Per un ritratto dell’Arlecchino Tristano Martinelli

Tristano Martinelli tra le lettere e Lo schiavetto di Giovan Battista Andreini (1620)

  • Per un ritratto dell’Arlecchino Tristano Martinelli

Résumés

Nelle trattative per costituire la compagnia teatrale da mandare in Francia per la tournée del 1620-21, dopo l’invito di Luigi XIII, l’Arlecchino Tristano Martinelli fa da intermediario tra la Francia e le relative compagnie italiane (Mantova e Firenze). Tanto dalle sue lettere, scambiate con altri comici, che dalla commedia del collega Giovan Battista Andreini (Lo schiavetto del 1620) in cui Martinelli incarna la figura ambivalente di Nottola, si cerca di ricostruire il carattere scenico e civile del famoso attore dell’arte. Si tratta anche di valutare l’incidenza della composizione della compagnia della tournée sulla nuova stesura de Lo schiavetto del 1620.

When king Louis XIII of France asked for an italian theatre company to come in 1620-1621, the zanni from Mantova Tristano Martinelli, as kown as Arlecchino, became the main fulcrum of the very long discussions about which actors and which company should go to France with him. From Martinelli’s letters and from the comedy Lo schiavetto by Giovan Battista Andreini - the main character of which was actually Martinelli as Nottola - we can learn very much of Tristano Martinelli’s personality. It’s also possible to get some informations about the impact of this specific company on Andreini’s new version of the comedy.

Plan

Texte

Noto fin dal 1584 a Parigi1 come Arlecchino, Tristano Martinelli, dopo esser stato a capo della propria compagnia, fece anche parte, sempre nel ruolo di 2° zanni, della compagnia dei Desiosi di Diana Ponti2, degli Accesi e infine, a partire del 1604, dei Fedeli diretti da Giovan Battista Andreini. Al fine di abbozzare il ritratto sia scenico che relazionale di Tristano Martinelli, in seno alla compagnia dei Fedeli, tra il 1618 e il 1621, si prenderà in considerazione sia l’epistolario dei comici (Martinelli, Giovan Battista Andreini, Pier Maria Cecchini e Flaminio Scala) che il testo della commedia Lo schiavetto (ed.1620)3. Se confrontato ai ragguagli emergenti dagli scambi epistolari del tempo tra i potenti e gli attori, sembra infatti che il personaggio di Nottola, impersonato da Martinelli nella commedia, abbia ereditato non poco del profilo scenico dell’Arlecchino, ma anche dell’indole dell’attore. Questo è infatti molto percepibile nell’invenzione scenica di Giovan Battista Andreini. Inoltre, essendo il personaggio di Nottola nato in un contesto storico-teatrale in cui Martinelli svolge appieno la sua funzione di intendente dei comici sulla piazza di Mantova (dal 1599), non stupisce oltre modo la centralità del suo personaggio nella commedia. Non va nemmeno trascurata la sua fama presso le varie corti, non solo quella di Mantova dove gode della protezione del duca, ma anche quella dei Savoia (tappa inevitabile sulla strada d’oltralpe) e quella francese di Luigi XIII. Indagheremo insomma sull’ambiguità della posizione di Martinelli (al servizio dei principi, ma anche « principale » intermediario dei comici), e su come questa abbia potuto incidere sulla figura di Nottola ne Lo schiavetto del 1620. Ricordiamo infatti che l’opera è pubblicata proprio nel contesto delle trattative del 1618-1620 per la venuta dei comici Fedeli a Parigi, grazie alla fondamentale ed iniziale opera di mediazione di Martinelli (fino al gennaio 1619)4.

1.La tournée francese dei comici italiani (1618-1620)

1.1. Il contesto politico, storico e diplomatico

Quando Giovan Battista Andreini (1576?-1654) dà alle stampe a Venezia5 Lo schiavetto nel 1620, dirige la compagnia dei Fedeli, protetta dal duca di Mantova6 Ferdinando Gonzaga7. Per quanto riguarda il contesto storico, diplomatico e politico, ci troviamo nel cuore di un triangolo tra la Francia di Luigi XIII, la Firenze dei Medici8 e i Gonzaga di Mantova. Infatti, a Ferdinando Gonzaga, sposato ad una Medici (la suddetta Caterina) serve il sostegno francese per poter affrontare le tensioni in corso con la Torino di Carlo Emanuele I di Savoia. Questo triangolo coinvolge i comici italiani che spesso fanno da garanti o da intermediari nelle relazioni diplomatiche. In questo contesto, essi simboleggiano alla corte francese la pacificazione tra Luigi XIII e la regina madre Maria de’ Medici9 al suo ritorno dall’esilio di Blois. Rappresentano di conseguenza un vero e proprio « collante culturale », secondo la formula di Siro Ferrone, in quanto veicolano un messaggio di pace ad alto valore simbolico. Usati come strumenti di governo e di unificazione politica nel contesto francese di divisioni religiose, fanno da vero e proprio baluardo in grado di affrontare la veemenza protestante tendente in Francia a bandire il teatro. Mantengono anche dal 1570 un legame indiscusso ed ininterrotto tra la Francia e le corti d’Italia. In questo contesto, Martinelli appare come un « connettivo di alto valore politico »10.

Dalle loro lettere del periodo preso in considerazione, i comici italiani appaiono chiaramente quali monete di scambio nelle trattative tra la Firenze di Giovanni de’ Medici11 (protettore dei Confidenti di Flaminio Scala), il duca di Mantova Ferdinando Gonzaga (protettore dei Fedeli di Giovan Battista Andreini), e Luigi XIII12 figlio di una Medici (Maria de’ Medici). Luigi XIII è peraltro affezionatissimo ad Arlecchino da quando, diventato re nel maggio 1610, aveva solo 12 anni quando vide l’attore per la prima volta alla corte di Francia per la tournée 1613-161413. E già per questa tournée dei Fedeli, Tristano Martinelli faceva loro da guida.

1.2. La richiesta di Luigi XIII: realtà delle compagnie e svolgimento delle trattative (1618-20)

Nel contesto politico intricato in cui viene coinvolto, Luigi XIII inoltra una richiesta (probabilmente anche per motivi diplomatici) a Giovanni de’ Medici, poi al duca Ferdinando Gonzaga, con intermediazione iniziale di Tristano Martinelli, perché si costituisca una formazione di comici italiani a destinazione della corte francese. La richiesta è databile all’estate 161814.

Una missiva di Martinelli (a Ferdinando Gonzaga, inviata da Verona il 20 dicembre 161815) tiene informato il duca di Mantova di certe lettere giunte dalla Francia « dal nostro carissimo compadre re di gali »: una è indirizzata allo stesso duca di Mantova, un’altra a Giovanni de’ Medici ed altre ancora a Tristano Martinelli in persona.

Nell’ambito della costituzione della compagnia destinata a partire per la Francia, sorge una concorrenza accanita tra i vari “protagonisti” delle trattative, a cominciare dai comici e dalle relative compagnie. Giovanni de’ Medici propone di mandare i Confidenti al completo, insieme ad esponenti mantovani che, oltre a far parte della compagnia ufficiale del duca, già da tempo godono di un’ottima fama a Parigi (tra cui Tristano Martinelli e Giovan Battista Andreini). Le trattative si prolungano fino agli inizi del 1619, data in cui Martinelli costituisce ancora il fulcro dei negoziati; è infatti lui a scrivere a Giovanni de’ Medici il 22 gennaio 1619 per difendere la candidatura del 2° zanni Francesco Gabrielli al fine di « favorir la nostra compagnia d’uno dei suoi personaggi, qual è Scappino »16. Ma si tratta soprattutto di soddisfare il re che vuole assolutamente che l’attore, in arte Scapino e membro dei Confidenti, faccia parte della compagnia invitata. Donde le trattative che si svolgono tra il duca di Mantova protettore dei Fedeli e degli Accesi, e Giovanni de’ Medici (Confidenti). Sin dall’inizio nascono delle tensioni non solo perché i protagonisti rivendicano la legittima integrazione alla formazione parigina, ma anche perché risorge la rivalità storica (risalente al 1608-0917) tra Fedeli e Accesi, che coinvolge in particolar modo la figura di Pier Maria Cecchini, in arte Frittellino. Nella lettera dell’11 maggio 161918, quest’ultimo dichiara infatti di non potersi risolvere ad integrare la selezione attoriale se questa dovesse farsi sotto l’egida del Signor Lelio (alias Giovan Battista Andreini) il quale ai suoi occhi ha più bisogno « ch’io lo servi per peota che per marinaro ». Scrivendo da Brescia, e rivolgendosi al segretario del duca, Giovan Battista Andreini a sua volta fa l’elogio dell’Arlecchino-Martinelli il 21 mai 1619 (« tutta Brescia ne va pazza »19), un’adulazione che rivela in realtà il tentativo malcelato di sostenere la propria candidatura. Pier Maria Cecchini, contattato da Lelio nella primavera del 1619, fa di tutto invece per ottenere dal duca di Mantova l’incarico di costituire la formazione da mandare in Francia « con consenso » di Arlecchino, opponendosi chiaramente alla candidatura di Andreini come coordinatore del cast. Il 20 ottobre 161920 Cecchini supplica nuovamente il duca che gli venga affidata questa responsabilità, in una lettera intrisa di argomenti in gran parte menzogneri, come l’allusione ad un presunto trionfo a Firenze della propria compagnia, la quale in realtà viene fischiata dal pubblico. Cecchini-Frittellino, nome citato dal re Luigi XIII nella sua richiesta, viene convocato come capo degli Accesi, assieme alla moglie Barbara (in arte Flaminia) alla corte di Mantova a fine marzo 1620. La convocazione ufficiale è indirizzata a Cecchini il 1° aprile 1620 dal duca di Mantova che lo chiama « al suo servitio insieme con Arlecchino » per essere integrato alla formazione destinata alla corte di Francia21. Il 15 giugno 1620, Cecchini tiene informato da Milano Ferdinando Gonzaga de « l’unione della compagnia, insieme con la comune salute »22. Ma durante l’estate 1620, mentre sono in corso le ultime trattative per il viaggio e la partenza, il fragile equilibrio raggiunto viene incrinato da un evento che porterà a delle relazioni sempre più tese, fino alla rottura, tra Accesi (Pier Maria Cecchini) e Fedeli (Giovan Battista Andreini).

