[…] non si ritrovano per tutto i Tempesti, i Reni, i Valesi, né i Morazzoni.
G. B. Marino, Lettere, A G. B. Ciotti, Di Parigi, gennaio 1620
Non si stamparono raccolte di rime che non si vedesse il suo nome, e talor due volte, come poeta, fra le composizioni degli altri, e come intagliatore ne’ frontespicii avanti a tutti.
C. Malvasia, Felsina pittrice, Di Giovanluigi Valesio
Più che le doti poetiche furono i segni di stima e d’amicizia del Marino a dare a Giovanni Luigi Valesio (1583 ?-1633), pittore e famoso incisore, un posto nella storia della letteratura, per quanto modesto1. Radicato nel mondo culturale bolognese, formatosi alla scuola dei Carracci e amico di Ludovico, maestro anche nell’arte della scherma e del ballo, legato ad esponenti della Felsina letteraria come Cesare Rinaldi, Giovanni Capponi o Claudio Achillini, membro degli Incamminati e membro fondatore dell’accademia dei Selvaggi2, Valesio si schierò tra i difensori di Marino nell’accanita querelle che fervé nel 1614 tra questi e Ferrante Carli3, ed è probabilmente a questo titolo che il suo nome figura nella lista di coloro che l’autore della Sampogna si onora di avere per amici, come ricorda una delle lettere prefatorie dell’opera4. Undici anni dopo, l’artista occuperà un posto di primo piano nell’elaborazione dell’apparato funebre reso a Marino nel 1625 quale omaggio dell’Accademia degli Umoristi di Roma, dove Valesio si era stabilito a servizio del protettore Orazio Ludovisi (c.a 1620-1622)5. Letterato stimato dai contemporanei ma innanzi tutto artista rinomato, Valesio figura nel pantheon dei pittori evocato dal Marino nel suo Tempio6, occupa un posto notevole nella Galeria – nelle Favole, dove vengono lodate quattro sue opere, oltre che in una delle sezioni dei Ritratti7 – e fa parte del catalogo dei pittori nel canto sesto dell’Adone8.
Nella sua Felsina Pittrice, in cui trascrive le quattro poesie delle Favole della Galeria, Malvasia, la cui stima per Valesio va al disegnatore e incisore come al letterato e poeta, ma non al pittore, rileva il carattere parziale dell’elogio di Marino9. Ma qualunque fosse il rango tra i pittori che Marino attribuisse all’amico10, l’elogio che ne fa, come il posto datogli nella Galeria, corrispondono all’interesse del poeta per l’arte – che si tratti di ottenere un disegno da un artista o di assicurarsi la sua collaborazione per l’illustrazione delle proprie opere. In quest’ottica, Valesio viene annoverato tra i pochi incisori di cui Marino in procinto di pubblicare la Sampogna fa il nome nella lettera al Ciotti messa in esergo a questo articolo11.
Oltre l’illustrazione di opere scientifiche, filosofiche o teologiche12, le incisioni di Giovanni Luigi Valesio riguardano infatti un numero importante di opere letterarie, a cominciare da molte di quelle di Ridolfo Campeggi, come il Filarmindo (nel 1605 il frontespizio della prima edizione e nel 1606 o 1607 le illustrazioni interne degli atti)13, le Rime (1608), i Quattro Pianti delle Lagrime di Maria Vergine (1609), il Tancredi (1614), le Lagrime di Maria Vergine (1617) e La Italia consolata (1618)14. L’artista realizzò anche il frontespizio delle Rime di Francesco Maria Caccianemici (1608)15 e di Girolamo Preti (1620)16, molto probabilmente quello della Maria Egizziaca di Raffaello Rabbia (1618)17 e, nel campo delle opere poetiche per nozze, oltre La Italia consolata appena citata, il fontespizio e le illustrazioni interne della tragedia Erotilla di Giulio Strozzi (1615)18 e i frontespizi di varie raccolte collettive apparse tra il 1607 e il 1622.
Questa produzione grafica di Valesio richiama l’attenzione, se ce ne fosse bisogno, sul paradosso dell’assenza di illustrazioni nelle opere di Marino edite in vita sua, oppure semplicemente della mancanza di finezza e/o di originalità dei frontespizi, paradosso che rimanda alla storia della pubblicazione delle sue opere che, come si sa, per una ragione o per un’altra, vide la sua ideale programmazione urtarsi contro le contingenze. Anche se si lascia da parte il problema della Galeria in cui l’assenza delle incisioni previste priva il libro del suo fondamentale dialogo tra testo e immagine19, va ricordato il fatto che fallirono sia il progetto precoce di affidare a Bernardo Castello l’illustrazione di un libro di poemetti che non vide mai la luce, sia l’intento quindici anni dopo di affidare ad un incisore italiano l’illustrazione della Sampogna20. Ed è a contrario che si può misurare la crudeltà di questa carenza, paragonando la mancanza d’illustrazione a tutta pagina nella princeps dell’Adone con i frontespizi e/o le illustrazioni interne della Liberata o del Pastor fido, ma anche della Filli di Sciro o del Filarmindo21 ; oppure mettendo accanto all’illustrazione del frontespizio de La Italia consolata di Campeggi il frontespizio degli Epitalami in cui l’illustrazione si limita alla vistosa presenza centrale dell’emblema di Toussaint Du Bray ; oppure ancora pensando a ciò che sarebbero potute essere le illustrazioni interne della Sampogna eseguite da un Valesio dal quale Antonio Bruni ottenne che illustrasse ognuna delle eroidi delle sue Epistole eroiche (1634)22.
A compensare questa situazione intervengono le edizioni dell’Adone successive alla princeps che uscirono a Venezia per i tipi di Giacomo Sarzina con frontespizio inciso23. L’illustrazione a tutta pagina rappresenta il giovane cacciatore Adone seduto con un’asta nella mano destra, accanto al caro cane. Il grugno del cinghiale compare non lontano, tra le foglie degli anemoni che corrono lungo tre lati della pagina e formano nella parte superiore dell’illustrazione una corona di fiori alternati a dieci putti24. Di recente, M. A. Terzoli ha suggerito che la « F. » della menzione « F. Valesio », leggibile in basso a destra dell’incisione, potrebbe indicare non il nome di Francesco Valesio, ma l’abbreviazione convenzionale per « fecit »25. La studiosa ha proposto inoltre una lettura del frontespizio, che non solo mette in relazione l’illustrazione con l’episodio della morte e delle esequie di Adone nel poema26, ma propone anche un accostamento tra l’iconografia di Adone e quella di san Giovanni Battista27. L’incisione – eseguita nel delicato momento della ricezione romana del poema, tra la sua sospensione (risalente al 27 novembre 1624, per quanto non immediatamente promulgata) e la messa all’Indice (4 febbraio 1627), o forse ancor prima, tra la fine del 1623 e l’inizio del 1624 se risultasse valida la datazione entro marzo 1624 per l’edizione Sarzina s. d. in cui compare28 –, potrebbe dunque costituire un elemento della difesa dell’opera, tramite l’allusione a contenuti figurali che ne attesterebbero la dignità. In questa prospettiva ermeneutica, l’artista, che sia Giovanni Luigi Valesio oppure no, dimostrerebbe « una lettura attenta, e sottilmente interpretativa, del poema », echeggiandone così il complesso sincretismo29.
Mi ripropongo di tornare sulla questione nella seconda parte di questo studio dedicata al periodo 1620-1622 e nella quale si considereranno le relazioni dell’artista con i ceti romani nel secondo decennio del Seicento. Per ora, mi limito a notare che l’esame delle diverse firme delle incisioni dell’artista mi sembra non accreditare l’attribuzione dell’illustrazione dell’Adone a Giovanni Luigi. Infatti, e come risulta dal catalogo di V. Birke, nei casi in cui l’artista non firma col noto monogramma ma col nome « Valesio » per intero, il nome è sempre preceduto dall’articolo « il » e l’eventuale aggiunta della menzione « fece », « fecit » o « F. » non precede mai ma segue invece il nome (per esempio : « il Valesio fece »). La firma « F. Valesio » per Giovanni Luigi costituirebbe dunque un caso unico, mentre è ben documentata l’attività di Francesco in quegli anni in cui la sua firma compare sui frontespizi di diverse opere letterarie pubblicate non solo a Venezia ma anche presso Giacomo Sarzina30. In particolare, vanno rilevate le similitudini iconografiche tra il frontespizio illustrato dell’Adone e quello, firmato pure « F. Valesio », de La Musa lirica di Ferdinando Donno, pubblicata presso Sarzina nel 162031.
Non sono pervenute lettere di Marino a Valesio, che permetterebbero forse di valutare meglio i legami di stima e d’amicizia tra i due. Però se il nome di Valesio non figura come quello di Ludovico Carracci nelle lettere dell’inizio del soggiorno ravennate di Marino, in quello stesso periodo i nomi del pittore incisore e del poeta figurano insieme nelle raccolte tradizionalmente pubblicate a Bologna per nozze patrizie. Così, nel 1607, con la raccolta intitolata Nelle nozze de gl’Illustrissimi Signori Marchese Lodovico Fachenetti et Donna Violante di Correggio Austriaca (d’ora in poi : Nozze Facchinetti-Correggio), nel 1608, con la raccolta Nelle nozze de gl’Illustrissimi Signori il Signor Ferdinando Riario et la Signora Laura Pepoli (d’ora in poi : Nozze Riario-Pepoli) e nel 1609, con la raccolta Nelle nozze del Conte Ercole Pepoli et Donna Vittoria Cibò (d’ora in poi : Nozze Pepoli-Cibo) escono tre libri che interessano nel contempo la storia della produzione poetica di Marino e quella della produzione artistica e poetica di Valesio32. Il diagramma delle loro rispettive presenze nelle tre raccolte è d’altronde inversa : Marino apre le due prime raccolte, la prima con una canzone, la seconda con un sonetto solo, ma è assente nella terza33 ; Valesio non solo realizza i tre frontispizi (su disegno di L. Carracci nel primo caso), ma figura pure nelle due ultime raccolte tra i poeti contributori, prima con due sonetti e poi con un lungo componimento ed un sonetto.
