il traduttore si muove soprattutto nell’universo della propria lingua : qui egli deve trovare tutte le risorse e le invenzioni e i modi per costruire un sistema di equivalenze con il testo originale. Per questo l’orizzonte vero che comprende la pratica del tradurre è l’imitazione. Proprio nel senso della mimesi. Per la quale è la propria lingua che è sempre messa in gioco, fino all’estremo. La traduzione come imitazione : costruzione di un universo linguistico parallelo, riverbero del primo, ma anche suo contrappunto dialogico, replica e insieme reinvenzione. Corrispondenza, ma nell’autonomia. Relazione profonda, ma nella infedeltà ».

24 Valerio MAGRELLI, in D’Italie en France – Poètes et passeurs, cit., p. 141-42.

25 Luigi PAREYSON, Conversazioni di estetica, Milano, Mursia, 1966, p 33.

26 V. MAGRELLI, in op. cit., p. 141.

27 I. OSEKI-DÉPRÉ, op. cit., p. 29.

28 Gilles A. TIBERGHIEN, in Pareyson, op. cit., p. 14.

29 Roger POL-DROIT, « Tous les mots de la philo », Le Monde, vendredi 8 octobre 2004.

30 Barbara CASSIN, « Présentation », Vocabulaire européen des philosophies. Dictionnaire des intraduisibles, Éditions du Seuil / Dictionnaire Le Robert, 2004, p. XX.

31 Citato da Franc DUCROS in Umberto Saba au carrefour des mondes, Actes du colloque de Montpellier, 15-17 novembre 2007, Hambourg, Dobu Verlag, 2009, p. 174.

32 Ibid., p. 174.

Citer cet article

Référence électronique

Myriam Carminati, « Un malinteso ? La poesia di Clemente Rèbora alla prova del francese », Line@editoriale [En ligne], 2 | 2010, mis en ligne le 02 février 2017, consulté le 27 avril 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/261

Auteur

Myriam Carminati

myriam.carminati@univ-montp3.fr