Proprio durante il mese di giugno 1620 ha inizio la relazione adulterina di Giovan Battista Andreini (la cui moglie Virginia Ramponi, in arte Florinda, recita in compagnia come prima amorosa) con la giovane attrice dei Fedeli, Virginia Rotari (in arte Lidia, e detta la Baldina23). Nella lettera del 5 agosto 1620, scritta da Milano a Ferdinando Gonzaga, Lelio (Giovan Battista Andreini) cerca di giustificarsi per la sua relazione con la Baldina, difendendo in tal modo la propria candidatura alla tournée francese. Egli accenna ad Ercole Marliani24, e lo accusa di averlo tradito denunciando la sua relazione con l’attrice, il che fu cagione di un’ « occasione di disgusto » esponendolo ad essere « castigato ». Nell’associare la propria difesa alla piena consapevolezza del dispiacere causato alla moglie Florinda25, Lelio mette in scena un abile mea culpa epistolare pur ammettendo « l’odio intestino » da lui stesso scatenato26. La lettera di Cecchini-Frittellino del 15 luglio 162027 (scritta sempre da Milano) è rilevante in quanto l’attore dà libero sfogo, assai meno abilmente di quanto non facesse prima di lui Andreini, a tutti quei rancori che alla fine lo porteranno ad essere eliminato dalla compagnia in partenza. Le sue frasi di diniego infatti, quali: «io non tratto che…» « io non curo che… » sono in realtà vere e proprie accuse a proposito del modo in cui il rivale storico dirige la compagnia28, improntate ad una malcelata volontà di acre denuncia (« ma non posso tacere che ») dell’adulterio di Lelio con Virginia Rotari-Baldina. Cecchini pretende inoltre dal duca che scacci la giovane attrice dal gruppo di comici in procinto di raggiungere la Francia (« levi Baldina di compagnia »), spiegando che non sarà mai possibile ristabilire la pace nella compagnia finché ci sarà « costei » a recitar nelle parti che di solito spettano a Flaminia (Orsola Posmoni… ossia sua moglie). Cecchini sottolinea peraltro con vigore la « vita infernale » che Giovan Battista fa vivere alla moglie, vale a dire l’altra Virginia (Ramponi). Ma il tono si fa sempre più acrimonioso, fino all’apice delle lettere del 2 luglio 1620 e del 26 agosto 162029, tutte spedite da Milano, città in cui si trovano i comici almeno dal mese di giugno. Il soggiorno milanese porta allora la compagnia all’inevitabile esclusione di Cecchini. Il 28 agosto 1620 (da Milano, a Ferdinando Gonzaga), Frittellino accenna a « l’incendio che cova la Baldina in compagnia »30, ribadendo in tal modo la richiesta fatta al duca di scacciare l’attrice dal gruppo di comici. Egli sottintende che Martinelli non sia al corrente della vicenda ma, in seguito a questi tentativi, rivelatisi vani ed improduttivi, Cecchini viene licenziato. Lo deplora nella lettera del 17 ottobre 1620, in cui si rammarica per una decisione che lo lascia « senza compagnia ». In un ultimo atto disperato, Cecchini afferma che la compagnia è costituita da persone nemiche « di Vostra Altezza ». In realtà, la sua insistenza a far licenziare la Baldina contribuisce più che altro a far sì che il duca decida che i compagni partano senza di lui31. La decisione di partire senza Frittellino era già stata presa dalla compagnia sin dagli ultimi giorni di settembre a causa del suo atteggiamento32. L’esclusione dell’attore33, poi sancita e resa ufficiale dal duca, viene nondimeno attuata soltanto verso il 17 ottobre 162034. Nella lettera del 21 ottobre 1620 da Milano, Frittellino firma « servitore rovinatissimo » o « sfortunatissimo servo » le ultime due lettere a Ferdinando Gonzaga, dichiarandosi « scacciato; biasimato; querelato »; afferma inoltre di essere stato usurpato di 20 scudi e denunciato come ribelle a Sua Altezza. Vano è stato il tentativo, il 10 ottobre, di Francesco Nerli, ambasciatore di Mantova, di testimoniare del fervore di Cecchini nel procacciarsi l’amicizia di tutti « e massime d’Arlecchino »35. Martinelli invece si ritiene « inganato da messer Frittellino », inganno su cui egli fa leva poi per giustificare il proprio fallimento nel costituire una formazione unita36. Questo tenderebbe a dimostrare quanto sin dall’inizio egli fosse ben poco favorevole a Frittellino che si rende colpevole di « machina[re] contra di me » (22 gennaio 1619)37 – oltre ad aver « una compagnia di strazoni che non vagliano un fico » – oppure « che mai fa altro che machinare » (28 sett. 1620)38. A prescindere dalle pessime disposizioni dei colleghi nei suoi confronti, Frittellino deve comunque fare i conti con lo scarsissimo favore del pubblico nei confronti dei suoi Accesi a Firenze, disamore anche all’origine della loro ulteriore scarsa fama. Nella lettera del 29 ottobre 1619, Flaminio Scala, altamente considerato da Giovanni de’ Medici, e peraltro amicissimo dell’Andreini, afferma, attraverso la testimonianza del messaggero mediceo, che Frittellino e la sua compagnia non valgono nulla. Scala scrive infatti che il messaggero incaricato di recapitare una lettera dalla Francia – quella in cui sono citati per la loro fama Arlecchino e Frittellino – è stato molto deluso da una prestazione degli Accesi a Firenze39, impressione conforme al parere di Martinelli su Frittellino a capo di una compagnia « di strazioni che non vagliano un fico »40. I tentativi di Cecchini per difendere sia il proprio posto che quello della moglie Orsola, pur facendo presente più volte al duca di Mantova e a Giovanni de’ Medici l’atmosfera deleteria in compagnia, non ostacolano affatto la partenza. Fatta una sosta a Venezia nel marzo del 1620, la compagnia fa strada verso Parigi, senza Frittellino, dopo la tappa milanese del 20 ottobre 162041. La data dell’arrivo a Parigi rimane incerta, ma i primi spettacoli sono attestati il 12 gennaio 162142. Fra trattative, tensioni e partenza per la Francia, la figura di Martinelli, la cui mediazione è di non poco peso, risulta dunque assai determinante.

1.3. La funzione di Tristano Martinelli, sopraintendente dei comici (1613-1621)

Il 29 aprile 1599, Tristano Martinelli viene nominato sopraintendente dei comici presso il ducato di Mantova, come testimoniato dal decreto del 1599, rinnovato poi l’8 aprile 1613, che definisce nei confronti di Arlecchino i doveri di:

comici mercenari, bagattileri, saltatori che vanno sulla corda, che mostrano mostri et edifficii et simili cose, et ciarlattani che mettono banchi per le piazze per vendere ogli, unguenti, pomata, lituari contra veleni, balle, moscardini, acque muschiate, zibetto, muschio, istorie et altre carte stampate, ongia della gran bestia, et che mettano cartelli per medicare, et simile sorte di gente43.

Tuttavia, nelle sue lettere del biennio 1613-14, Martinelli si lamenta di una riduzione delle somme ricavate e della perdita dei propri diritti e privilegi sui ciarlatani. Si tratta in realtà della conseguenza diretta della politica interna del ducato, derivante da un’economia di guerra che implica un controllo accresciuto dei cerretani, saltimbanchi, e comici itineranti che arrivano in città. Per questa ragione, Arlecchino arriverà persino a sollecitare il sostegno della regina reggente Maria de’ Medici44.

La funzione e la situazione di Martinelli nel 1620 hanno incidenze sulle trattative relative alla richiesta di Luigi XIII. Riluttante ad abbandonare il predominio consentito dalla sua funzione, Martinelli esprime la sua prepotenza, pienamente percepibile nelle lettere. Scrivendo da Verona a Ferdinando Gonzaga il 20 dicembre 1618, Martinelli informa il duca di Mantova delle quattro lettere giunte dalla Francia « dal nostro carissimo compadre re di gali », indirizzate a quattro principi, due dei quali, metaforicamente, rappresentano lo stesso Martinelli (« la nostra persona ») nonché il suo doppio scenico Arlecchino, in quanto principe dei comici: « noi tutti quatro prencipi dobiamo con le nostre forze dargli soccorso e aiuto » – cioè al re di Francia – « in un suo bisogno, et mandargli una compagnia eletta da noi comici soprafini per socorerlo in certe sue alegrezze »45. Ovviamente gli altri due principi a cui si accenna sono il duca di Mantova e Luigi XIII. In altre parole, Arlecchino attribuisce a sé stesso, anche se ironicamente, il valore quantitativo di due principi.

Nella stessa lettera, Martinelli ribadisce le incidenze dei cambiamenti voluti dal duca nella legge. Fa richiamo alla protezione di Ferdinando Gonzaga, difendendo con accanimento i propri interessi, non senza ricordargli il privilegio che gli era stato « dato, redato et stradato » dal padre di « Sua Altezza/vostra altezza » (ovvero Vincenzo I Gonzaga) per poi deplorare: « voi avete ritrovato la invencioncina de sigilare le valice ali zaratani et che facieno le loro secreti nelle speciarie (…) oltra poi che bisogna che onzeno la mano al protomedeco, a li notari, cosa che non usavano prima » il che spinge tutti a lasciare Mantova « et così la mia botega patisse »46.

Martinelli appare nelle sue lettere quale abile inventore di trame degne di un intreccio di commedia47. In linea di massima, le lettere ai principi fungono da talismani con cui i comici sperano di esser protetti dagli imprevvisti48; a tal punto che il furto o l’intercettazione di lettere sono atti frequenti tra comici pur di consolidare la loro posizione e garantirsi le protezioni principesche. Ad esempio, in una lettera ad Ercole Marliani (segretario del duca di Mantova), dell’11 maggio 1619, Pier Maria Cecchini confessa di aver aperto una lettera a lui non destinata. Egli legittima la sua apparente scorrettezza stimando che la lettera, scritta da Lelio (Giovan Battista Andreini) « a persone mie contrarie », lo riguardasse direttamente49. Peraltro, le informazioni relative alla posizione da adottare nei confronti di Cecchini non arrivano dal duca direttamente a Francesco Nerli50, bensì transitano sempre tramite le lettere di Martinelli51. A dispetto dei repentini tentativi di Cecchini per farsi rendere ragione, la preferenza data alla fine a Giovan Battista Andreini nel conflitto verrà tanto più consolidata, in quanto Martinelli appare sin dall’inizio ben poco favorevole a Frittellino.

Le lettere di Flaminio Scala (in arte Flavio)52 sono anche valide testimonianze dell’atteggiamento prepotente di Martinelli. Scrivendo il 10 gennaio 1619 a Giovanni de’ Medici, Scala sottolinea che, sebbene siano tutti arrabbiatissimi con Arlecchino, non vi è nessuna ribellione53; egli esprime nondimeno il sospetto che Arlecchino cerchi di far esplodere « questa » compagnia allo scopo di crearne una per conto suo, da portare poi in Francia54. Scala insiste qualche giorno dopo sulla volontà di Arlecchino di fare soltanto di testa propria, nel momento in cui ricevono una lettera con « sigillo volante » di Sua Maestà55 (Luigi XIII). Mentre i comici sono già in viaggio ad ottobre, e di conseguenza di passaggio a Torino a novembre, la lettera di Martinelli del 5 novembre 1620 a Ferdinando Gonzaga, fornisce informazioni sul suo ruolo di intermediario diplomatico nel cuore delle tensioni affatto attenuate tra i Savoia (« il signor cosino » come cugino di Ferdinando) e i Gonzaga di Mantova56. Ma non solo: egli vi manifesta la sua sfrontata cupidigia come attestato dall’elenco che fa dei regali pletorici ricevuti, o che a volte lui stesso si permette di sollecitare, per l’occasione57, presso i maggiori esponenti di questa corte. La stessa lettera rende conto anche della rappresentazione di ben dieci commedie a Torino, per le quali egli avrebbe ricavato 250 ducati, congratulandosi di esser « regalato [...] più di tutti ». Si esprime anche da spettatore meravigliato del fasto festivo alla corte di Savoia (tra canti, fontane e delfini...)58. Eppure, sin dal 21 aprile 1621, in una lettera scritta (da Fontainebleau)59 a Luigi XIII, dichiara di non voler più fare commedie, scrivendo poi l’8 maggio 1621 di voler rientrare a Mantova. Vi si oppone subito il re che vuole assolutamente trattenerlo a corte prima della partenza per la guerra60. Nella stessa lettera, Martinelli deplora le tensioni interne alla compagnia, che coinvolgono « la signora Florinda ». Ricordiamo che Arlecchino usava proprio lo stesso argomento nel 1620 accusando Cecchini di « pettegolezzi » sul trio adulterino Lelio-Florinda-Virginia Rotari61. Queste lettere illustrano il suo opportunismo, condizionato certo dalla sua funzione nonché dalla sua sottomissione ai principi. Arlecchino finisce infatti per arrendersi alla volontà di Luigi XIII, dichiarando di consentire a rimanere in Francia fino a San Giovanni – ovvero fino al solstizio d’estate – evidentemente più per soddisfare il re che non per fedeltà alla compagnia di cui fa parte. Nella stessa lettera, egli non dissimula la sua fierezza per la collana (« di ducati 200 ») regalatagli alla sua partenza dalla regina Maria de’ Medici. Oltre al ricorrente opportunismo, i capricci da istrione vanaglorioso fanno anche parte della personalità di Arlecchino, in particolare nell’affermare con sdegno di non voler più recitare la commedia, « se non per gusto di Vostra Altezza in camera »62. Capriccio, opportunismo, volubilità, prepotenza, cupidigia, ed estremo narcisismo appaiono quindi come caratteristiche essenziali del personaggio.