Al di là di queste date, i nomi di Marino e di Valesio si separano, anche se il nome dell’uno e dell’altro resta legato a quel tipo di poesia encomiastica, Marino come si sa in quanto autore del libro degli Epitalami (1616), Valesio per il suo contributo ad altre raccolte pubblicate tra il 1608 e il 1620, ma anche in quanto editore di una raccolta illustrata da lui e pubblicata nel 1622 per le nozze di Nicolò Ludovisi, nipote di Gregorio XV, fratello del cardinale nipote Ludovico e figlio del conte Orazio di cui il Nostro era segretario34. Tralasciando qui la poesia per nozze del Marino – studiata in precedenza sia nel momento dell’elaborazione del corpus e della maturazione del libro sia nel momento della sua pubblicazione in Francia e in Italia35 –, mi soffermo ora sul doppio contributo di Valesio, incisore e poeta, a raccolte per nozze. Considero in particolare, in questa prima parte dello studio dedicata alla raccolte del 1607-160936, la genesi e lo statuto delle illustrazioni in questo tipo di libro, dal punto di vista del rapporto tra le illustrazioni stesse da una raccolta all’altra, ma anche dal punto di vista dei legami possibili tra l’illustrazione e i testi in seno ad una stessa raccolta.
1. Per quel che concerne le illustrazioni di raccolte per nozze, il catalogo delle incisioni di Valesio riveduto da V. Birke censisce un corpus di 5 frontispizi che vanno raggruppati da un punto di vista cronologico in due periodi, 1607-1609 e 1620-1622, periodi sui quali si organizza il mio discorso. Se è possibile che questo corpus delle incisioni sia stato più ampio37, è certo che per quanto concerne il corpus dei contributi poetici per nozze, dei testi sono stati perduti, data la logica stessa di una pratica della poesia d’occasione illustrata dalla Cicala, ovvero la raccolta delle proprie rime che Valesio pubblica nel 1622 con dedica al cardinale nipote Alessandro Ludovisi38.
Questi, a seconda dell’ordine cronologico della pubblicazione, i componimenti poetici di Valesio pubblicati in raccolte e reperiti da K. Takahashi39 : 1 e 2 : 1608, Nozze Riario-Pepoli : « Di Giovanni Valesio l’Invescato academico Selvaggio », Il vostro nome, o Ferdinando, o Laura, p. 51 (son.) e Sovra un’alpestre e solitaria balza, p. 52 (son.) ; 3 e 4 : 1608, Nozze Alfonso d’Este-Isabella di Savoia40 : « Di Giovanni Valesio l’Invescato academico Selvaggio », Or che sen fugge il verno a i lidi algenti, n. n. (son.) ; Di Savoia il gran sangue a[l] sangue estense (son.) ; 5 e 6 : 1609, Nozze Pepoli-Cibo : « Dell’Invescato academico Selvaggio », Le meraviglie, o peregrino errante, pp. 19-23 (canzonetta) e Su l’Italico Reno un novo Alcide, p. 24 (son.) ; 7 : 1620 : Nozze Filippo Aldrovandi-Isabella Pepoli41, « S’allude alla fronte del libro. Del Signor Giovan Luigi Valesio », Questi, che lacci son vaghi amorosi, n. n. (son.) ; 8 : Applausi poetici (Nozze Filippo Musotti-Giulia Ruini42), « [Del Signor Giovanni Valesio] », Filippo, o, s’a spiegar le glorie vostre, p. 63 (son.) ; 9 : 1622 : Nozze Nicolò Ludoviso-Isabella Gesualda43, « La Pittura. Epitalamio di Giovan Luigi Valesio », Peregrin cui felice alta ventura, n. n. (canzonetta).
A questi componimenti vanno aggiunti due sonetti della Cicala, « Per le nozze di una Signora Elena » e « Per le nozze della Signora N. Scala col Signor N. Orsi »44.
Per quanto mi riguarda, farò due osservazioni a proposito dei sonetti « per nozze » della Cicala : 1. il sonetto intitolato senz’altra precisazione « Per le nozze di una Signora Elena » (La bella greca, che il pastor troiano), fu infatti incluso nel 1609 nella raccolta per le nozze di Francesco Avoglio ed Elena Alidosi45 ; 2. il sonetto intitolato « Per le nozze della Signora N. Scala col Signor N. Orsi » invece mi risulta più difficile da situare, non solo perché non ho trovato traccia di una raccolta per quel matrimonio, ma anche perché, pure se la famiglia Orsi conta tra le grandi famiglie bolognesi e se alcuni tra i suoi membri fecero parte dei Gelati, l’indicazione dei nomi con la sola lettera « N » e la menzione del nome della sposa prima di quello dello sposo non corrispondono alle convenzioni delle raccolte ; si può dunque pensare o ad una decontestualizzazione volontaria, come per il sonetto precedente, o ad un argomento fittizio, nella linea delle rime d’occasione in cui la vena concettistica si alimenta alla fonte di una onomastica di fantasia46.
Inoltre, benché non esaustivo, lo spoglio delle raccolte per nozze che ho effettuato mi consente di aggiungere due sonetti a quelli censiti da K. Takahashi : 1. un sonetto di Valesio (Ecco al fin che la Gemma illustre e chiara) compare nella raccolta Nelle nozze de gl’Illustrissimi Signori il Signor Conte Ricciardo Pepoli e la Signora Contessa Diamante Lambertini47 ; 2. negli Applausi poetici (Nozze Filippo Musotti-Giulia Ruini), il sonetto Filippo, o s’a spiegar le glorie vostre, trascritto da Malvasia e riprodotto da K. Takahashi, è preceduto da un altro sonetto di Valesio, Spoglie e trofei di vincitori augusti (p. 62), col quale è appaiato, essendo indirizzato il primo alla sposa e il secondo allo sposo. Questo sonetto è interessante anche perché esistono due versioni, quella della raccolta, dedicata quindi ad una sposa, ed un’altra pubblicata nella Cicala e dedicata ad una monaca.
2. Parlare del doppio contributo di Valesio alle tre raccolte bolognesi per nozze pubblicate tra il 1607 e il 1609 invita innanzi tutto a considerare il ruolo delle accademie nella loro elaborazione. Infatti, se già in precedenza quel tipo di raccolta ebbe a che fare con l’iniziativa delle accademie, i dati esterni delle tre raccolte bastano ad indicare che la loro pubblicazione venne direttamente tutelata dalle accademie dei Gelati e/o dei Selvaggi48. Così, dopo la raccolta dei Gelati dedicata Al Signor Conte Ridolfo Campeggio detto il Rugginoso et alla Signora Pantasilea Catanea sposi illustrissimi gli accademici Gelati (1601)49, ed alcune altre in cui compaiono accademici Gelati50, la raccolta Facchinetti-Correggio è il prodotto della collaborazione tra i Gelati e la giovane Accademia dei Selvaggi fondata non più di qualche mese prima. Infatti, la produzione di quest’ultima viene accolta dalla più anziana quanto prestigiosa Accademia dei Gelati in seno ad un libro di cui quest’ultima determina la struttura, anche se il suo nome non viene riportato sul frontespizio come era avvenuto nel 160151. Bisognerà aspettare il 1618 perché esca un’altra raccolta col nome dei Gelati iscritto sul frontespizio52, ma nel frattempo e proprio sulla scia della raccolta del 1607, si trova in prima linea nelle raccolte del 1608 e del 1609 l’accademia dei Selvaggi, di sicuro desiderosa di affermarsi nel panorama accademico bolognese, tramite il forte impegno di Giovanni Capponi suo membro fondatore e più attivo53. La raccolta del 1607 appare a più d’un titolo come la raccolta ‘pilota’ delle due seguenti : il frontespizio delle raccolte del 1608 e del 1609 sono strettamente legati a quelli del 1607 come si vedrà ; Marino apre la raccolta del 1608 come nel 1607 ; Achillini occupa il secondo posto nelle raccolte del 1607 e del 1608, il primo in quella del 1609, causa forse l’assenza del poeta napoletano54 ; il suo ruolo rimane di primo piano nelle raccolte del 1608 e del 1609, le quali si valsero come nel 1607 del contributo notevole di Rinaldi55 e di personalità dei Gelati come Campeggi (nel 1608 e nel 1609), Caccianemici (nel 1608), Melchiorre Zoppio e Paolo Emilio Balzani (nel 1609) ; nella stessa guisa in cui un accademico Gelato chiude la raccolta del 1607, un accademico Selvaggio chiude quelle del 1608 e del 1609.
In ognuna delle tre raccolte la presenza dell’accademia dei Selvaggi si afferma con forza, sotto l’egida dei Gelati nel 1607, in un modo autonomo e vistoso nel 1608 in cui si succedono 15 contributi di 10 Selvaggi che formano così una sequenza compatta che occupa quasi la metà del libro56, in un modo più attenuato nel 1609 in cui 5 soltanto dei 25 contributori sono accademici Selvaggi e solo 4 contributi di 3 autori formano una breve sequenza di una quindicina di pagine, cioè non più di un quinto del libro57. Vanno considerati tuttavia fattori peculiari per l’ultima raccolta che contiene un rimando all’ambiente ferrarese58. Comunque, anche se questa terza raccolta (72 p.) rappresenta poco più della metà di quella del 1607 (136 p.), la sua mole è vicina a quella della raccolta del 1608 (88 p.) e più elevata di quella abituale, a cominciare dalla raccolta di 19 pagine pubblicata nel 1608 su probabile iniziativa di accademici Gelati per il matrimonio di Camillo Gessi, uno dei membri fondatori dei Gelati, con Laura Barbazza, sorella (?) di Andrea anch’egli accademico Gelato59.
Desiderosa d’altronde di affermare la propria immagine non solo a Bologna ma anche fuori, l’Accademia dei Selvaggi investe sui diversi fronti offerti dalla poesia d’occasione : nel 1607, non solo i Selvaggi cocelebrano con i Gelati il matrimonio di Lodovico Facchinetti con Violante da Correggio Austriaca, ma sono presenti in un volumetto per la monacazione di Lucida Oriana Pepoli in cui appare evidente la collaborazione con Achillini il quale chiude questa volta la raccolta con due sonetti60 ; nel 1608, fuori Bologna, celebrano il matrimonio di Alfonso d’Este e d’Isabella di Savoia in una raccolta dedicata al cardinale d’Este61. La presenza tra i contributori di questa raccolta non solo di Valesio ma anche di Lionello Spada illustra il posto degli artisti nel momento della fondazione dei Selvaggi, istituzione meno aristocratica dei Gelati, un posto confermato dalle due raccolte per nozze pubblicate nel 1609 : la raccolta Pepoli-Cibo che si apre col frontespizio di Valesio e si chiude con un sonetto dell’Elevato accademico Selvaggio, cioè lo Spada ; la raccolta pure ‘selvaggia’ ma molto più modesta (di 24 p.) per le nozze di Francesco Avoglio con Elena Alidosi, in cui si ritrovano, tra i cinque poeti, Valesio e Spada, mentre viene interrotta la serie dei frontespizi illustrati con personaggi e riappare il frontespizio tradizionale col blasone bipartito62.