Simili tratti contribuiscono ad intensificare l’ambiguità con la quale Martinelli si intromette nelle trattative relative alla tournée francese; pur difendendo da una parte Giovan Battista Andreini (dal giugno 1620 al settembre-ottobre 1620), dall’altra lo ritiene responsabile delle tensioni che lo porteranno alla rottura con i comici a Parigi, per concludersi con la sua partenza, all’insegna del solito opportunismo. È comunque giocoforza rilevare che le lettere ai comici servono a procacciarsi ed a mantenere il favore dei principi, il che ovviamente tenderebbe a spiegare le suddette contraddizioni. Giovan Battista Andreini dà così libero sfogo al proprio rancore in una lettera del 2 luglio 162163, nei confronti di Tristano Martinelli mentre questi ha abbandonato poco prima i compagni64. Indirizzata al duca di Mantova, questa lettera è firmata anche da altri comici della compagnia, che denunciano l’atteggiamento di Martinelli da sette anni: la compagnia, « con l’andare in Francia, fu ancora da quest’huomo tanto interessato tiraneggiata », dicono. Lelio vi narra come, mentre sono di passaggio a Torino65, Martinelli bussa a tutte le porte, « mangia ad ogni tavola » e come da « pratico saccheggiatore rapisce se non si dona »66. Andreini vi descrive anche come, prima di lasciare Parigi, Arlecchino s’è fatto regalare la solita collana d’oro, tanto dalla regina madre67 quanto dalla regina consorte, Anna d’Austria68. Si vede che Martinelli usava farsi ricompensare in quel modo, come prova la xilografia che lo raffigura proprio nell’atto di chiedere « la pesanta » nelle sue Compositions de rhétoriques (Parigi, 1601)69. La scena è riprodotta parodisticamente ne Lo Schiavetto, dal momento che spetta a Nottola-Arlecchino regalare una collana ad un membro della sua corte di vassalli. Andreini gli rimprovera in particolare di agire da solo, e di favorire l’impoverimento degli altri nell’accumulare le ricchezze soltanto per sé, non senza ricordare quanto Martinelli sia vissuto a scapito dei « ceretani ». Lelio conclude la lettera esortando Ferdinando Gonzaga a « castigare il temerario ». Si tratta per Andreini di consolidare la propria autorevolezza in compagnia presso i colleghi comici, ma il ritratto che fa di Arlecchino è fedelissimo alla figura di Nottola ne Lo schiavetto: un ciarlatano dei principi che da loro ottiene tutto quel che vuole, prevalentemente soldi e regali. Nella versione parodistica appare come un prodigo donatore di regali per una truppa di « ciarlatani » dai nomi stravaganti. Il contesto storico e quello riguardante la compagnia incidono considerevolmente sulla seconda stesura de Lo schiavetto70 nel marzo 1620 a Venezia71, subito prima della partenza per la Francia. Anche se già presente nell’edizione del 1612, il personaggio di Nottola72, interpretato da un Tristano Martinelli sempre più raffigurato da prepotente re di commedia73, subisce delle modifiche significative74.

Ha Rey e reina donnez me la pesanta

Ha Rey e reina donnez me la pesanta

Si vous voli que iour e nuict ie chanta

[Tristano MARTINELLI, Compositions de rhétorique de M. Don Arlequin…, Lyon, 1600-1601, p.25]

2. L’immagine di Tristano Martinelli, principe dei comici, ne Lo schiavetto del 1620

2.1. La figura di Nottola-Martinelli ne Lo schiavetto ed.1620

Secondo l’analisi di Siro Ferrone, la commedia Lo schiavetto sarebbe molto utile al fine di fornire un ritratto dell’attore Martinelli, rappresentato come « saccheggiatore » di principi, e firmata da un Andreini ancor più « saccheggiatore » ancora nel suo tentativo di rubare alla vita di compagnia per alimentare le proprie commedie:

Andreini ruba alla vita per dare al teatro, e naturalmente ruba anche, e soprattutto, da quella speciale e intensa vita che è il teatro per dare alla letteratura. Ruba dunque ai suoi attori i segreti del mestiere, le invenzioni sceniche, i tratti caratteriali da questi costruiti per i loro personaggi. I migliori scrittori sono quelli che rubano meglio, i migliori furti sono – per un autore di teatro – quelli commessi ai danni dei migliori attori. E Arlecchino, il furioso saccheggiatore di cortigiani e mecenati, fu il principale derubato. La refurtiva si trova nascosta nelle pieghe delle commedie di Andreini, abilmente riciclata e camuffata, ma non tanto da essere irriconoscibile. Fungendo da ricettatore, e ringraziando Andreini, lo storico si può servire di questi corpi del reato per risalire ad alcune componenti costitutive del patrimonio scenico arlecchinesco75.

Il personaggio di Nottola fa infatti parte dei più bei « furti » compiuti da Giovan Battista Andreini, tanto da farci considerare la commedia, nella sua edizione del 1620, come una testimonianza storica della personalità di Tristano Martinelli. Pur essendo un comico al servizio del principe (Luigi XIII nello specifico) nel periodo relativo, egli incarna nell’intreccio la figura di un principe di una corte di comici e ciarlatani. Recitando, sembra imitare quei re e duchi di cui spesso è portavoce e intermediario, nella veste di un principe tirannico a capo di una « piazza » di ciarlatani. Nottola, nella sua veste più autoritaria e prepotente, ma anche più rispettata e ambigua, sembra abbia ereditato, nelle modifiche dell’edizione 1620 rispetto a quella del 1612, le caratteristiche relative agli eccessi cui fa riferimento l’Andreini nella suddetta lettera indirizzata al duca di Mantova.

Sempre a metà strada tra il principe e il despota, in quanto rappresentazione allegorica di un capocomico direttore di una cerchia di comici, il Nottola del 1620 dà di sé – tramite Andreini, autore della commedia – una definizione emblematica, assente dalla versione del 1612: « sono rosa fra le spine, perla fra le conche, sole fra le nubi, e gemma legata in vilissimo piombo »76. Si tratta ad esempio di un Nottola principe autoritario che, nel farsi sventolare dai suoi paggi, chiede loro perentoriamente che vadano ad impadronirsi della Fenice così da fargli un immenso ventaglio con le penne strappatele. Ma subito dopo, non si trattiene dall’andare di corpo pur pretendendo che gli venga immediatamente portato del gelsomino per pulirsi, alternando cioè sempre il meglio e il peggio di sé, figura allegorica e ironica di un teatro paradossale anch’esso pronto a servire ogni capricciosa esigenza del principe. Nell’edizione del 1620 – specie nella scena di adulazione (I,7), mentre lancia ordini dalla sedia trono in cui sta seduto – Nottola appare assai più tirannico e caricaturale rispetto al personaggio del 1612. Inoltre, va sottolineato che nel 1620 Nottola si fa chiamare il « principe dal Camaleonte Dorato », titolo che non esisteva affatto nell’edizione del 1612. Questo camaleonte, nel presentarsi come figura proteiforme che viaggia ai quattro venti, e sventolato com’è dai paggi con il ventaglio enorme fabbricato con le ali cariche di rubini della Fenice, sembra l’allegoria dell’attore comico per eccellenza o comunque quel capriccioso principe dei comici dal nome ridicolo:

Nottola: Maggiordomo, queste sono ventaiole da pari nostri? ventaiole per Nottola principe dal Camaleonte dorato? impresa da i nostri antichi inventata, essendo tutti noi stati dell’elemento dell’Aria non solo vaghi; ma di più sei hore del giorno volendo star con la bocca aperta da quella parte dove più tira la tramontana? […] Sù, che montino domattina, per tempo, quattro sù le poste, e s’inviino alle quattro parti del mondo, e tutte le ricerchino fin tanto, che si ritrovi la Fenice; quel bell’Uccellino, che tanto è mentovato; a cotesto si taglino l’ale, e di quelle fatto ventaiole mi si vada ventagliando, & i manichini d’esse sieno, o di corallo, o di turchina, o d’oro tempestato di rubini. [Lo schiavetto, 1620, I,7].

Nottola dunque era l’Arlecchino, il secondo zanni Tristano Martinelli77 associatosi alla compagnia dei Fedeli. Il suo personaggio assume allora un duplice valore, sia come Nottola che come intendente agente intermediario dei Fedeli con la corte di Francia. Inoltre « questo bamboccio vestito da festa » come lo chiama Rondone, che lo vede zoppicante e poi seduto alla scena 7 dell’atto III78, corrisponde esattamente all’omaggio implicito ma chiaro fatto da Andreini all’Arlecchino-Martinelli, « allegrezza dei teatri » e « cugino di tutti i principi » nel Lelio Bandito, del 1620:

Che d’Arlecchino. Arlecchino è stato un fumoso comico fra ridicoli; e chiamossi cugino di tutti I principi, e di tutti I re del mondo, è stato la civetta de gli huomini, l’allegrezza de’ theatri, nè chi l’arrivi si trovo, si trova, o troverassi giamai: ma de’ pari miei cento mila ce ne sono nella guardia de gli sbirri, per condur voi legato alla galera79.

Esattamente come in Lelio bandito, ne Lo schiavetto il personaggio di Nottola si costruisce alle spalle dell’attore Tristano Martinelli. Spesso improntato all’oscenità e alla scatologia80, il suo gioco scenico costruisce l’allegoria parodica del principe dei comici e ciarlatani81, da capocomico in mezzo ad altri comici, proprio come Martinelli sulla piazza di Mantova e del Monferrato, perfettamente conforme alla sua funzione: « non vi curate di vendere sulle piazze, ch’io son la piazza »82. Data l’atmosfera in compagnia ricostruibile attraverso le lettere dei comici, non stupisce che Lo schiavetto del 1620 abbia accentuato e caricato la figura di Nottola grazie all’interpretazione a stampa di Andreini, ex actore, assurgendolo a « principe del Camaleonte Dorato ». Martinelli vi si rivela quanto mai opportunista, venale, prepotente ed individualista, come nella realtà.

Nell’edizione del 1620, si tratta anche di un Nottola-Martinelli attempato. È anche vero che Martinelli ha allora 61 anni pur non avendo perso niente del suo brio; e come principe incontinente, impotente e invecchiato, si fa la pipì addosso per il troppo ridere, chiedendo poi fazzoletti da mettersi nelle braghe (Atto IV, scena 7, assente dall’edizione del 1612); dal trono dove siede, si comporta non solo da principe regnante sui « ciarlatani » da lui diretti, ma anche da spettatore ridente dal vedere Rondone nell’atto di mimare il tipico ciarlatano di piazza nelle scene 7-8 dell’atto IV. Nella scena 7, Nottola attribuisce ad Orazio il titolo burlesco di «gentilhuomo da braghetto, cioè quello che dopo haver pisciato m’allaccierà la braghetta de’ calzoni da cavalcare ». Gli regala anche l’anello con il quale afferma di aver sposato sette duchesse. Si mette allora a dargli del tu, chiedendogli poi di perdonare la familiarità, con la scusa di avere rapporti di vicinanza con i re: « se v’ho dato del tù perdonami, perché quando vò in collera così parlo co’l re di Francia, e co’l re di Spagna »; dopodiché ordina a tutti di mettersi a sedere affinché possa cominciare lo spettacolo (dei ciarlatani) sotto la sua egida. Un teatro nel teatro che, come al solito, consente ad Andreini di svolgere un discorso di stampo chiaramente metateatrale.

Nel corso dell’atto V, Nottola diventa, da capo dei ciarlatani, capo dei comici e delle commedie, vale a dire quel che era (od era stato) davvero nella realtà. Orazio gli propone allora un « suggetto » per fare una commedia che piaccia al principe, sottolineando che è sempre bene che un principe ne faccia fare83. Nottola ordina allora che vengano stanziati i soldi dedicati all’allestimento della scena. Alla scena 9, Rampino, aiutante maggiordomo di Nottola, pretende che sia preparata una bella commedia84, dopodiché gli viene incaricato di premiare Orazio con una collana. Come già detto in precedenza, la pesante collana si riferisce alla solita retribuzione riscossa da Martinelli, oltre ad essere una ripetizione della scena (I,7) in cui Nottola appende una pesante catena al collo di Alberto che in cambio gli destina il proprio palazzo con dentro la figlia promessa sposa.

2.2. Teatro nel teatro: metateatralità dei ciarlatani ne Lo schiavetto ed.1620

Torniamo tuttavia alla scena dei ciarlatani (IV, 8). Classica scena di teatro nel teatro, essa si apre con i personaggi nell’atto di sistemare delle sedie come fossero quelle di una platea ed in procinto di assistere ad una commedia all’interno della commedia quadro85. Questa scena appare come il centro nevralgico dell’opera: siamo a metà dell’atto IV, e il discorso di Schiavetto ne rappresenta l’apice. Ricordiamo che sin dall’inizio della commedia si tratta per Schiavetto di un ruolo travestito, quello di Virginia Ramponi, in arte Florinda e moglie dell’Andreini che nell’intreccio si rivela alla fine come sua sorella. Il personaggio si rivolge allora sia all’ « eccellentissimo principe » (Nottola) che all’intera compagnia, ovvero gli « illustrissimi Signori che noi siamo, o ceretani, o ciarlatani »86. Colpisce particolarmente la centralità del personaggio di Schiavetto, se si pensa al contesto di adulterio in corso tra l’Andreini e la Baldina (la giovane seconda donna), come se Lelio volesse confermare per la moglie il ruolo di protagonista. È anche vero che il ruolo le spetta comunque per gerarchia di compagnia, e sin dalla versione del 1612 anche se lo sta perdendo nella vita di retroscena. Suona come metaforico ed altamente metateatrale l’annuncio fatto da Schiavetto, mediante la scrittura andreiniana, e rivolto a Nottola, di « una composizioncella »87, la quale gli salterà al naso per il suo profumo: « una ricettina per giovare a tutto il genere humano » aggiunge Rondone88, in questa scena « pozione magica » in cui tutti assaggiano gli unguenti proposti e che si conclude con l’agonia di Orazio, avvelenato da Schiavetto che confessa subito la propria responsabilità.

Rondone manda a prendere una valigetta, promettendo le merci migliori che ci siano, e Virginia Ramponi-Schiavetto lo assiste, pur declamando una stravagante etimologia per la parola « ciarlatano » (« ciarlatano/cerretano »), una definizione peraltro assente dall’edizione 1612:

Eccellentissimo principe, e vo altri Illustrissimi Signori che noi siamo, o Ceretani, o Ciarlatani, io n’l sò; poiché gli uni furono detti Ceretani, perché I primi di cotesta professione saglienti in banco discesero da Cereto Castello in Toscana89; e gli altri portarono tal nome in virtù d’uno, che haveva nome Tano, il quale essendo un gran cicalone, trovandosi in Firenze; que’ sottili, e nobili intelletti, cominciarono a dire incontrandosi. Oh e dove si va? Ciarla Tano? E così da questo Ciarla Tano, andavano a udire le sue ciarle, e Ciarlatani poi si chiamaro, tutti gli altri di simil arte; so ben ch’io sono un personaggio che senza ciarle non posso vendervi quello c’hora vender i’ voglio; e che cos’è? Eccolo Signori; quest’è un mazzo di sottilissime carticelle piegate, entrovi un piccolissimo confettino tutto muschio, tutto zibetto, e tutt’ambra.

L’etimologia esatta della parola « ciarlatano » è tuttavia incerta, e per essa vanno prese in considerazione più ipotesi, tra cui il risultato di un sovrapporsi di « cerretano » con « ciarla ». Citiamo il dizionario etimologico italiano:

Cerretano: Il Rönsch dal lat. CERRITUS insensato (probabilm. Sincopato di CEREBRITUS da CEREBREUM cervello) che lascia escogitare una forma CERRITANEUS. Altri da CERRETO paese dell'Umbria, da cui si narra solesse un antico venire siffatta gente, la quale con varia finzione andava facendo danaro, ovvero da CERE, donde l'antico Ceraldo; che equivaleva a Cerretano (Crusca). Ma nonostante tutto questo, sembra non doversi trascurare il lat. GERRAE ciarle, che staccasi dala radice di GARRIRE, (v.q.voce) che dette GERRONES ciarloni e puo aver dato GERRETANUS – Colui che per le piazze spaccia unguenti e altre medicine, cava i denti e anche fa giuochi di mano; che oggi più comunemente dicesi Ciarlatano90.

A guisa di un venditore di unguenti, Schiavetto apre una scatola annunciando una « composizioncella » capace di un profumo e di un effetto tale sulla gente, che tutti la dovrebbero pagare in funzione del suo valore. Rondone prosegue con una lunga battuta in cui le verdure esibite, estratte una dopo l’altra da una scatola, simboleggiano ciascuna una città in cui egli, da « Virtuoso gradito » afferma di avere dei « privileggi ». Risulta probabilissimo che la metafora del « ciarlatano » stia piuttosto a significare la figura del comico, così come confermato dalla frase conclusiva di Rondone, a difesa del comico rispetto ai « saltimbanchi »: « ogni Ceretano non parlando latino hoggi pare che la cosa non habbia credito ». A conclusione della prestazione, Nottola lo vuole retribuire anche lui con una collana d’oro.

L’intera scena è poi quella del ciarlatano nell’atto di vantare i meriti della propria merce in piazza: da tipico e parodico cavadenti, Rondone esalta i meriti della cipolla per curare i denti, la quale deve tuttavia essere condita con una passata di peperoncino così da provocare un dolore alla pancia tale da far dimenticare il mal di denti. Segue l’elogio di una cura efficace del mal francese contratto con delle prostitute spagnole. Rondone si mette allora a dischiudere una serie di pacchettini di carta, intrattenendo l’effetto di sorpresa, ed esortando tutti a venire a servirsi subito, prima che il Signor Conte (ossia Martinelli) venga a sottrarre tutto per sé. Dopodiché Rondone esibisce cinque serpenti, definiti con loro nomi latini tanto sapienti quanto stravaganti (l’Anfesibena, il Chelidro, la Farea..), per poi annunciare che li inghiottirà mentre sciorina neologismi verbali fabbricati a partire dal nome stesso dei rettili, a conclusione del suo lungo discorso: « Ammazziamo adunque queste bestie, ecco ch’io m’incerasto, m’infesibeno, m’iniaculo, m’inchelidro, e m’infareo», fingendo di stupirsi poi, da bravo ciarlatano, del non esserne stato avvelenato. Egli passa poi alla trasformazione dell’acqua in vino, indicando che se fosse un cosiddetto « ciarlatano » l’acqua non sarebbe davvero del vino nel momento di farla assaggiare. La ricetta successiva di Rondone è indirizzata alle donne: « Io voglio donarvi una palla muschiata composta di testicoli di Castore, e impastata del sudore che si leva fra le gambe di que’gattoni, che fanno il zibetto ». E qui non stupisce che si tratti degli stessi ingredienti usati dai ciarlatani e a cui fa riferimento il decreto del 1599 o del 161391. La conclusione alla prestazione di Rondone assomiglia allo scherzetto di una falsa magia, a proposito di una palla di bambagia la quale, se ingoiata, sarebbe in grado di trasformarti in « indovino ». Allo stupirsi di Nottola, Rondone gli fa assaggiare la suddetta pallina (in realtà vero uovo nel trucco teatrale), e ribatte con una battuta burlevole e spiritosa: infatti – dice – tu, nell’ingoiare questa candida pallottola, non hai forse « indovinato » che fosse « uovo » anziché bambagia? Significa dunque che sei diventato indovino…

In altre parole, facendo del « ciarlatano » uno che palesa e chiarisce la propria finzione, Rondone finge la finzione, finge il finto, il che non farebbe un vero « ciarlatano »: il suo personaggio è più un comico che un « ciarlatano » vero e proprio. Malgrado ciò, questa scena fa chiaramente allusione alle restrizioni e ai divieti imposti ai cosiddetti « cerretani » che devono, a partire dal 1618 e per decisione ducale, rivolgersi al « protomedico » e sigillare con cura le loro valigette piene di unguenti. Nella commedia, Rondone manda a prendere la valigia della robaccia ciarlatanesca, per poi aprirla senza alcun controllo di sorta: tutto vien messo in scena come se Andreini imitasse la magnanimità con cui Martinelli rivendica di trattare i ciarlatani di piazza, pur prelevando loro le tasse, e a differenza di un tale Riva, suo concorrente sulla piazza di Mantova. In effetti, Martinelli supplica Alessandro Striggi (segretario ducale nel 1613) di difenderlo contro Riva « che non vole che i zaratani metano i loro banchi dove gli àno sempre misi », in nome del suo « privilegio [che] dichiara che nisuno ardisca di molestare detto zarlatani, et che possano mettere i loro banchi dove più gli pare e piace aloro senza pagare cosa alcuna per la piaza ». Martinelli insorge contro il fatto che Riva abbia avuto il privilegio di impedire ai « zarlatani » di saltare in banco dovunque, insistendo molto in due lettere per richiedere che venga rispettato il privilegio di cui egli stima di essere unico depositario92. La richiesta viene ripetuta il 3 ottobre 1614, a Ferdinando Gonzaga; l’attore si dichiara offeso che un’altra « archobusata alli zaratani » sia stata lanciata nel proibire la vendita delle loro medicine, cosa che ovviamente mette a rischio il suo « privilegio ». Egli non manca di ricordare che, non essendo i comici stipendiati dal duca, loro hanno bisogno di tale privilegio « sopra alli vertuosi et manegoldi signori zaratani per trarne qualche utile ». Questi divieti sono peraltro anche attribuibili alla guerra tra i Savoia e i Gonzaga, che spinge il ducato a delle restrizioni sempre maggiori.