1. Realizzate dunque per l’iniziativa delle accademie dei Gelati e dei Selvaggi, le tre raccolte pubblicate tra il 1607 e il 1609 meritano doppiamente attenzione : dal punto di vista testuale, per la loro ampiezza dovuta al numero dei contributori come a quello dei componimenti lunghi63, e dal punto di vista dei frontespizi, per la scelta dell’argomento mitologico che rompe con la tradizione bolognese vigente per questo tipo di raccolte. Infatti, il frontespizio tradizionale delle raccolte bolognesi per nozze si compone del titolo (che occupa la parte superiore della pagina), del blasone bipartito con le armi delle due famiglie, infine dei dati tipografici. Talvolta, il titolo è più o meno della stessa grandezza del blasone64, più spesso il blasone è ben più grande, specie quando viene inserito in una cornice ornamentale, come capita spesso, e allora misura più o meno il doppio del titolo65, ma in ogni caso la pagina viene suddivisa nello stesso modo. Le varianti concernono non tanto la formulazione o la disposizione del titolo, in cui sostanzialmente cambiano solo i nomi, quanto la rappresentazione del blasone bipartito, più o meno ornata, e che costituisce nella maggioranza dei casi l’unico elemento figurativo della pagina66. Ora, nelle tre raccolte il blasone bipartito viene sostituito da una composizione che rompe con la distribuzione tradizionale dello spazio e associa figure mitologiche con elementi particolari derivanti dalle armi delle famiglie67.
Va da sé il fatto che il disegno e la stampa dei frontespizi siano opera di artisti bolognesi come Ludovico Carraci e Valesio. Sono noti l’interesse dei letterati bolognesi in genere per la pittura e più particolarmente i legami dei Gelati con i Carracci68. Agostino Carracci aveva realizzato l’emblema dei Gelati che figurava pure nel frontespizio delle Ricreazioni amorose (1590) e delle Rime (1597) pubblicate dall’Accademia69 e fu Lucio Faberi, accademico Gelato oltre che membro degli Incamminati a stendere l’orazione funebre pubblicata ne Il funerale d’Agostin Carraccio (1503), opuscolo che rievoca la cerimonia d’omaggio dell’Accademia del Disegno per la morte dell’artista70. La collaborazione tra Ludovico Carracci che fece il disegno del primo frontespizio del 1607 (« L. C. in. » in basso nell’angolo sinistro) e Valesio che l’incise (il suo monogramma nell’angolo opposto) anch’essa va da sé, essendo attestati sin dal 1601 i legami di Valesio con Agostino e Ludovico presso cui si formò nell’arte del disegno e dell’incisione71. Valesio e Ludovico facevano parte entrambi degli Incamminati il cui emblema fu realizzato da Valesio. Infine, va sempre da sé il fatto che Valesio sia l’unico autore dei frontespizi del 1608 e del 1609 di cui fece il disegno e l’incisione : basta pensare ai suoi stretti legami con Capponi e al suo posto accanto a lui nel momento della fondazione dei Selvaggi, alla fiducia di Campeggi proprio in quel giro di anni come dopo, e in generale alla sua attività d’illustratore non solo come incisore ma anche come autore dei disegni preparatori.
Ciò detto, data appunto l’originalità di questi tre frontespizi, mi piacerebbe potere precisare come furono scelti gli argomenti, fissati gli elementi emblematici, precisata la composizione d’insieme, in particolare nel primo caso che costituisce oggettivamente il modello dei due seguenti. E come va situata inoltre la menzione « L. C. in. », tra concertazione con l’artista e decisione degli editori. In mancanza di dati materiali sul momento dell’elaborazione delle raccolte, tra l’altro prive come si è detto di apparati dedicatori, ci si accontenterà in queste pagine di quel che ci offre l’analisi interna delle raccolte per sondare la questione dei rapporti tra i testi e le illustrazioni dei frontespizi.
2. L’illustrazione della prima raccolta pubblicata nel 1607 per il matrimonio di Lodovico Facchinetti e Violante da Correggio Austriaca fa letteralmente esplodere i dati della disposizione tradizionale72. Infatti, non solo viene introdotta una scena mitologica (nella fattispecie Imeneo che avanza con la face nella mano sinistra e tenendo con l’altra mano Amore dagli occhi bendati), ma gli emblemi sono estratti dai blasoni rispettivi delle due famiglie e vengono a comporre come un’unica cornice che occupa tutta la pagina e include il titolo. Non si tratta più di una bipartizione nella quale le armi di ogni famiglia formano un nuovo insieme ma rimangono ben individuabili, si tratta di una libera ridistribuzione dei vari emblemi in una composizione unica e originale : due rami con foglie e frutti ricordano il noce su campo d’argento del blasone dei Facchinetti ; essi si alzano simmetricamente da ogni lato della cornice oblunga per unire l’aquila col leone dei Correggio da Parma ; all’unica aquila su campo d’oro e ai due leoni rampanti su campo d’azzurro del blasone di questa famiglia l’illustrazione sostituisce due aquile che occupano ognuna gli angoli superiori della cornice mentre i due leoni occupano gli angoli inferiori ; che sia, o meno, l’indizio della volontà di esibire l’originalità dell’invenzione, un blasone compare nell’illustrazione (il blasone dei Facchinetti), ma esso è di piccole dimensioni e trattato come un elemento funzionale dato che funge da fibbia del drappeggio sul quale è iscritto il titolo della raccolta, drappeggio sostenuto da ogni lato dagli artigli delle aquile e che risulta dunque incluso come le figure mitologiche all’interno della cornice che corre lungo i quattro lati della pagina ; quanto ai gigli che sormontano la testa di ogni leone nel blasone dei Correggio da Parma, essi entrano nella composizione della piccola scena mitologica, poiché due putti sembrano nel contempo distogliere i gigli dalla testa dei leoni e guardare Imeneo con timore, con probabile allusione all’imminente deflorazione.
S’inverte quindi il rapporto tra gli elementi dell’abituale composizione ornamentale che accompagna la presenza del blasone bipartito : non sono elementi ornamentali che circondano i blasoni sui quali figurano gli emblemi rispettivi delle famiglie, ma sono questi stessi emblemi che compongono una cornice ornamentale intorno alle due divinità la cui riunione è emblematica dell’amore casto. La portata encomiastica dell’insieme è esaltata dalla qualità del tratto dell’incisore. Il lavoro delle ombre conferisce movimento alle ali delle aquile e profondità al manto di Imeneo, attrae lo sguardo sui contrasti del fogliame di noce, accompagnano la mossa dei putti che sembrano indietreggiare. Il significato è chiaro : il fogliame e i frutti dichiarano la fecondità spirituale e carnale della famiglia colpita di recente dalla morte del giovane cardinale Giovanni Antonio nel 1606 ; il legame che questi floridi rami stabiliscono tra le aquile e il leoni annuncia la prole che nascerà dall’unione delle due famiglie ; la forza e la bellezza d’Imeneo adulto che guida fermamente Amore cieco fanciullo dichiara d’altra parte il carattere casto e sacro del matrimonio.
Radicalmente diversa dai frontespizi tradizionali delle raccolte per nozze, la composizione del nostro frontespizio, come d’altronde l’esaltazione encomiastica dell’albero dei Facchinetti, va ricondotta all’ideazione di un altro frontespizio inciso da Valesio, quello per la prima edizione del Filarmindo nel 1605. Infatti, l’albero dei Facchinetti è qui rappresentato tre volte : figura nel blasone posto al centro del terzo superiore della pagina sormontato da un cappello cardinalizio, ma figura anche due altre volte in dimensioni maggiori, da ogni lato della pagina dove si elevano i tronchi di due alberi, i cui folti fogliami si confondono per occupare l’intero terzo superiore della pagina e fare quindi da sfondo al blasone dall’emblema del noce, molto più piccolo ma anche molto più stilizzato. Inoltre, i tronchi degli alberi formano i lati di una cornice, qui rettangolare e non oblunga dal momento che i noci sono fermamente piantati nel suolo, ma dentro la quale si trova già un drappeggio sul quale sono iscritti il titolo dell’opera, il nome dell’autore e quello del dedicatario. La forma del drappeggio è simile, ma nel frontespizio del Filarmindo esso è trattenuto dai rami degli alberi73.
I due frontespizi si rassomigliano dunque dal punto di vista della composizione, ma in quello della raccolta viene aggiunta alla simbologia del folto fogliame quella dei frutti : questa volta infatti ai tronchi nudi degli alberi si sostuiscono rami carichi di frutti. Nel frontespizio del Filarmindo l’altezza dei fusti, funzionale a sorreggere il drappeggio, potrebbe anche rimandare all’emblema dei Gelati, di cui il giovane cardinale Giovanni Antonio era membro e protettore a un tempo. Così verrebbero a fondersi l’allusione all’attività intellettuale (col rinvio alla foresta dei Gelati dagli alti fusti denudati) e quella alle mete spirituali (col rigoglioso fogliame emblematico dell’attivo ministero religioso). In entrambi i casi, inclino ad attribuire agli editori accademici più che all’artista la gestione del motivo araldico dell’albero. Inoltre, immagino che si debba pensare non ad una mera esigenza di variazione decorativa, bensì all’intento di distinguere l’esaltazione dello statuto ecclesiastico del dedicatario, nel caso del Filarmindo, dalla dimensione nuziale dell’encomio nel caso della raccolta. Certo, nei blasoni, la presenza dei frutti è del tutto convenzionale e la rappresentazione dei rami di qualsiasi albero fruttifero implica l’alternanza di foglie e frutti ; ma mi pare che la simbologia dei rami fruttiferi sia particolarmente forte nel caso di nozze da cui dipende l’avvenire della famiglia. Tale simbologia si accorderebbe quindi con la dimensione del tutto particolare dell’encomio in questa raccolta, l’integrazione cioè del ricordo del giovane cardinale morto nel 1606 alla lode dei Facchinetti e l’elogio della doppia vigoria della stirpe, quella spirituale testimoniata dalle sue grandi figure ecclesiastiche, ma anche naturale, col succedersi delle generazioni consolidata dai matrimoni. Così, oltre la menzione ricorrente della gloriosa memoria di Innocenzo IX presente sin dall’inizio con i due sonetti di Achillini74, oltre la declinazione in senso prioritariamente ecclesiastico delle vaticinazioni sulla prole nascitura75, si impone con forza nella raccolta il ricordo commosso di Giovanni Antonio Jr, accademico Gelato come il grande prozio76.
È difficile invece dire se l’invenzione di una scenetta mitologica derivi nel nostro frontespizio dallo spazio concesso nei testi della raccolta a queste due divinità delle quali sono per altro così diffusi nella poesia come nelle arti gli attributi e la storia. Nei testi, da un punto di vista quantitativo, la frequenza delle menzioni di Imeneo è certo notevole, ma risulta in parte dall’ampiezza della raccolta stessa. Imeneo d’altronde è ben presente nelle raccolte precedenti e questa presenza si accompagna a diverse variazioni sui dati del codice. Così, per limitarsi alle raccolte vicine a quella studiata, nella raccolta dei Gelati per il matrimonio di Ridolfo Campeggi (1601), in un dialogo tra Amore, in visita presso i Gelati, e l’Accademia, che si stupisce di vederlo in un luogo dove regna la virtù, il dio mostra come pegno della sua castità la face d’Imeneo che tiene in mano e le cui scintille stanno per incendiare il cuore di Pantasilea77 ; e nello stesso anno, una smilza raccolta di sei componimenti anonimi comprende una canzonetta in forma di invocazione ad Imeneo affinché venga a raggiungere le muse già presenti, opera probabile del Caccianemici78. Nel 1605, Imeneo è nuovamente presente nelle due raccolte pubblicate quell’anno, in un caso nel primo testo della raccolta79, nell’altro caso anche in apertura e poi di nuovo in una canzonetta di Caccianemici ed in un madrigale di Paolo Emilio Balzani80.
Nella nostra raccolta, va notato globalmente che la maggior parte delle menzioni d’Imeneo non offre niente di specifico rispetto ai dati generici sul dio, le sue funzioni e i suoi attributi81 ed è proprio la filigrana di Catullo ad essere reperibile qua e là nelle brevi invocazioni al dio o nelle evocazioni della sua persona82. Non c’è differenza notevole, né quantativamente né qualitativamente, nei rimandi fatti dai Gelati o dai Selvaggi. Queste menzioni, d’altronde, rimandano talora al nome proprio della divinità talora al nome comune sinonimo di matrimonio83. La persona d’Imeneo è evocata in un modo del tutto convenzionale: si ricorda il suo ruolo presso gli sposi84 ; se non viene evocata la corona di fiori85, si parla del manto rosso e del velo dorato 86, e ben inteso della face87 ; lo si associa nella maggior parte dei casi ad altre divinità, Venere o Giunone, Amore, le Grazie od anche alla truppa degli amorini88 ; ancora, è solo un elemento nella composizione di un insieme incentrato ad esempio su una cronografia, come in una canzone di Lorenzo Arrighi89. Così, da una parte, si manifesta in modo ricorrente una corrispondenza, nei limiti d’un verso o due, tra l’argomento del frontespizio e la menzione nei testi della venuta d’Imeneo : l’uso dei verbi ‘venire’ o ‘scendere’ nel contempo rimanda alla tradizione letteraria di Catullo e di Giovanni Secondo ed è in perfetto adeguamento col frontespizio in cui le due divinità si fanno avanti camminando su una nube. Tuttavia, si trova una sola menzione della coppia formata da Imeneo ed Amore, nei limiti dell’apertura di un sonetto, opera per di più di un contributore probabilmente minore, Alcide Bonaparti, di cui non risulta che appartenesse ai Gelati90.
Tre casi però attirano l’attenzione, tutti e tre componimenti lunghi, che considererò seguendo il filo della raccolta. Il primo caso è quello della canzone d’apertura di Marino. Il poeta immagina che Venere, avvertita da Amore dell’evento che si prepara, lasci Cipro e la cura della sua toilette per venire a Bologna e partecipare alle nozze con un discorso rivolto agli sposi : l’allusione fatta ad Imeneo – prima da Amore che registra la sua vittoria poi da Venere che lo sollecita a darsi da fare – è una mera traduzione dell’epitalamio d’Onorio e Maria ipotesto della canzone91. Se la mitologia qui ha la parte principale, l’attenzione si rivolge ad altri dei, come accade anche nelle ottave di Campeggi dedicate ad una scappatella di Amore durante la quale elegge la viola regina dei fiori a scapito della rosa recidiva che lo ha punto come aveva punto la madre.
Il secondo caso è quello di una canzone dell’Arido accademico Gelato (Ippolito Cattanei). Questi immagina che sulla terra sia scoppiata una lite, di cui Mercurio informa Giove : Imeneo ed Amore, l’uno con la face ed il velo l’altro con i dardi e l’arco, pretendono ognuno di essere quello che reca più gioia nel mondo. Appena Giove decreta che vinca il migliore, ognuno dei due armato dei rispettivi attributi colpisce simultaneamente Lodovico e Violante, con universale allegria92. Il racconto delinea così successivamente due immagini che corrispondono ai due tempi della lite : l. Imeneo ed Amore contrastano ; 2. insieme colpiscono i futuri sposi. Si notano dunque forti similitudini tra la canzone e il frontespizio, ma non si può andare oltre. Il temperamento bellicoso di Amore è un dato così comune che non è necessario considerare che l’autore della canzone si sia ispirato al frontespizio, mentre il fatto che il frontespizio rappresenti proprio un momento di cui la canzone non parla, e che sarebbe quello della riconciliazione tra Imeneo ed Amore, è contrario al rapporto abituale tra un testo e la sua illustrazione, la quale non ha vocazione a colmare un vuoto del testo, ad inventare ciò che è assente nel testo, bensì ad attenersi alle informazioni generali o particolari che esso rinchiude.
Il terzo caso è quello dei tre lunghi componimenti di Capponi in cui è forte l’attenzione dell’autore alle risorse del doppio uso della parola « imeneo » come nome comune e nome proprio che accompagnano l’elevarsi del registro da una poesia all’altra. L’uso del nome comune segna la gradazione tramite un gioco di variazioni dell’aggettivo nei sintagmi composti del nome e del suo epiteto93. L’uso del nome proprio viene limitato ai due ultimi componimenti come per segnare forse la frontiera tra il primo componimento ambientato in campagna e gli ultimi due situati in città, luogo confacente alla presenza della divinità tutelare delle nozze illustri. Tuttavia, se Imeneo assume una parte strutturante nel succedersi dei tre contributi e viene, per così dire, a dare risalto alla firma di Capponi, non c’è niente che leghi strettamente queste poesie al frontespizio se non la presenza di un personaggio che nei testi non è associato ad Amore e non dà luogo a nessuno sviluppo narrativo particolare.
Che cosa si può ricavare da questo esame comparato ? Se ipotizziamo la situazione abituale del libro di un solo autore, dove il testo è anteriore all’illustrazione del libro in cui viene pubblicato, diremo che è probabilmente la ricorrenza delle allusioni ad Imeneo nei testi ad aver suggerito agli editori di farlo rappresentare nel frontespizio, e che il fatto di associarlo ad Amore è sia un’invenzione loro sia del Carracci. Mancano invece saldi argomenti per dedurre che l’associazione dei due personaggi mitologici derivi a posteriori da un testo in particolare. L’ipotesi più fondata, se non quella più allettante, mi pare quindi la seguente : che gli editori e/o L. Carracci abbiano semplicemente attinto l’idea di associare Imeneo ad Amore dal fondo comune della topica mitografica. Tuttavia la partecipazione diretta di Capponi all’elaborazione della raccolta come i suoi legami con Valesio e probabilmente i Carracci potrebbero invitare ad andare oltre e pensare che fosse stato lui a proporre l’argomento del frontespizio. Seguendo questa ipotesi, si potrebbe anche pensare che la scelta dell’argomento del disegno sia stata per così dire una scelta di compromesso nella collaborazione tra i Gelati e i Selvaggi : da una parte, la novità del frontespizio e la bellezza dell’incisione fanno onore in ogni caso a chi offre e a chi riceve la raccolta ; d’altra parte, se i Gelati avessero pubblicato la raccolta da soli, questa forse avrebbe avuto come illustrazione o il blasone bipartito delle famiglie (come nella raccolta per il Campeggi del 1601) o una composizione in cui avrebbe figurato l’emblema della loro Accademia (come sarà il caso nella raccolta per il Duglioli del 1618)94. Aggiungo infine che, dato che la pubblicazione di queste raccolte collettive deve essere rapida e la realizzazione del disegno doveva andare di pari passo con la raccolta dei contributi, non va escluso, secondo me, che un testo come il sonetto di A. Bonaparti si fosse ispirato al frontespizio (che questo autore avesse visto il disegno o avuto semplicemente conoscenza dell’argomento scelto per l’illustrazione). Una questione, quella della derivazione dei testi dal frontrespizio, che si ritrova nelle raccolte successive.
3. Nella raccolta pubblicata nel 1608 per le nozze di Ferdinando Riario e di Laura Pepoli, il frontespizio questa volta è non solo inciso ma anche disegnato da Valesio95. L’artista riprende le stesse figure centrali di Imeneo ed Amore, ma afferma con forza e in diversi modi l’originalità della sua illustrazione rispetto al disegno precedente di Ludovico Carracci. La composizione d’insieme come il trattamento dello spazio è radicalmente diversa : la nube posta in basso nell’incisione precedente (proprio al di sopra dei dati tipografici) è più larga e si trova più in alto, in modo da dividere la pagina in due spazi di simile ampiezza. Lo spazio superiore, la cui altezza misura circa nove decimi dello spazio inferiore, è occupato dal titolo iscritto nell’ovale formato da due palme e affiancato a ogni lato da un gruppo di quattro putti disposti verticalmente l’uno sull’altro. Lo spazio inferiore è occupato da Imeneo seduto su un masso e da Amore, raffigurato in piedi e che tiene con una mano una giovane pianta di lauro (la sposa si chiama Laura) e con l’altra una rosa (emblema dei Riario). Dietro, al livello della testa di Imeneo e della sommità del lauro, si vede la nube, mentre qualche arboscello e piantina, nell’angolo opposto a quello dove è seduto Imeneo, evocano il paesaggio naturale di una radura. Il contrasto, dal punto di vista della dinamica, tra Imeneo ed Amore fermi da una parte e i putti, alcuni dei quali sembrano appena giunti e ancora fendere l’aria, è reso dalle chiome mosse dal vento. L’originalità dell’ideazione si manifesta anche nel modo in cui sono trattati i blasoni : Valesio ha scelto di rappresentare i due blasoni separati ma posti l’uno di fronte all’altro, negli angoli superiori della pagina dove sono sorretti da putti (uno a sinistra per il blasone dei Riario, due a destra per quello dei Pepoli). Gli emblemi animali e floreali sono disposti anch’essi da ogni lato e gli uni di fronte agli altri, ma sono sorretti dai putti di modo che sembrano sul punto quasi di essere riuniti. Risulta originale anche la rappresentazione di Imeneo ed Amore : Valesio come Carracci cura la rappresentazione della chioma riccia e coronata del dio, del manto e dei calzari ; ma mentre Carracci aveva munito Imeneo della sola face, Valesio mette nella sua mano sinistra il famoso velo col quale in questo caso lega l’innesto della rosa al lauro ; il nodo che unisce strettamente le due piante costituisce il centro geometrico dello spazio inferiore della pagina, la cui mediana verticale è disegnata dal lauro e dallo stelo della rosa ; quanto ad Amore il suo corpo allungato trasforma in un adolescente il bimbo paffuto di prima96.