Comico al servizio dei principi dal 1599 al 1620, nella figura di Nottola ne Lo schiavetto, Martinelli – colui che abbraccia le mani dei duchi come se gli fossero fratelli93, colui che si fa regalare quantità di collane d’oro, che si vanta nel suo epistolario di essere retribuito a scudi d’oro, che preleva il dazio sui saltimbanchi da Mantova al Monferrato – da specchio capovolto di sé, si tramuta ne Lo schiavetto del 1620 in vero e proprio principe dei ciarlatani. Li applaude, ride delle loro azioni scaramantiche mediante Rondone, per poi ricompensarli con collane, pur pretendendo alla fine che gli bacino i piedi, le mani e perfino la bocca (IV,8).

3. Lo schiavetto, ritratto autobiografico di una compagnia nel 1620

Ma Andreini riesce a fare non solo il vivace ritratto dell’intendente dei comici, ma anche quello di una compagnia in un determinato momento. Fermatasi a Milano durante l’estate 1620 e di nuovo nell’ottobre 1620, la compagnia effettua allora la solita sosta alla corte sabauda, che è anche l’ultima tappa italiana prima dell’ arrivo in Francia. A novembre 1620, la compagnia è a Torino, come testimonia la lettera di Martinelli a Ferdinando Gonzaga, il 5 novembre 1620. Essendo state molte le commedie recitate dalla compagnia per questa occasione (dieci, pagate « 250 ducatoni »), è anche legittimo supporre che tra queste ci fosse, tutto o in parte, un canovaccio tratto da Lo schiavetto di Giovan Battista Andreini, nella versione appena pubblicata a Milano. Il successo già notevole della commedia in più città italiane nel 1612 dovette peraltro costituire una buona ed evidente ragione per allestirla di nuovo alla corte sabauda. La lettera di Martinelli rispecchia il suo comportamento da re dei comici, simile a quello di Nottola. Proprio in questa lettera descrive i ricchi vestiti regalati dalla corte sabauda a certi comici (a Lelio, a Lidia e a Florinda, ovvero al trio adulterino) pur sottolineando di essere stato « io più di tutti » ricompensato, con tanto di « colana di doble cento », di « bel vestito scarlato tutto caricato di pasamano d’oro et un alro marchese un altro vestitto m’a promeso », senza parlare del figlio nascituro che Sua Altezza gli promette di tenere a battesimo94.

Anche se non è possibile affermare che la commedia sia l’esatta riproduzione della compagnia in partenza nell’autunno 1620, dato che la prima stesura e la distribuzione dei ruoli risalgono al 1612, sembra comunque legittimo interpretare alcune varianti tra le due versioni come tracce dell’atmosfera del tempo. A cominciare dal personaggio di Nottola che, come abbiamo appena dimostrato, è fortemente improntato all’atteggiamento di Martinelli sin dalla primavera 1620. Anche se l’impresa sarebbe troppo lunga ed azzardosa in questa sede perché risulterebbe necessariamente incompleta, possiamo anche ipotizzare che molte modifiche di alcuni personaggi della seconda versione della commedia siano state influenzate dalla presenza di alcuni comici in particolare. Partendo dunque dal presupposto, solo ipotetico ma non impossibile, che Andreini abbia avuto in mente di far rappresentare Lo schiavetto a Torino, ricordiamo che il desiderio di Luigi XIII di riavere i comici italiani a corte è condizionato soprattutto dalla sua esigenza di vedervi Scappino (Francesco Gabrielli), il quale impronterebbe considerevolmente la figura di Rampino (1° zanni e serviente di Nottola ne Lo schiavetto). Il personaggio di Rampino fa infatti da doppio zannesco di Nottola, proprio all’insegna di un classico duetto scenico tra Arlecchino e il famoso inventore di Scappino. Relativamente alla distribuzione in compagnia, nella versione del 1620 rispetto a quella del 1612, sembra che la figura dell’amorosa Prudenza appaia sotto una luce particolare. L’evoluzione del personaggio potrebbe interpretarsi come specchio della recente promozione della Baldina (Virginia Rotari, in arte Lidia) a seconda amorosa, con lieve attenuazione invece del ruolo – pur sempre assai più centrale – della prima amorosa Virginia Ramponi come Schiavetto-Florinda. È chiaro che modifiche del genere sono probabilmente imputabili alla relazione adulterina tra Lelio e la Baldina: prima di essere escluso dalla formazione, Cecchini accusava Andreini di lasciarsi influenzare dalla passione per la Baldina per trascurare i ruoli di solito riservati all’ufficiale seconda donna Flaminia – Orsola Posmoni, moglie di Frittellino che come lui non andrà a Parigi – mentre vi favorisce Lidia95. Infine, sappiamo che era pure in compagnia il Dottor Graziano Campanaccio de’ Budri, cioè Giovanni Rivani, un comico venuto direttamente dal mondo dei ciarlatani e dei montimbanchi96. « Ha fatto stampar ricette, dona pezze e scatole » scrive di lui Giovan Battista Andreini il 27 agosto 1623. Una frase che riecheggia stranamente nelle parole di Rondone riguardo la sua prestazione da ciarlatano alla scena 8 dell’atto IV; ci basti fare solo qualche esempio di battute e della sua estrosa facondia: « che cos’è in questa scatola dove sono dipinte queste teste di morte? Che cosa c’è? Guardaci guercio becco fò, Forliese; qui dentro c’è la cerasta cornuta (…); mi dispongo di mangiar ancor questo Rospo pestifero c’ho da se in questo scatolotto, il qual è nudrito d’aspidi solo » e ancora: « questo invoglio di candidissima carta è quello che nasconde il tesoro, che m’intendo palesarvi; né si creda, che questo sia un unguento per dolori, né pasta per denti, né composizion per piattole: ma una ricettina per giovare a tutto il genere humano »97. Non ci è lecito, per necessità di coerenza di argomento e per insufficienza di spazio, dilungarci in questa sede sulle differenze di distribuzione in compagnia tra il 1612 e il 1620. Ma è chiaro che il confronto tra le due versioni sarebbe della massima utilità dato che i testi di Andreini sono spesso ricchi di testimonianze, se non addirittura autobiografiche, almeno del contesto di compagnia; sono anche opere la cui dimensione metateatrale e metaforica è sempre sorretta dalla ricorrente difesa del teatro comico dell’arte come « ricettina per giovare a tutto il genere humano ».

Conclusione

Per poter ricostruire la figura ambivalente di Tristano Martinelli, è stato necessario leggere oltre le sue parole « travestite ». Le lettere offrono di conseguenza una realtà trasfigurata. Infatti, la loro scrittura ambivalente « significa la speranza di poter governare il proprio destino, ma anche l’ammissione di una dipendenza irreparabile. La sua gestione è quindi il sintomo del tentativo dei comici di negoziare la storia. Una storia che assomiglia ad una trama di canovaccio in cui essi, i professionisti della drammaturgia, tentano di premeditare tutto il percorso niente lasciando all’improvvisazione »98. Confrontando il linguaggio dell’epistolario con il personaggio di Nottola ne Lo schiavetto, in parte condizionato dal punto di vista dell’autore Giovan Battista Andreini, sorge, nell’interstizio tra lettere e scena, la « realtà » duplice di Arlecchino, il cui miglior talento sarebbe forse l’arguta esuberanza a cui è improntato il suo linguaggio. Si tratti di Martinelli o di Andreini, questo linguaggio è l’unico mezzo valido con cui i comici dell’arte riescono a parlare di sé, anche se ogni proiezione allo specchio è anche sinonimo di inevitabile deformazione. E se si vuol parlare di « verità » a proposito della personalità di Tristano Martinelli, essa va cercata in quello spazio esistente tra le lettere indirizzate ai più potenti (il duca di Mantova, Luigi XIII), destinatari che ne condizionano necessariamente il contenuto, e i testi di commedie come Lo schiavetto. Spetta allo studioso completare questo spazio, cercando di interpretare le contraddizioni, le metafore e le menzogne. Ma sia nell’epistolario che nel personaggio teatrale, si tratta sempre per i comici di mettere in luce il proprio valore scenico. Nel caso di Tristano Martinelli, il tratto dominante del suo carattere sembra proprio la tendenza a far spettacolo della sua persona, sia nella vita (le lettere) che sul palco (Nottola), quasi l’essere in scena fosse diventato un modus vivendi, o addirittura una forma mentis. In ultima analisi, Lo schiavetto conferma quanto il teatro di Giovan Battista Andreini sia improntato ad un ricco e notevole autobiografismo, con una notevole incidenza della vita reale di compagnia, nonché del contesto di creazione o di riscrittura dei testi, sull’intreccio delle commedie.

Note de fin

1 « mezzo diavolo e mezzo bestia, capo della masnada infernale, principe del mondo alla rovescia (…) che aveva turbato e impressionato il teatro parigino del 1584 » cfr. Siro FERRONE, Arlecchino, Vita e avventure di Tristano Martinelli attore, Vita di Arlecchino, Roma-Bari, Laterza, 2006, p.191.

2 Presente con gli Accesi a Parigi nel 1600-1601 e unita poi in matrimonio col Pantalone Romagnesi, Diana Ponti (in arte Lavinia) si illustra, tra il 1590 e il 1597, come capocomica della Compagnia dei Desiosi. Per la tournée parigina del 1600-1601, si associa con gli Accesi, poco prima che Pier Maria Cecchini ne diventi il capocomico.

3 Giovan Battista ANDREINI, Lo schiavetto comedia di Gio. Battista Andreini fiorentino. Dedicata all'illustriss. sig. Girolamo Priuli meritissimo figliuolo di sua Serenità In Venetia, Venezia, Giovan Battista Ciotti, 1620.

4 Arlecchino occupa il ruolo di principale promotore della tournée francese del 1620 fino al mese di gennaio del 1619. Le successive trattative con Giovanni de’ Medici sono poi eseguite direttamente dalla cancelleria ducale di Mantova, mentre sul versante dei comici la posizione di guida viene progressivamente assunta da Giovan Battista Andreini (cfr. Siro FERRONE, Comici dell’arte, Corrispondenze, G.B. Andreini, N. Barbieri, P. M. Cecchini, S. Fiorillo, T. Martinelli, F. Scala, ed. S. Ferrone, C. Burattelli, D. Landolfi, A. Zinanni, 2 vol., Firenze, Casa editrice Le Lettere, 1993, vol.1, nota 1, p.413).

5 La prima edizione veneziana del 1620 si effettua presso la stamperia Giovan Battista Ciotti; è dedicata a Girolamo Priuli il 27 dicembre 1619 « meritissimo figliuolo di sua Serenità » (Girolamo Priuli è uno dei molti figli di Antonio Priuli, Doge dal 1548 al 1623).

6 I comici Fedeli entrano nel 1604 al servizio del duca di Mantova, Vincenzo I Gonzaga, dopo la morte di Isabella Andreini e in seguito alla successiva dissoluzione dei Gelosi.

7 Figlio di Vincenzo I duca di Mantova e di Eleonora de’ Medici, il duca Ferdinando (duca di Mantova dal 1612 fino alla morte avvenuta nel 1626) è filofrancese, anti spagnolo, coltissimo e appassionato di arte, protettore delle arti musicali e forse anche autore di libretti per musica. Alla morte prematura del fratello Francesco, è costretto ad abbandonare la veste cardinalizia per prendere la successione del padre Vincenzo, e anche per potersi opporre alle ambizioni di Carlo Emanuele I di Savoia sul Monferrato, governato dai Gonzaga. Carlo Emanuele I viene osteggiato tanto da Ferdinando che dalla Francia. Il duca di Savoia scatena, per complessi motivi di dote, una crisi diplomatica, nella quale il contendente era il Gonzaga ma solo formalmente; in realtà il conflitto era più ampio e coinvolgeva Spagna e Francia, che per motivi diversi appoggiavano il Gonzaga contro le pretese savoiarde. Ferdinando Gonzaga sposa Caterina di Ferdinando de’ Medici in seconde nozze (nel 1617) ma non avendo da questa avuto figli, viene tormentato dal problema dell'estinzione della dinastia e della successione al trono, cui aspirava Carlo Emanuele I, che dal 1613 al 1618 occupa militarmente il Monferrato [fonte: Enciclopedia Treccani online].

8 Giovanni de’ Medici è protettore dei Confidenti ma è anche lo zio di Caterina de’ Medici, di Ferdinando Gonzaga e di Luigi XIII. Non si tratta evidentemente di Caterina de’ Medici regina madre di Francesco II, di Carlo IX e di Enrico III (fine del ‘500), bensì di Caterina de’ Medici (1593-1629), figlia di Ferdinando I de’ Medici (Granduca di Toscana) e di Cristina di Lorena. Siro Ferrone parla al riguardo di « partito internazionale dei Medici » in Siro FERRONE, Arlecchino, op. cit., p.207.

9 Rimasta vedova nel 1610, Maria de’ Medici diventa reggente al fianco del figlio Luigi XIII che ha solo 9 anni. Durata la reggenza fino al 24 aprile 1617, il figlio, stanco dell’ingerenza della madre, prende il potere e la manda in esilio nel castello di Blois. La reggenza di Maria de’ Medici era stata segnata da una forte (nonché criticata) presenza italiana a corte. Tra i favoriti italiani odiati, che illustrano le tensioni xenofobe esistenti a corte, nonché i difficili rapporti tra madre e figlio, citiamo Concino Concini che sarà poi assassinato dal marchese di Vitry, su ordine di Luigi XIII. Maria de’ Medici torna a corte tra il 1619 e il 1620, dopo la battaglia di Ponts-de-Cé nell’agosto 1620.

10 Siro FERRONE, Arlecchino, op. cit., pp.205-206.

11 Su Giovanni de’ Medici, cfr. Siro FERRONE, Comici dell’arte, op. cit., vol.1, p.452. Giovanni de’ Medici è presente alla corte di Enrico IV e di Maria de’ Medici dal 1605 al 1608. Fa anche il condottiere militare per Venezia dal 1610. Nel 1615, si stabilisce a Venezia dove muore il 19 luglio 1621. Giovanni de’ Medici è il famoso protettore della compagnia dei Confidenti di Flaminio Scala dal 1613 al 1621. In genere è noto come fedele e duraturo protettore dei comici, tra cui gli Accesi di Pier Maria Cecchini che gli dedica la sua Flaminia schiava nel 1610. Giovanni de’ Medici è legatissimo a Flaminio Scala (in arte Flavio) il quale è incaricato di trovargli una casa a Venezia nel 1615.

12 Figlio di Enrico IV e di Maria de’ Medici, il piccolo Luigi, nato nel 1601, è chiamato a regnare a soli 9 anni nel maggio del 1610. La reggenza della prepotente Maria de’ Medici si conclude dopo un difficile periodo di tensioni, anche dovute all’odio di cortigiani francesi nei confronti di alcuni esponenti italiani alla corte di Francia, proprio nel 1619. In questo contesto, la venuta dei comici nel 1620 simboleggia la fine delle ostilità tra madre reggente e figlio regnante nel momento in cui quest’ultimo ristabilisce la propria autorevolezza reale.

13 Lo stesso anno, diventò anche il giovanissimo padrino del primogenito di Arlecchino. Il neonato, venuto alla luce il 27 gennaio 1614, ebbe per nome Luigi come il re (Siro FERRONE, Arlecchino, op. cit., p.187).

14 Per le ragioni che avrebbero dovuto portare a mandare i Confidenti al completo, con aggiunta di qualche membro mantovano, a patto di mantenere unità e coerenza nella distribuzione, vedi Siro FERRONE, Comici dell’arte, op. cit., vol.1, nota 2, p.116. Il re spera anche la presenza di Scappino – Francesco Gabrielli (Confidenti)] – e di Domenico Bruni, i quali poi non partiranno con la formazione. Alla fine, non partiranno affatto i Confidenti, ma piuttosto una maggioranza di membri dei Fedeli di Giovan Battista Andreini. Scappino andrà poi in Francia con i Fedeli solo nel 1623.

15 Lettera 42, in Siro FERRONE, Ibid., vol.1, p.410.

16 Ibid., vol.1, p.412.

17 Cecchini rimane al servizio del duca di Mantova dal carnevale 1602 fino al 1612, come capo della compagnia ufficiale. Il numero di attori coinvolti era tale da consentire il mantenimento di due compagnie autonome: da una parte, gli Accesi di Pier Maria Cecchini, e dall’altra i Fedeli di Giovan Battista Andreini a partire dal 1604-1605, due compagnie che spesso fusionano specie nell’ambito di tournées, di cui Cecchini si fa il promotore. Ma frequenti sono le scissioni, come ad esempio quella del 1608 per cui gli Accesi si recano in Francia mentre i Fedeli di Andreini ne approfittano per consolidare la loro posizione a Mantova per i festeggiamenti per le nozze di Francesco IV Gonzaga con Margherita di Savoia. Cresce sempre la contestazione dell’autorità di Cecchini da parte di Andreini, in seno alla compagnia ufficiale del duca. I conflitti interni portano addirittura nel 1609 all’omicidio – commesso da Cecchini – del collega Carlo De Vecchi, nonché a repentine divergenze sulla gestione della compagnia. Perso il proprio prestigio, Cecchini viene licenziatio dal servizio mantovano nel 1612.

18 Siro FERRONE, Comici dell’arte, op. cit., vol.1, pp.277-78. Lettera 70, da Roma l’11 maggio 1619 probabilmente ad Ercole Marliani (Mantova). Qui Cecchini si riferisce a Lelio (Andreini) dicendo di esser stato da lui contattato tramite due lettere che lo chiamano assieme alla moglie (Orsola Posmoni) al servizio di sua Altezza Serenissima [il duca di Mantova]. La convocazione si fa in vista della formazione da costituire per la Francia.

19 Ibid., vol.1, p.117. Lettera 36, da Brescia, ad un segretario ducale a Mantova, il 21 maggio 1619.

20 Ibid., vol.1, p.279. Lettera 71, da Firenze, ad un segretario ducale a Mantova, il 20 ottobre 1619.

21 Ibid., vol.1, p.280. Lettera 72, da Bologna, a Ferdinando Gonzaga a Mantova, il 30 marzo 1620. In questa lettera Cecchini si dichiara assoluto servitore del duca di Mantova (« vostra serenissima comanda »). Cecchini viene convocato il 1° aprile 1620, consecutivamente alla definitiva rinuncia di Ferdinando Gonzaga alla compagnia di Giovanni de’ Medici (ovvero ai Confidenti di Flaminio Scala).

22 A giugno, la formazione che dovrebbe partire si compone di 12 attori della compagnia ducale (Fedeli e Accesi): i due Andreini (Lelio e Florinda), Pier Maria Cecchini, Tristano Martinelli, con in più gli innamorati Stefano Castiglioni e Aniello Testa, il Pantalone Federico Ricci, il [Dottor] Graziano Giovanni Rivani, il Capitano Girolamo Garavini e le fantesche Urania Liberati e la giovane Virginia Rotari, la quale è in procinto di passare a seconda amorosa (Ibid., vol.1, p.68 e nota 1, p.281). Il 31 maggio il duca di Mantova aveva infatti annunciato a Traiano Guiscardi, residente a Parigi, la partenza ufficiale della compagnia. Milano (già con le relative tensioni interne) è a giugno la prima tappa del lungo viaggio, il quale si farà poi senza Cecchini, con un arrivo a Parigi soltanto ad ottobre in seguito a tensioni, complessità organizzative e incertezze politiche francesi.

23 La Baldina (allora sposa di Baldo Rotari) è nella compagnia ducale, occupando ruoli di fantesche, almeno dal 1612, con il marito che non fa il comico. Ed è proprio la relazione con Andreini a promuoverla « seconda donna » (Siro FERRONE, Ibid., vol.1, nota 2, p.124 e Cecchini, Lettera 75, Luglio 1620, Ibid., vol.1, pp.282-283). Tale promozione le consente in seguito di occupare ruoli come quello di Lidia: ne Li duo leli simili, nel 1622, la gerarchia vien addirittura capovolta con Lidia in primo piano rispetto a Florinda, nonché in altre commedie successive di Andreini. Rimasti entrambi vedovi nel 1633, Andreini e la Baldina vivono prima maritalmente, per poi sposarsi nel 1652.

24 Ercole Marliani (accademico, segretario ducale dal 1619) è l’interlocutore dei comici presso la corte di Mantova, e come tale conduce le trattative con Giovanni de’ Medici per l’affiliazione di una parte dei Confidenti alla compagnia ducale in vista della tournée francese. Il Marliani è anche impegnato negli allestimenti scenici alla corte di Mantova, e responsabile lo stesso anno degli spettacoli di Carnevale (Ibid., vol.1, nota 1, p.123).

25 Ibid., vol.1, p.122. Lettera 39, da Milano, a Ferdinando Gonzaga a Mantova, il 5 agosto 1620.

26 Ibid., vol.1, p.123. Lettera 39.

27 Ibid., vol.1, p.282. Lettera 75, da Milano, a Ferdinando Gonzaga a Mantova, il 15 luglio 1620.

28 Frittellino accusa Lelio non solo di adulterio, ma anche di riservare troppe prime parti ad Arlecchino, di favorire un Pantalone che ritiene scadente, di sottrarre ruoli di seconda amorosa alla moglie Orsola Posmoni per offrirli alla Baldina, e di costringere la Posmoni a duetti, non con il consueto secondo amoroso, bensì attribuendo ruoli da « morosi » al Capitano « per levar a lei il parlar con l’altro innamorato » (Ibid., vol.1, p.282).