Dal punto di vista dell’invenzione, si notano dunque due importanti cambiamenti nel rappresentare la coppia formata da Imeneo ed Amore : 1. gli dei non compaiono più su una nube, situazione che echeggiava le rappresentazioni allegoriche delle festività nuziali, ma sono sulla terra, in un ambiente naturale, ed Imeneo è seduto su un masso ; 2. gli dei sono occupati ad innestare la rosa al lauro. A prima vista, l’ampio repertorio iconografico è sufficiente perché Valesio vi attinga elementi di originalità che gli permettano di distinguersi rispetto a Carracci : Imeneo seduto rimanda ad un atteggiamento topico nei libri con figure come nella poesia, quello per esempio dei musici seduti su un masso, una balza o a piedi d’un albero97 ; il lauro rimanda al nome della sposa e la rosa all’emblema dei Riario ; infine, il tema dell’innesto è quasi scontato nella celebrazione dell’unione tra due famiglie98. Bisogna tuttavia guardare più da vicino.
Come nella raccolta precedente, se si eccettua la canzone di Capponi sulla quale si tornerà, le menzioni di Imeneo sono brevi e convenzionali. Tutt’al più si nota che un solo caso rimanda alla face del dio99, mentre le altre cinque occorrenze rimandano al velo e/o al potere di legare gli sposi, la cui rappresentazione è enfatizzata dall’illustrazione100 : l’assenza di particolari in quei pochi testi non consente di andare più in là. Quanto ai due sonetti di Valesio stesso, i quali ovviamente attirano l’attenzione dato il doppio statuto del loro autore nella raccolta, entrambi lasciano spazio al « nodo » coniugale, ma senza rimandare in alcun modo all’illustrazione del frontespizio : nel primo sonetto, il nome d’Imeneo non viene pronunciato dall’autore quando questi evoca tra gli auguri agli sposi la solidità e la fecondità della loro unione (« Spiri solo d’Amor lieta e dolce aura, / Scenda veloce da i celesti rai ; /Vi stringa entrambi e non vi sciolga mai / Quel nodo ond’anco il Ciel s’empie e ristaura […] »101) ; nel secondo sonetto, il dio è presente con Amore, ma tra altre divinità di cui la Fama osserva i balli (« E volta [i. e. la Fama] là dove superba s’alza / Felsina bella in ricco albergo e fido, / Scender vide Imeneo lieto e Cupido / E con le suore Aglaia ignuda e scalza. / Danzan tutti al suon d’aurata lira »102).
Il fatto che Valesio qui non abbia correlato come farà in seguito i suoi testi all’illustrazione può spiegarsi in diversi modi. Si può pensare che l’artista semplicemente non abbia pensato a trar vantaggio da questo doppio statuto di artista e di poeta, oppure che non abbia voluto farlo nel momento particolare del suo ingresso nell’Accademia dei Selvaggi, oppure ancora, anche se la spiegazione pare un po’ sofisticata, che abbia deliberatamente deciso di non farlo per suggerire così indirettamente l’elegante artificio di questo modo di procedere. Comunque, e quale che ne sia la cagione, sceglie nel primo sonetto di parlare dell’aura d’Amore ma non della persona del dio, del nodo matrimoniale ma non della persona d’Imeneo (« Spiri solo d’Amor lieta e dolce aura, / Scenda veloce da i celesti rai ; / Vi stringa entrambi e non si sciolga mai / Quel nodo ond’anche il Ciel s’empie e ristaura ») ; e nel secondo sonetto, dove introduce questa volta le persone dei due dei, forgia un verso che non rimanda per niente all’invenzione dell’illustrazione del 1608 ma che invece, estratto dal suo contesto, potrebbe venir letto come una legenda dell’illustrazione del 1607 (« Scender […] Imeneo lieto e Cupido »)103.
La canzone Venere di Capponi solleva un problema diverso. Questa canzone di undici pagine, la cui lunghezza è quindi paragonabile a quella degli idilli o degli epitalami allora in voga, si ispira da molto vicino all’epitalamio di Claudiano per Pallade e Celerina e pone perciò il problema dei suoi rapporti con l’epitalamio di Marino Venere pronuba, composto nello stesso periodo e probabilmente nel 1608 per il matrimonio di Giovan Carlo Doria. Non entro ora nell’analisi dell’accurato lavoro tra traduzione e variazione col quale ognuno dei due poeti esibisce la propria arte di riscrivere in maniera innovativa, né nella questione della precedenza del Marino e della conoscenza o no che Capponi poté avere di Venere pronuba ; mi concentro piuttosto sul breve passo in cui Venere dopo aver cercato a lungo Imeneo lo scopre finalmente sotto un platano. Ora, né Claudiano (« platano namque ille sub alta […] ») né Marino (« Eccolo alfine / Ch’ al’ ombra d’un gran platano ») precisano esplicitamente la posizione del dio che sta suonando il flauto sotto un platano, o sdraiato o seduto o in piedi, mentre Capponi presenta un’altra immagine di Imeneo, seduto sull’erba, forse appoggiato ad un albero (ma questo non vien detto), e mentre suona non il flauto ma la lira (« Quando là ve più folta / È l’erba tenerella, Seder vide Imeneo romito e solo »)104. Nella continuazione logica di queste scelte descrittive, Claudiano come Marino mettono in rilievo solo la sorpresa di Imeneo all’arrivo di Venere (« Restitit, ut vidit Venerem, digitisque remissis / Ad terram tacito defluxit fistula lapsu » e « Ma come vide l’amorosa dea / Ristette, e dala man stupida e lenta, / La fistula sonora /Ammutolita a piè lasciò cadersi ») mentre Capponi scompigliando la successione degli elementi descrittivi insiste sulla deferenza più che sulla sorpresa di Imeneo e precisa quindi che il dio si alza (« A l’improviso arrivo / De la dea, riverente / Lasciò l’opra imperfetta e sorse in piedi »).
Data l’importanza strategica di una riscrittura come questa per Capponi, impegnato nel campo dell’idillio come dei componimenti epitalamici, non va scartata l’ipotesi che la scelta di rappresentare nel frontespizio Imeneo seduto derivi da questo passo della canzone, sia che Valesio abbia voluto salutare così l’arte dell’emulazione poetica dell’amico sia che Capponi stesso glielo abbia suggerito. Vengono però a contraddire questa ipotesi almeno due argomenti : 1. lo scarto assoluto tra le due situazioni (nella canzone l’incontro di Venere con Imeneo occupato a suonare la lira e nell’illustrazione Imeneo ed Amore occupati ad innestare la rosa sul lauro) ; 2. la necessità pratica di dare comunque ad Imeneo una posizione altra che in piedi, data la differenza di altezza tra lui, da una parte, ed Amore e l’arboscello da innestare, dall’altra (in un frontespizio posteriore Valesio risolve il problema dando ad Imeneo una posizione nel contempo più comoda e più naturale per stringere un nodo di questa posizione seduta e per di più con una sola mano libera dato che l’altra tiene la face105).
L’ultima strofa della canzone Venere, come il sonetto che segue, sono fondati sul motivo dell’innesto della rosa sul lauro, motivo che costituisce, come si è detto, la seconda importante innovazione del frontespizio in confronto con quello precedente. In generale nella raccolta, che si tratti di componimenti brevi o di ampie narrazioni, la rosa e il lauro fioriscono abbondantemente senza che c’entri per questo il motivo dell’innesto. Così, non c’è niente di comune tra l’illustrazione del frontespizio e le poesie di Lorenzo Colli (8 p.) e di Campeggi (13 p.) che, immettendo parimenti in un giardino neocortese il mondo della mitologia, immaginano rispettivamente, il primo un bel lauro che canta le lodi degli sposi e predice loro un radioso avvenire, il secondo un lauro e un rosaio ugualmente splendidi, a piè dei quali stanno addormentati i futuri sposi che Amore sta per colpire106. Tuttavia, questo stesso motivo dell’innesto è alla base di due madrigali e di due sonetti su cui conviene ora soffermarsi.
La brevità propria del madrigale e il carattere necessariamente limitato delle informazioni concrete che esso veicola mettono in risalto nelle due poesie seguente i versi iniziali che sembrano partire dall’illustrazione del frontespizio per impostare i dati del concetto conclusivo :
Ove ten vai sì bella e sì vezzosa,
O superbetta Clori ?
Forse ne’ prati a gareggiar co’ fiori ?
Ecco, ti sfida una fulminea Rosa,
Che regina pomposa,
Sopra un vergine Lauro Amore incalma ;
Onde, trafitta l’alma
La dea di novo stral, di novi amori,
Spera in nova tenzone
Di rigodersi il bel rinato Adone.
Volle su ’l Reno altero
Innestar dolce Amore
L’arbor di Febo e di Ciprigna il fiore.
Ma quando il cieco men se n’avvedea,
Congiunse Apollo insieme e Citerea.107
Nel primo madrigale il fatto di declinare il motivo ricorrente della rosa nei termini dell’innesto di cui è autore Amore potrebbe indicare che il poeta intende alludere al frontespizio (si notino l’impiego e il posto del verbo « incalmare »)108. Nel secondo madrigale, che ha la brevità dell’epigramma, l’effetto di sorpresa, che produce lo scarto tra l’enunciato dei primi tre versi e quello dei due ultimi, è ovviamente più efficace se i primi versi si presentano come una lettura dell’illustrazione del frontespizio.
Se, nei due sonetti seguenti – il primo di Capponi e il secondo di Morandi – si può anche parlare di correlazioni molto probabili, riesce però difficile decidere in che senso :
Nel giardin de le Grazie e de gli Amori,
Ov’ogn’erba, ogni fior sospira amante,
Sorgean due belle e gloriose piante,
Carche di ricchi e pellegrini onori.
Rosa era l’una, in cui vedeansi i fiori,
Benché fugaci, aprire il sen stellante ;
L’altr’era un Lauro, le cui verdi e [sante]
Chiome scoprieno eterni i lor favori.
Ma per far più superbo il bel giardino,
Dovea il Lauro fiorir, dovea la Rosa
Ispuntar men caduco il suo rubino.
E però ne formò l’Arte ingegnosa,
Ambe insieme inestando Amor divino,
Rododafne bellissima amorosa.
Ne’ begli orti de l’alba in paradiso
Colse la dea più bella il più bel fiore,
E su gli aurati crin d’aureo splendore
Il pose, emulo a i fior del suo bel viso ;
Indi, mentre di lei nel grembo assiso
Pargoleggiava, insidioso Amore
Rapillo, ed al suo stral dienne vigore
Di piuma in vece, ond’ha mill’alme ucciso.
Or poscia al più sublime e vago Alloro,
Che di smeraldo i casti rami infoglie,
L’inesta. O, d’Amor novo alto lavoro !
Quinci tosto averrà che ne germoglie
La bella Rosa da le foglie d’Oro,
Ricca di sempre verdeggianti spoglie. 109
Il sonetto di Capponi si serve innanzi tutto della struttura strofica per rendere l’idea che i più begli ornamenti del giardino allegorico non abbiano ancora raggiunto la loro perfezione : alla parola « rododafne », che esalta l’aura latina degna della genealogia delle illustri famiglie, è affidata l’effetto della ‘pointe’ colla quale nell’ultima terzina si dissolve l’attesa preparata precedentemente e si colmano le imperfezioni che la natura impone alle piante anche più belle (la rosa è caduca) o più robuste (il lauro non si pregia di fiori splendidi). Questo modo di mettere in rilievo la parola insolita tramite il costrutto del sonetto ha il suo corrispondente figurativo nel posto centrale dato alla pianta nuova, che risulta dall’unione delle due altre, situata all’incrociarsi delle linee geometriche nel frontespizio : la cima dello stelo del giovane lauro, che tocca la base dell’ovale (fatto di fogliami intrecciati) nel quale il titolo è iscritto, si trova al centro della pagina ; il nodo che tien fermo l’innesto è quasi al centro delle diagonali dello spazio inferiore della pagina che si situa sul velo col quale si legano la rosa e il lauro. Il sonetto di Morandi ha tutt’altri fondamenti : il poeta inventa una specie di piccola fiaba mitologica in cui l’azione di Amore, indicata nei versi della prima terzina, trova le condizioni del suo realizzarsi nel fatto che il dio, che ha rapito a Venere la rosa di cui lei si ornava i capelli, si dà premura di innestarla tramite il suo dardo sul lauro dove prospererà.
Nessun dato interno consente veramente di determinare il senso delle relazioni intertestuali tra l’illustrazione (V.) e questi due sonetti (C. e M.) che sembrano tuttavia effettive. Se si pensa alla parte decisiva di Capponi nell’elaborazione della raccolta, si propende a credere che il suo sonetto sia anteriore all’illustrazione, come pure al sonetto di Morandi. Ma, dato che esistono non uno ma due sonetti molto vicini nella loro ispirazione (si noti la similitude degli incipit), si può anche pensare, sebbene Imeneo sia assente in entrambi, che ognuno dei due sonetti esibisca la propria originalità a partire dai suggerimenti dell’illustrazione (V.), oppure che il sonetto di Morandi (M.) si iscriva in un rapporto d’emulazione con quello di Capponi (C.). Detto altrimenti, non va esclusa nessuna delle possibilità seguenti : 1. C. > V. e M. ; 2. V. > C. e M. ; 3. V. > C. > M. Propendo tuttavia per la prima ipotesi, data l’autorità di Capponi in seno ai Selvaggi, ma anche la valenza diciamo di ‘trovata’ emblemetica dell’intera raccolta insita nell’ultimo verso del suo sonetto e nella parola « rododafne ». Infatti, l’introduzione nell’ultima strofa di Venere del motivo dell’innesto – assente dal modello di Claudiano e senza legame con l’economia generale della canzone – funge da transizione col sonetto che segue, e costituisce così una variazione che prelude alla ripresa del motivo nel sonetto : « Dal vostro fianco attende / il Reno, o coppia illustre, / Prole che de’ grand’avi i fatti agguaglia. / […] / Sagli tu ardito , sagli / Garzon questo bel Lauro, / E la tua Rosa d’auro / Su’l bellissimo Tronco a tempo incalma. / E tu la dolce salma, / Lauro, non ricusar, che fiorirai / E frondi e fiori eternamente avrai »110.
4. L’illustrazione della raccolta pubblicata nel 1609 per le nozze d’Ercole Pepoli e Vittoria Cibo rompe in diversi modi con le due illustrazioni precedenti. Niente dei né antichità questa volta, salvo putti che non suggeriscono un contesto antico bensì contribuiscono a dar risalto ad altri elementi della rappresentazione. Nessuna nube, nessuna vera divisione tra cielo e terra, ma un’unità costruita intorno ad una maestosa palma che parte dal basso della pagina, drizza il suo tronco fino ai due terzi della sua altezza e spande in alto un lussureggiante fogliame che riempie interamente la larghezza del foglio. Il titolo della raccolta è inciso sul tronco stesso della palma. Tre putti svolazzano tra i rami che escono con impeto dal tronco e le curve delle loro ali sembrano mescolarsi a quelle del fogliame ed accentuarne l’agitazione. Unendo secondo una stessa linea verticale le diverse parti della rappresentazione, uno dei putti ha strappato una palma con cui si diverte a toccare la cima della testa del personaggio principale, in piedi contro l’albero che stringe col braccio sinistro. La bellezza del personaggio è quella stessa di Imeneo, ma il suo moderno vestito da cerimonia, il suo cavallo riccamente addobbato, la sua spada, il suo casco col cimiero dei Pepoli dichiarano che si tratta dello sposo. Un putto gioca col suo casco, un altro cavalca il suo cavallo a dispetto di un terzo che piangiucchia, mentre un quarto (un amorino oppure Amore stesso benché privo dei suoi soliti attributi) compie una mansione che precedentemente era quella di Imeneo ed Amore : lega alla palma l’uno con l’altro i due blasoni e con essi pure la spada ; questa volta adopera ambe le mani, ma il legame non ha più niente del velo di Imeneo e fa pensare ad una briglia da parata111. Ci si ritrova dunque l’idea di una coppia centrale, formata come precedentemente da un adulto giovane e da un fanciullo, ma non si tratta più d’Imeneo ed Amore e la rappresentazione di Ercole Pepoli colpisce per la sua somiglianza ai ritratti in piedi di giovani signori o principi.
Le particolarità tipografiche della raccolta mostrano delle anomalie nel primo fascicolo che fanno pensare a modifiche fatte all’ultimo momento. Non si può escludere che alcuni testi siano stati aggiunti all’inizio della raccolta e/o che il frontespizio attuale abbia sostituito quello previsto all’inizio112. Che i testi dell’inizio ne abbiano o no sostituito altri113, il sonetto d’apertura, dell’Achillini, attira l’attenzione a diversi titoli. Infatti, il sonetto non solo presenta aspetti tipografici anomali114, ma la sua ispirazione è anche insolita in seno alle tre raccolte, poiché è l’unica poesia che rimanda esplicitamente al frontespizio, come indicato dal titolo stesso (« S’allude alla fronte del libro »). Questo è dunque il primo caso di commento dell’immagine da parte del testo, il cui interesse però verrà meglio valutato quando si studierà il sonetto insieme a due altri testi basati sullo stesso motivo della celebrazione della palma.
Oltre questo sonetto, altri due testi hanno uno statuto a parte nella raccolta, ma per una ragione diversa poiché si tratta dei due contributi del Valesio stesso. La partecipazione dell’artista cresce rispetto alla raccolta precedente : questa volta, egli pubblica, oltre un sonetto, un componimento in quartine che si snoda lungo cinque pagine115. Se il rapporto tra testo e immagine non si impone a prima vista, esiste però una solidarietà tra le due espressioni della lode, nel senso che i testi conferiscono all’immagine una sua dimensione complementare. Come l’immagine, entrambi i testi si iscrivono nel contesto della realtà contemporanea : il sonetto annuncia le future prodezze di Ercole nella lotta contro il Turco, le quartine descrivono lo splendore dell’odierna Bologna degna del suo passato, lodano la sua cavalleresca aristocrazia in cui Ercole risplende con particolare fulgore. Molto probabilmente Valesio è stato influenzato dall’amico Capponi o ha voluto omaggiarlo : i luoghi comuni della lode della città sono stati ampiamente declinati da Capponi in uno dei suoi tre contributi alla raccolta pubblicata nel 1607 per le nozze Facchinetti-Correggio, probabilmente con l’intento di dimostrare così come i Selvaggi intendessero impegnarsi anche loro nel campo dell’encomio patriotico della fama della città116 ; e il richiamo alla guerra contro il Turco costituisce sin da quel momento e notevolmente nell’epitalamio pubblicato nel 1608 per il matrimonio d’Alfonso d’Este con Isabella di Savoia un motivo d’ispirazione caro a Capponi117.
Tuttavia, se Valesio celebra anch’egli « l’italica Atene », di cui Capponi ha lodato la rinomanza giuridica e più ancora l’arte poetica, le sue quartine lasciano posto all’elogio delle armi in una maniera del tutto diversa118. Così Valesio presenta un ritratto del giovane Ercole che prolunga ed integra quello del frontespizio. All’immagine ‘civile’ di un giovane e ricco signore in piedi, rappresentato però tra il cavallo fermo, ma con la zampa alzata, e le armi, il cui elmo cesellato è ornato del cimiero con l’uccello dei Pepoli e del sontuoso pennacchio, succede quella di un brillante e focoso cavaliere :
O se vedesti il bel garzone invitto […]
O se ’l vedesti (dico) il vago aspetto
Or placido mostrare ed or feroce
Su famoso destrier, mentre veloce
Gli preme il dorso e li percote il petto.