29 Ibid., vol.1, pp.283-285. Lettera 76, da Milano, ad un segretario ducale a Mantova, il 22 luglio 1620. Qui si fa allusione agli « umori francesi » ovvero al clima di incertezze politiche dovuto alla ribellione dei nobili, specie nel campo protestante, contro il quale Luigi XIII conduce una serie di lunghe campagne militari (Ibid., vol.1, nota 1, p.284). Nella Lettera 77, da Milano, a Ferdinando Gonzaga (Mantova), il 26 agosto 1620, Cecchini ripete le denunce per « pianti, ingiurie, scongiuri, votti di non far, di non dire » per cui secondo lui non è possibile viver bene, né in Francia, né in Italia; al punto di preferire vivere con pochissimo a Mantova, all’ombra di Sua Altezza, dice Cecchini, anziché arricchirsi « in compagnia di costoro ». Cecchini indica che « costoro » si riferisce alla sola persona di Lelio dato che gli altri (sempre ai detti di Cecchini) danno invece ragione alla moglie (Ibid., vol.1, p.285). Cecchini trasforma probabilmente i fatti, dal momento che egli chiede cortesemente al duca che le sue denunce non arrivino a conoscenza di Lelio…

30 Ibid., vol.1, pp.286-287. Lettera 78, da Milano, a Ferdinando Gonzaga a Mantova, il 28 agosto 1620.

31 Ibid., vol.1, nota 1, p.288-289. Dei 12 membri inizialmente previsti a Milano (cfr. supra n.22), ne partono solo 8, ovvero: gli sposi Andreini (Virginia Ramponi e Giovan Battista), l’Arlecchino Tristano Martinelli, il Pantalone Federico Ricci, il Graziano Giovanni Rivani, il Capitano Garavini e le fantesche Urania Liberati e Virginia Rotari. Vi si aggiungono Benedetto Ricci e Lorenzo Nettuni (in arte Fichetto, come sostituto di Cecchini-Frittellino), cfr. Andreini, Lettere 42-43, Ibid., vol.1, pp.127-132). L’assenza, tanto di Flaminia (Orsola Posmoni, moglie di Cecchini) che della sposa di Garavini finisce di promuovere la Rotari a seconda donna, promozione iniziata tre mesi prima « nei suggeti di Lelio » (cfr. Lettera 75 di Cecchini, Ibid., vol.1, p.282) e confermatasi nelle commedie successive di Andreini (Cecchini, Lettera 79-80, da Milano, a Ferdinando Gonzaga a Mantova, il 17 e il 21 ottobre 1620, Ibid., vol.1, nota 1, p.289).

32 Ibid., vol.1, p.415. Martinelli, Lettera 46, da Due Castelli, a Ferdinando Gonzaga (Mantova), il 28 settembre 1620.

33 In questa lettera al duca Ferdinando Gonzaga, Cecchini allude ad un periodo di prigionia, forse richiesta dall’ambasciatore mantovano a Milano, per la sua eccessiva « impertinenza nel parlare ». In Italia, rimane anche Aniello Testa, il che costringe a modificare di nuovo l’« organico » di compagnia. La formazione che alla fine parte a Parigi comprende gli sposi Andreini, Tristano Martinelli, Federico Ricci (Pantalone), Giovanni Rivani (Dottor Graziano), il Capitano Girolamo Garavini, la Rotari e Urania Liberati. Vi si aggiungono Benedetto Ricci (purtroppo morto in viaggio) e Lorenzo Nettuni. (cfr. supra n.31 e Ibid., vol.1, nota 1, pp.288-89).

34 Ibid., vol.1, p.417. Martinelli, Lettera 48, da Milano, a Ferdinando Gonzaga a Mantova, il 19 ottobre 1620.

35 Ibid., vol.1, nota 1, p.289.

36 Ibid., vol.1, nota 1, p.413. Lettera 44, da Ferrara, a Giovanni de’ Medici a Venezia, il 30 gennaio 1619. Cfr. anche Lettera 50 di Flaminio Scala (10 gennaio 1619) sulla rivendicazione di Arlecchino come mandatario per costituire la formazione (Ibid., vol.1, p.519).

37 Ibid., vol.1, p.412, Lettera 43, da Ferrara, a Giovanni de’ Medici a Venezia, il 22 gennaio 1619.

38 Ibid., vol.1, p.415, Lettera 46, da Due Castelli, a Ferdinando Gonzaga a Mantova, il 28 settembre 1620.

39 Ibid., vol.1, p.558. Lettera 82, da Bologna, a Giovanni de’ Medici a Venezia, il 29 ottobre 1619. Qui vi si fa riferimento alla lettera arrivata dalla Francia mediante il Signor Conte Prospero Bentivogli, in cui sono citati Arlecchino e Frittellino. Ma si allude anche al fatto che Prospero Bentivogli abbia sentito dire a Firenze che Frittellino e la sua compagnia non valgano niente. In questa lettera, Scala narra delle tensioni tra i comici, per poi affidarsi a « Vostra Eccellenza illustrissima » per « aver cura de noi altri manigoldi ». Il giudizio negativo sulle prestazioni fiorentine della compagnia di Frittellino (« avendo Frittellino così forfante compagnia […] che non guadagna il pane ») viene confermato dallo stesso Scala il 12 novembre 1619 (Ibid., vol.1, p.561. Lettera 85, da Bologna, a Giovanni de’ Medici a Venezia).

40 Ibid., vol.1, p.411. Lettera 43, da Ferrara, a Giovanni de’ Medici, il 22 gennaio 1619. Martinelli vi accusa Frittellino di « machinare ».

41 Cronologia relativa ad Andreini, in Ibid., vol.1, p.68.

42 Ibid., vol.1, nota 1, p.126. La compagnia è partita da Milano verso il 20 ottobre 1620. Il 6 marzo 1620 la regina Anna esprime la sua soddisfazione, confermata dallo stesso Luigi XIII, per il servizio reso dai comici.

43 Si tratta del testo dell’ 8 aprile 1613, rinnovato da Ferdinando Gonzaga con i termini del decreto del 1599 e che elenca le « genti » sottoposte all’autorità di Martinelli (Ibid., vol.1, nota 6, p.395).

44 Siro FERRONE, Arlecchino, op. cit., p.183-185. Emerge dalle sue lettere ad Alessandro Striggi (Ferrara 21 gennaio 1613, poi Lione 26 agosto 1613) l’insistenza sulla rivalità che lo oppone a tale Riva incaricato della sorveglianza a Mantova, accresciuta in quei tempi di guerra, e di conseguenza le perdite sofferte nell’ambito del suo incarico di intendente dei comici e dei saltimbanchi di Mantova. Al riguardo, non esita affatto a far richiamo alla protezione della regina reggente Maria de’ Medici.

45 Siro FERRONE, Ibid., p.204-205 et Siro FERRONE, Comici dell’arte, op. cit., vol.1, p.410. Nella lettera 42, da Verona, a Ferdinando Gonzaga a Mantova, il 20 dicembre 1618, Martinelli accenna all’« invencioncina de sigilare le valice ali zeretani » nonché al contratto inziale. Temendo che questo venga cambiato a suo svantaggio, egli rinnova le suppliche e le preghiere in difesa del proprio privilegio.

46 Siro FERRONE, Comici dell’arte, op. cit., vol.1, p.410.

47 Ibid., vol.1, p.37. In questa introduzione al vol.1, Siro Ferrone fa riferimento alla « nevrosi postale » nonché alle « trame delle commedie » avvertibili nell’epistolario dei comici.

48 Ibid., vol.1, p.39. « gli attori videro nelle lettere sottoscritte dai sovrani un talismano capace di proteggerli dall’imprevisto ».

49 Ibid., vol.1, pp.277-278. Lettera 70 di Pier Maria Cecchini.

50 Figura maggiore della diplomazia gonzaghesca, e dapprima consigliere di stato nel 1612, Francesco Nerli è ambasciatore a Milano dal 1619 all’agosto 1620. Per questo segue da molto vicino le vicende della formazione durante il periodo (Ibid., vol.1, nota 3, p.120). A lui Giovan Battista Andreini dedica nell’agosto 1620 la tragicommedia boschereccia Lelio bandito.

51 Ibid., vol.1, nota 1, p.290, alla Lettera 80 del 21 ottobre 1620 (a proposito dell’« obrobio » subito da Cecchini). Il 19 giugno 1621, da Venezia, Cecchini si lamenta di aver perso ben 2800 scudi « per la persecutione di Arlecchino » (Ibid., vol.1, Lettera 84, p.294).

52 Ibid., vol.1, p.522. Lettera 52, da Mantova, a Giovanni de’ Medici a Venezia, il 22 gennaio 1619.

53 Ibid., vol.1, p.519. « ma tutti alla muta », cfr. Lettera 50, da Mantova, a Giovanni de’ Medici a Venezia, il 10 gennaio 1619.

54 Ibid., vol.1, p.519. La lettera testimonia anche la vecchia amicizia tra il Capitan Spavento (Francesco Andreini) e Flaminio Scala. Ibid., vol.1, nota 3, p.520.

55 Ibid., vol.1, p.520. Flaminio Scala avvisa Giovanni de’ Medici della rottura che cerca di provocare Arlecchino « nella nostra compagnia per farne una a suo modo da passare in Francia » (Lettera 51, da Mantova, a Giovanni de’ Medici a Venezia, il 16 gennaio 1619. Cfr. anche Martinelli, Lettere 43-44, a Giovanni de’ Medici, 22 e 30 gennaio 1619, Ibid., vol.1, pp.411-414.

56 Ibid., vol.1, nota 1, p.420. Sulle ostilità tra Gonzaga e Savoia e l’ « oracione […] meza da Tristano et meza d’Arlechino », commissionata da Ferdinando Gonzaga, con contenuti e intenti probabilmente diplomatici.

57 Ibid., vol.1, p.418. Lettera 49, da Torino, a Ferdinando Gonzaga a Mantova, il 5 novembre 1620. La lettera fornisce una ricca testimonianza sugli spettacoli allora allestiti a Torino.

58 Ibid., vol.1, p.419.

59 Ibid., vol.1, p.420. Lettera 50, da Fontainebleau, a Luigi XIII a Fontainebleau, il 21 aprile 1621.

60 Ibid., vol.1, p.421. Lettera 51, da Parigi, a Ferdinando Gonzaga a Mantova, l’8 maggio 1621.

61 Ibid., vol.1, p.422. Si tratta dell’anno in cui iniziano le spedizioni militari di Luigi XIII per la sottomissione delle città protestanti (Ibid., vol.1, nota 2, p.423).

62 Ibid., vol.1, p.422. La stessa lettera fa anche da utile resoconto della grande discordia in corso nella compagnia, fra Lelio e Florinda.

63 Siro FERRONE, Arlecchino, op. cit., pp.211-212. Qui Ferrone interpreta la lettera di Andreini come una falsa lettera di rancore, che contiene non calunnie ma soltanto delle verità: infatti secondo il sistema dei montimpanca mantovani gli altri devono pagare ad Arlecchino una tangente se vogliono entrare in compagnia. Il parere di Andreini su Arlecchino è in genere alquanto negativo: quello di un Arlecchino che si arruffiana la regina madre e la regina d’Austria (moglie di Luigi XIII) per arricchirsi personalmente. Ma Andreini ha qualche interesse a mandare un simile ritratto al duca di Mantova perché, oltre alla salvaguardia del suo dominio sulla compagnia, egli vuole restare in Francia. A dimostrazione del fatto che non si tratti di calunnie, vi sono lettere di Arlecchino concordanti in cui egli stesso narra di doni, regali fattigli in abbondanza e conformi a quelli citati da Giovan Battista Andreini.