Non mai gli punge col piede il fianco
Ch’ei vigoroso non s’aggiri in alto,
Ch’ei non raddoppi coraggioso il salto,
Pria che ’l suolo ricalchi ardito e franco.
Ed al girar de l’animosa belva,
Cui la sferza talor minaccia e batte,
Con leggiadro apparir l’aura dibatte
Di bei piumaggi una dorata selva.
Poscia di gemme una superba mostra,
Ch’al ricco manto intorno folgoreggia,
A l’oriente i pregi tiranneggia
E un Argo prezioso a noi lo mostra.
Se poi si mira in fra le pompe e gli ori
Dominar, vagheggiar col grave sguardo,
Ogni cenno è una fiamma, ogn’atto un dardo,
Amor per gli occhi suoi saetta i cori. 119
In questi versi, in cui Valesio si rivolge al forestiero di passaggio nella città, non si tratta solo di esprimere il movimento, in modo da esaltare l’arte equestre del cavaliere e la potenza del cavallo, con intento emulativo data la frequenza del motivo nella poesia encomiastica di quegli anni ; si tratta anche, coerentemente alla logica interna alla raccolta, di esprimere nella diversità stessa dei supporti figurativo e poetico lo stesso concetto ossimorico della forza soave del cavaliere, della grazia selvatica del cavallo, oltre che di ricondurre lo sguardo del lettore al frontespizio e quindi alla qualità della rappresentazione dell’animale e dei finimenti.
L’idea di sostituire alle rappresentazioni mitologiche precedenti l’immagine contemporanea del giovane e ricco signore, idea comune al frontespizio e alle quartine, è stata forse ispirata a Valesio dalla pompa stessa di queste nozze che si svolsero in due tempi, a Ferrara e a Bologna, e furono occasione di sfarzose spese anche da parte dello sposo, tra l’altro per quanto riguardava le gemme che ornanavano il vestito di lui e del suo seguito120. D’altronde, la finezza dei particolari atti a mettere in valore la ricchezza del vestito del giovane e dei finimenti del cavallo costituiva per Valesio una vetrina della propria meticolosa e raffinata arte incisoria, arte che seppe far valere in tante rappresentazioni di armi e trofei, che erano la sua specialità, oltre che di insetti, fiori o frutti121.
La scelta del contesto contemporaneo non corrisponde invece alle modalità generali dell’elogio del giovanotto nella raccolta. L’elogio delle qualità di cavaliere di Ercole Pepoli non si limita al contributo poetico di Valesio122, ma la quasi totalità degli altri contributi si attengono alla lode globale del valore guerriero e rimandano al parallelo atteso tra il nuovo Alcide e l’eroe antico. Così, vengono evocate le prodezze di Ercole in genere, ma più particolarmente l’episodio d’Atlante e del giardino delle Esperidi – per dire che è un intero cielo, un vero sole che abbraccia il nuovo Ercole123 – e quello del destino celeste dell’eroe, compreso il martirio della pira – per dire che soave sarà questa volta la via del paradiso per lo sposo di Vittoria Cibo124. Qualcuno dichiara che il giovane vince non solo Ercole ma anche Alessandro125. Altri aggiungono che Vittoria è un cibo più sublime di quanto possa dilettare gli dei stessi126. Tutti declinano abbondantemente il motivo di Ercole vittorioso, come in questi versi che concludono uno dei madrigali : « Bramasti trionfar, vincer volesti, / Ed eguale al desir Vittoria avesti »127. Al gioco di specchio tra l’antico e il nuovo Alcide vanno aggiunti d’altronde i riferimenti agli dei tutelari delle nozze. Assente dal frontespizio, Imeneo è presente nella raccolta, come personaggio principale del lungo Contento amoroso di Campeggi – sempre sulla scia dell’imitazione di Claudiano –, ma anche in una maniera diffusa in diversi sonetti e madrigali128.
Se Valesio riprende nei suoi contributi poetici l’immagine del giovane eroe del frontespizio, non allude invece all’albero di palma, il quale rappresenta una delle due idee forti dell’invenzione e costituisce per di più la struttura portante della composizione. Né l’albero, neppure la parola « palma » trovano d’altronde gran posto nell’insieme della raccolta, contrariamente al nome di Vittoria che corre di pagina in pagina129. Questa palma emblematica di Vittoria e di una doppia vittoria (di Vittoria su Ercole e di Ettore su Vittoria) trova però tre espressioni notevoli nella raccolta, nel sonetto d’apertura dell’Achillini, in una canzone del Rinaldi e in un sonetto anonimo.
Il sonetto anonimo offre la particolarità di rinviare senza ambiguità possibile alla palma, ma senza indicarne il nome. Infatti, è ovvia l’identificazione di Vittoria Cibo con « l’arbor amante » trapiantato sul Reno (vv. 2-3)130 ma se non ne viene precisato il nome, l’albero che produce abbondantemente frutti di gloria (v. 1 dove il verbo « pullular » rinvia all’immagine tradizionale della palma carica di frutti131) e sprezza i colpi della fortuna (v. 4) non può essere altro che una palma, unita in questo caso al « nobil virgulto » (v. 3) cioè Ercole :
A pullular frutti di gloria avezza,
Trapiantata su’l Ren ferma le piante,
Stretta a nobil virgulto, arbore amante
Che di fortuna ria gl’impeti sprezza.
Già veder parmi, infra superba altezza
Di più sublimi e più mature piante,
L’inesto glorioso e torreggiante
I rami alzar di gigantea grandezza.
Sete voi le gran piante alme d’amore,
Vittoria, Alcide, a cui bei rezi e molli
Si ricovra beltà, posa il valore.
Felsina attendi pur ne i lieti colli,
Perché lo serba il Ciel, l’irriga Onore,
Dal magnanimo Tronco alti rampolli.132
Il sonetto è basato sul motivo dell’innesto, qui dichiarato, ma viene trattato ora nel contesto eroico caratteristico della raccolta del 1609, e non nel contesto neocortese dei giardini allegorici della raccolta del 1608 dove cresceva il bel « rododafne » di Capponi. Che abbia influito o no l’illustrazione della raccolta e/o i testi del 1608 nell’invenzione di questo sonetto, in ogni modo va notata la perfetta consonanza tra il frontespizio del 1609 e la celebrazione nel sonetto anonimo dell’ « inesto glorioso », di quell’albero che presto alzerà i rami « di gigantea grandezza » e dominerà i pur grandi alberi di Felsina cioè, fuori di metafora, le famiglie aristocratiche della città (qualora si interpreti il verbo « torreggiare », per tradurre l’idea dell’altezza dominante, come un rinvio al paesaggio urbano di Bologna).
La parola e la cosa sono invece tutte e due presenti nel sonetto dell’Achillini, il quale forma, dato il posto d’apertura e il titolo (« S’allude alla fronte del libro »), un dittico col frontespizio :
E dal fianco e dal crin l’armi divide,
Sazio via più ch’altero Ercol di gloria,
E d’un bel foco suo la dolce istoria
Narra sotto una palma a l’aure infide ;
E mentre a suoi desir Vittoria arride,
Sente le balze risonar Vittoria,
E d’Alcide ascoltando ogni memoria,
Ode le rupi replicare Alcide.
A l’or Lidio pastore, acceso l’alma
D’affetto devotissimo ed umile,
Incise i duo gran nomi entro la palma ;
E disse : « Poi ch’al povero mio stile
Innalzar questi nomi è grave salma,
S’alzin teco a le stelle, arbor gentile. »133
Il sonetto corrisponde del tutto al titolo (« S’allude alla fronte del libro ») : la prima quartina dà a vedere un giovane signore che tolte le armi effonde l’animo sotto la palma dove sta in piedi. I primi versi – che questo sia l’intento primo di Achillini o che derivi dalle modalità comuni dell’ekphrasis che rincarano sulla forza mimetica di un’opera figurativa –, valorizzano l’immagine in due modi : coll’attirare lo sguardo sui bei capelli ricci del giovane, sulla spada e sull’elmo (disposti secondo una stessa diagonale nell’illustrazione) ; col suggerire tramite l’evocazione della brezza (« aure infide ») l’agitazione del fogliame, elemento del tutto rappresentativo dell’arte del movimento tipica di Valesio. Tuttavia, Achillini non solo serve all’illustrazione ma si serve anche di essa, ed in due modi diversi come indica la bipartizione netta del sonetto134.
Nelle quartine vengono accentuati i contenuti dell’immagine e completata l’informazione data dal titolo inciso sul tronco della palma : infatti, l’illustrazione è solo un momento in una sequenza narrativa che la ingloba (si noti la valenza del polisindeto da questo punto di vista) ; essa è solo una parte, centrale certo ma limitata, di un quadro più vasto. La dimensione temporale è introdotta mediante l’evocazione topica delle confidenze amorose fatte alla natura ; la dimensione spaziale è ingrandita mediante l’evocazione del paesaggio di antri e monti che l’illustrazione non mostra ; la dimensione encomiastica è arricchita con la menzione della persona di Vittoria di cui l’eco ripete il nome, ma anche col rinvio all’Ercole antico assente nell’illustrazione. Nelle terzine, se interpreto bene il loro senso, Achillini si giova del motivo topico della poesia pastorale – in cui tradizionalmente i pastori incidono sulla scorza d’un albero ora un lamento, ora una lode –, per far sua l’azione di incidere i nomi degli sposi sul tronco della palma, quindi per prendere il posto di Valesio incisore del frontispizio, letteralmente parlando. La modestia del poeta certo è salva, grazie ad un altro motivo topico della poesia, pastorale ma non solo : Lidio alias Achillini, confessando la povertà del suo stile e la sua incapacità ad innalzare il suo canto, non può che affidare alla palma, destinata a crescere, la cura di lodare come si deve la giovane coppia. Ma non per questo direi che sia insita nel sintagma finale del sonetto (« arbor gentile ») una cortese allusione all’arte di Valesio.