64 Tristano Martinelli rimane tuttavia all’origine del nuovo contratto firmato con l’Hôtel de Bourgogne, nonché di quello tra Giovanni de’ Medici e Giovan Battista Andreini. Abbandona nondimeno la compagnia tra giugno e luglio 1621.

65 Come testimonia la lettera 49 di Tristano Martinelli (da Torino, a Ferdinando Gonzaga a Mantova, il 5 novembre 1620) in Siro FERRONE, Comici dell’arte, op. cit., vol.1, pp.418-420.

66 Ibid., vol.1, p.129. Lettera 43, da Parigi, a Ferdinando Gonzaga a Mantova, il 2 luglio 1621.

67 Già nel 1613 a Fontainebleau, Maria de’ Medici gli regala una collana d’oro. I molti figli di Martinelli godono di una litania di padrini e madrini a corte, tra cui il neonato primogenito chiamato Luigi (come il Re) che vede la luce il 27 gennaio 1614, ed è tenuto a battesimo dal piccolo Re di Francia, avendo « tre regine per comadre, tre duchi per compadri » (Siro FERRONE, Arlecchino, op. cit., pp.186-187).

68 Il 24 novembre 1615, Luigi XIII aveva sposato l’infanta di Spagna, figlia di Filippo III di Spagna e di Margherita d’Austria.

69 Tristano MARTINELLI, Compositions de rhétorique de M. Don Arlequin, comicorum de civitatis Novalensis, corrigidor de la bonna langua francese et latina, condutier de comediens, connestable de messieurs les badaux de Paris, et capital ennemi de tut les laquais inventeurs desrobber chapiaux, Lyon, [Iacomo Roussin], 1600-1601.

70 La prima edizione (a successo) de Lo schiavetto è del 1612. Scritta lo stesso anno del dialogo saggistico in difesa dell’arte comica (Prologo tra Momo e la verità), Lo schiavetto fa parte delle prime opere, pubblicate dall’Andreini in periodi di forti tensioni con gli Accesi di Pier Maria Cecchini, nell’ambito della partenza per Parigi del 1613-1614. Dopo una breve associazione con gli Accesi di Cecchini, costellata di tensioni, i Fedeli vanno da soli sin dal 1610. Viaggiano dal 1611 da Firenze, a Bologna, poi Milano. Ed è proprio a Milano nel 1612 che Andreini edita Lo schiavetto, la cui fortuna sarà notevole in molte città italiane. Il 18 febbraio 1612, muore il duca Vincenzo I Gonzaga. Nel 1613, hanno inizio le prime rappresentazioni a Parigi (Hôtel de Bourgogne) e al Louvre alla corte del re di Francia dove, invitati da Maria de’ Medici, i Fedeli si trattengono fino al 1614 (Cfr. Cronologia, in Siro FERRONE, Comici dell’arte, op. cit., vol.1, pp.66-70).

71 Esistono quattro edizioni della commedia per due versioni diverse a 10 anni di distanza: le prime due sono del 26 settembre 1612, e del 6 ottobre 1612, edite a Milan presso P.Malatesta. Poi c’è Lo schiavetto, comedia di Gio. Battista Andreini, comico fedele detto Lelio, con varianti significative, Venezia, editore G. B. Ciotti, 1620; e infine, Lo schiavetto, comedia di Gio. Battista Andreini, comico fedele detto Lelio, [editore?], 1621. Salvo indicazioni contrarie e confronti significativi tra le varianti, noi faremo riferimento all’edizione veneziana del 1620, ovvero alla prima versione della seconda edizione del testo, da noi segnalata in nota semplicemente come « 1620 », indicandone atto e scena di riferimento.

72 A proposito della costruzione a specchio della commedia, rimandiamo al nostro studio: Cécile BERGER, « Le miroir brisé ou le passage derrière le rideau dans Lo schiavetto de Giovan Battista Andreini (1612) » in Céline FRIGAU-MANNING (a cura di), La Scène en miroir: métathéâtres italiens (XVIe-XXIe siècle), Études en l’honneur de Françoise Decroisette, Paris, Classiques Garnier, 2016, pp.279-292.

73 Siro FERRONE, Arlecchino, op. cit., p.189.

74 L’intreccio, di cui diamo un riassunto in questa sede, rimane più o meno lo stesso: la commedia si apre subito sul personaggio di Nottola, principe circondato da una corte di imbroglioni, scrocchi e manigoldi. Arrivando a Pesaro, la loro compagnia bussa alla porta di un albergo tenuto dalla fiorentina (e fantesca) Succiola. Essendo il principe Nottola in cerca di un palazzo per la sua « corte », Succiola suggerisce ad Alberto (gentiluomo avaro e squattrinato) di prestare il suo, dando la figlia Prudenza come sposa a Nottola (fine dell’atto I). All’atto II, entrano in scena degli innamorati corteggiatori di Prudenza (Fulgenzio, innamorato non ricambiato, ed Orazio amato da Prudenza). Avendo Nottola convocato dei mercanti ebrei perché portassero dei vestiti per la festa di matrimonio, Prudenza chiede ad Orazio di travestirsi da ebreo per potere entrare in incognito in quel palazzo in cui ormai lei deve ospitare quel « conte schifoso » [Nottola]. Fulgenzio, sentendo queste parole, giura di vendicarsi e di ingannare a sua volta Prudenza, ed entra in scena (atto II, sc.5) anche lui travestito da mercante ebreo. Vedendo questo, Nottola acconsente finalmente a dargli Prudenza in sposa. Arriva allora Schiavetto, in realtà Florinda sposa di Orazio, fuggitiva travestita da uomo che così viaggia, in incognita per il mondo, alla sua ricerca. Per vendicarsi dell’infedeltà di Orazio, Schiavetto-Florinda fa di tutto per avvelenarlo, ma uno speziale, al fine di ostacolare il malefico progetto, le dà una polvere che fa soltanto ammalare Orazio mentre lei lo crede davvero morto avvelenato. Donde la riapparizione di Orazio nell’ultima parte della commedia, mentre Schiavetto-Florinda gli perdona l’infedeltà, o meglio la promessa infedele fatta a Prudenza. Prudenza invece finisce per accettare di sposare Fulgenzio. Faceto, dapprima apparso travestito da attore, si scopre e si rivela come il fratello di Schiavetto-Florinda, col suo vero nome di « Lelio-Fedele » [ossia Giovan Battista Andreini], confessando di aver assunto il nome di Faceto per poterla seguire e proteggere in incognito. Si assiste ovviamente al solito « lieto fine », con vari matrimoni, tra cui quelli di altri personaggi secondari facenti parte della « corte » di Nottola.

75 Siro FERRONE, Arlecchino, op. cit., p.189.

76 1620, I, 2, p. 11.

77 Sin dal 1598, Martinelli ottiene una protezione sicura per fare assumere membri della sua famiglia (il fratello con la moglie) nella compagnia regolare del duca Vincenzo I Gonzaga. Il 29 aprile 1599, Tristano Martinelli (la cui vita è costellata di sbandamenti e peripezie di ogni tipo) vien nominato da Vincenzo I Gonzaga sopraintendente dei comici, artisti e saltimbanchi o venditori ambulanti di tutti i territori dipendenti dai Gonzaga (compreso il Monferrato), con il compito di raccogliere le tasse sugli spettacoli e sulle esibizioni pubbliche di piazza. Egli diventa così sopraintendente dei comici per il duca di Mantova, nonostante i suoi andirivieni alla corte di Francia e la sua instabile appartenza alla compagnia dei Fedeli. Martinelli recita anche nella compagnia degli Accesi (con i quali soggiorna in Francia dal 1600 al 1601). Viene poi impiegato alla corte di Francia nel 1615 e nel 1616 (cfr. Siro FERRONE, Comici dell’arte, op. cit., vol.1, p.351 et pp.364-365 e Siro FERRONE, Arlecchino, op. cit. pp.183-187.

78 1620, III, 7, p.97.

79 Giovan Battista ANDREINI, Lelio bandito, tragicomedia boschereccia, I, 5, Venezia, Giovan Battista Combi, 1624, p. 50.

80 Siro FERRONE, Comici dell’arte, op. cit., vol.1, p.350.

81 Siro Ferrone vi legge una possibile incarnazione di Vincenzo I Gonzaga (Siro FERRONE, Attori, Mercanti, Corsari, Torino, Einaudi, 1993, pp.233-234). Per le similitudini con l’erranza e la condizione dei comici, la schiera di scrocchi che fa da cerchia cortigiana a Nottola potrebbe anche essere una metafora di una compagnia di comici itineranti.

82 1620, III, 8, p.107. La battuta è assente dall’edizione del 1612.

83 Ibid., V, 9, p.197.

84 Ibid., V, 9, p.187.

85 Il procedimento è quasi simile all’atto V de Le due comedie in comedia (1623), in cui il teatro nel teatro fa anche da pretesto ad un chiaro e palese discorso metateatrale in difesa della commedia.

86 1620, IV, 8, p.141. L’apostrofe è assente d’all’edizione del 1612.

87 Ibid., p.142.

88 Ibid., pp.148-149.

89 Esiste infatti una cittadina chiamata « castello Cerreto » in Toscana, ma il paese che di solito viene citato alla voce « cerretani » fa riferimento invece alla regione Umbria, ovvero: « deriv. di Cerreto, paese dell’Umbria, nel medioevo patria tradizionale di medici e speziali girovaghi » (Garzanti Linguistica online, voce: cerretano).

90 Ottorino PIANIGIANI, Vocabolario etimologico della lingua italiana, Società editrice Dante Alighieri di Albrighi, Segati e C., Roma, 1907, ed. online a cura di Francesco BONOMI, 2004-2008.

91 Vedi sopra (n.77) a proposito della nominazione nel 1599 di Tristano Martinelli come sopraintendente dei comici e ciarlatani.

92 Siro FERRONE, Comici dell’arte, op. cit., vol.1, pp.390-393. Lettere 30-31, ad Alessandro Striggi a Mantova, la prima da Ferrara il 21 gennaio 1613, la seconda da Lione il 26 agosto 1613, mentre Arlecchino è in strada per Parigi in occasione della tournée parigina del 1613-1614, nella compagnia ducale.

93 Ibid., vol.1, p.392. Lettera 31, da Lione, ad Alessandro Striggi a Mantova, il 26 agosto 1613.

94 Ibid., vol.1, pp.418-420. Lettera 49 a Ferdinando Gonzaga (Mantova) da Torino, il 5 novembre 1620.

95 Ibid., vol.1, pp. 282-283. Lettera di Pier Maria Cecchini a Ferdinando Gonzaga a Mantova, da Milano 15 luglio 1620 (ASMN, Gonzaga, b. 1751, cc. 837r-838-r).

96 Il bolognese Giovanni Rivani fa parte della compagnia che parte per Parigi nel 1620. Egli reciterà ancora con i Fedeli nel 1623. L’attore era anche capace di recitare in qualità di zanni (Ibid., vol.1, nota 2, p.120).

97 1620, IV, 8, pp.148-149.

98 Siro FERRONE, Comici dell’arte, op. cit., vol.1, Introduzione, p.40.

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Référence électronique

Cécile Berger, « Per un ritratto dell’Arlecchino Tristano Martinelli », Line@editoriale [En ligne], 10 | 2018, mis en ligne le 03 juillet 2018, consulté le 26 avril 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/992

Auteur

Cécile Berger

Il Laboratorio (EA4590)

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