Di palma si tratta anche ed esplicitamente ne L’Impresa di Rinaldi, una lunga canzonetta che il poeta aveva non solo consegnata agli editori della raccolta, ma anche trasmessa direttamente al destinatario a quanto pare dalle Lettere dove viene pubblicata135. Questa lettera, non datata ma verosimilmente scritta nei giorni o nelle settimane che precedettero la pubblicazione della raccolta per nozze, consiste di fatto nella presentazione de L’Impresa, cioè in un riassunto introduttivo del testo :
Per le nozze di Vostra Signoria Illustrissima, ho formato un’Impresa, e sopra l’Impresa fabricata una canzone, e nella canzone stretti gli amori di Lei, dell’Illustrissima Sua Consorte. Un pastorello nella corteccia d’un faggio incide una palma, sotto cui intagliata stende la pelle del leon nemeo. Indi, per dar vita al bel lavoro, avviticchia al nobile tronco il presente motto : Viver non può senza Vittoria Alcide. Alle voci della sudetta pianta imparano a favellar gli arbori circonvicini, le pietre e l’acque : ogni cosa è piena di giubilo, e tutto esprime l’inchiusa canzone. Non s’acqueta però il mio desiderio nell’angustia d’un solo componimento, ch’io Le preparo nuova lode per inalzarmi a nuova grazia, e riverentemente Le bacio le mani.
Come si vede, si ritrova qui come in Achillini il motivo pastorale dell’albero inciso, che permette al poeta di indossare per così dire l’abito dell’incisore (e non è dato sapere se Achillini abbia colto nel suo sonetto la suggestione che offriva Rinaldi) ; ma differentemente da Achillini, Rinaldi non rinvia in nessun modo al frontespizio di Valesio. Rinaldi infatti inventa per celebrare queste nozze un emblema completo (con due elementi figurativi e un’impresa), emblema descritto nella prima strofe della sua canzonetta e che potrebbe stare al centro di un altro tipo di frontespizio, nella tradizione dei frontespizi con le armi del(i) dedicatario(i):
Nel midollo d’un faggio
Un ramoscel di palma inciso avea
E la spoglia nemea Tirinto il saggio.
Archeggia il motto e’l bel tronco divide :
Viver non puÒ senza Vittoria Alcide.
O pastorel sagace,
Onde spiasti tu le brame altrui ?
O, de’ presagi tui scultor verace,
Di favellar per te l’arbor si gloria.136
Intorno a questo emblema, si organizza la rappresentazione di una pittura virtuale, fatta degli elementi topici del paesaggio silvestre descritto nelle brevi strofe della canzonetta. L’albero inciso assume lungo l’intera poesia una funzione strutturante che varia, ma che è tanto forte quanto quella della palma del frontespizio di Valesio. Il dilatarsi del quadro spaziale si opera ovviamente con maggiore ampiezza e complessità che nei limiti di un sonetto come in Achillini.
Infatti la canzonetta si divide in tre momenti ben marcati, distinti tra di loro dal gioco delle distanze, in cui il passaggio dal ‘vicino’ al ‘lontano’ si complica dalla loro combinazione con il ‘visibile’ e l’‘impalpabile’ : 1. in un primo momento, lo sguardo si focalizza sull’albero con l’emblema inciso, ma già la brusca introduzione del sole che mira stupito l’albero annuncia l’ampliarsi del quadro che avviene in un secondo momento ; 2. questa volta lo sguardo percorre nella sua vastità un intero paesaggio naturale ; questo paesaggio però, fatto di prati, di rivi e di cieli attraversati da zefiri e da uccelli, animato anche da divinità della natura, non solo spiega la sua diversità, ma costituisce una vera e propria pittura parlante ; infatti in questo secondo e più lungo momento della canzonetta, la rappresentazione visuale è dominata dall’udito, dato che il faggio inciso, diventato albero cantante secondo la convenzione stessa degli emblemi portatori di un messaggio lodativo, è « l’animata selvetta » che di metafora in metafora orchestra il concerto della natura ; 3. l’arte feconda della metafora caratteristica della poesia di Rinaldi incrementa così di strofa in strofa l’idea di un concerto inesauribile di lodi, finché in un terzo ed ultimo momento lo sguardo si concentra di nuovo sull’albero, però non più sull’esterno (il tronco inciso) bensì sull’interno, cioè sull’invisible fonte dell’armonia che emana da « l’amabil tronco ». Alla fine, lungo il succedersi quasi anaforico dei diversi indicatori della misteriosa interiorità dell’albero si fa strada allora il vocabolario dell’immensità : il riferimento alle sfere ed ai monti prepara così l’encomio finale dei giovani sposi, in forma di una ‘pointe’ che risolve l’enigma dell’albero. Si capisce infatti che l’albero può contenere un intero universo musicale : a partire dal presupposto implicito dell’equivalenza identitaria tra la persona e il suo emblema, Vittoria ed Ercole – benché lei sia un sole con le sue costellazioni, e lui un intero cielo – sono contenuti nell’albero, poiché su questi sono incisi i loro rispettivi emblemi.
L’intera canzonetta è all’unisono della poesia di Rinaldi, pittore dei paesaggi animati ed esperto nell’arte di esprimere in termini concreti il conciliarsi dei contrari. Come nelle altre due raccolte, il suo contributo è all’insegna della sua forte originalità e si stacca dall’insieme, pure se la conclusione qui non esce dal trito motivo encomiastico usato parecchie volte per equiparare Vittoria ad un universo intero, in quanto a bellezza, che Ercole, come l’eroe antico, non faticherà però ad abbracciare. Tuttavia, l’idea di questa « impresa » come il modo in cui si svolgono le strofe della canzonetta in un gioco di complementarità tra il vicino ed il lontano, il di fuori e il di dentro, il visuale ed il sonoro sono legati al frontespizio da un rapporto così evidente che pare difficile non pensare che l’illustrazione non si sia ispirata alla canzonetta oppure che viceversa la canzonetta non abbia trovato la sua idea di partenza nel frontespizio. In questo secondo caso, il rovesciamento (la palma non più supporto dell’incisione ma oggetto della rappresentazione) e la complicazione (non soltanto l’incisione di lettere, ma di un emblema completo che unisce l’immagine e lo scritto) dell’idea del frontespizio – che hanno come risultato di sostituire alla vasta palma che regge il titolo inciso della raccolta un ramo di palma inciso su un albero di un’altra specie – sarebbero state le operazioni mentali a partire dalle quali scaturì l’innegabile originalità della creazione poetica di Rinaldi, la cui vena descrittiva si alimenta alla fonte intellettuale dei nessi logici tra le cose.
Al termine di questo studio degli elementi comuni ai frontespizi ed ai testi nella prima parte del corpus di raccolte a cui contribuì Valesio, forz’è di costatare che sono pochi i casi probanti e/o precisi di un rapporto tra immagine e testo al di là ovviamente da quel che viene indicato sin dall’inizio (come il sonetto dell’Achillini in apertura della raccolta del 1609). I luoghi comuni della lode destinati ad eroicizzare i giovani sposi e le loro famiglie a partire dai nomi e dagli emblemi, da una parte ; il codice iconografico e letterario che regge l’irrinunciabile apparato mitologico, dall’altra, invitano a cercare tracce della contaminazione tra queste diverse forme espressive della celebrazione, pur se limitano la possibilità di trovarne prove innegabili data la genericità dei riferimenti della poesia, degli intermezzi allegorici ed altre espressioni drammaturgiche, peraltro di una desolante ripetitività. Più particolarmente, se si eccettua il caso molto men netto del sonetto, uno scarto si manifesta in seno ai testi poetici tra i testi brevi e/o destinati ad accompagnare un momento preciso della festa (madrigali per musica, epigrammi, canzonette recitate nel ballo o negli intermedi allegorici), i quali non offrono variazioni tematiche significative, e i testi lunghi in cui l’occasione encomiastica costituisce un vero e proprio terreno per l’emulazione poetica. Non per questo tuttavia il paragone tra i frontespizi e questi componimenti più ampi e più impegnativi permette di ritrovare nelle raccolte il rapporto consueto tra l’illustrazione e il testo nel caso del libro di un solo autore. Mentre il mero confronto dei dati tra l’immagine e i testi brevi fa correre il rischio di dimenticare la forza d’impregnazione del codice comune e di isolare qualche nucleo espressivo per vederci una sorta di legenda dell’immagine.
Nondimeno, le similitudini tra testo e immagine esistono. Queste tangenze tra alcuni particolari nel trattamento parallelo di uno stesso motivo (il nodo, l’innesto, la palma) invitano ad ipotizzare una dipendenza effettiva tra il frontespizio ed i testi senza però che si possa definirne il senso in modo convincente. Infatti, diversamente da quanto avviene nell’allestimento del libro di un solo autore, in cui l’autore e/o l’editore e/o lo stampatore intervengono a testo prodotto, nel caso delle raccolte non si può escludere che, data la dimensione collettiva della produzione ed i tempi stretti dell’elaborazione – dell’ordine di qualche settimana –, parte dei contributori abbia conoscenza se non del disegno già fatto del frontespizio almeno della scelta del suo argomento e dei contenuti generali. Più particolarmente, nel caso delle raccolte del 1608 e 1609, la parte svolta principalmente dai Selvaggi, accademia probabilmente meno gerarchizzata dei Gelati, lo statuto sociale più modesto di un Capponi, riguardo ad un Campeggi od uno Zoppio, oltre alla sua vicinanza con Valesio, consente di pensare che questi abbia avuto la possibilità di dar maggior estro alle proprie scelte nell’invenzione dei frontespizi, il che non esclude d’altronde l’ipotesi che l’artista abbia anche conciliato questo margine di libertà col proposito di segnalare i componimenti dell’Animoso di cui affiora nettamente una strategia di autopromozione in seno a quella della promozione dei Selvaggi.
Comunque sia, l’arte dell’incisore raggiunge l’apice nei due frontespizi del 1608 e 1609 in cui si ritrova la stessa finezza dei dettagli e, nel contempo, la stessa forza che si nota nell’incisione di tanti blasoni, emblemi e composizioni araldiche. Quest’arte però non trova nei testi nessun posto per un encomio diciamo secondario, di tipo ecfrastico, che potrebbe unire la lode dell’artista con quella degli sposi e delle loro famiglie. Non c’è posto qui per la lode dell’artista, mentre c’è posto per la lode dell’arte poetica altrui sulla scia del tradizionale scambio di sonetti, come ben inteso per gli scambievoli segni di cortesia tra Gelati e Selvaggi.
Insomma, lo statuto stesso del frontespizio si profila come decisamente secondario e ‘servile’ di fronte al testo, forma peculiare dell’arte ‘funzionale’, tra altre forme come lo scenario di una pastorale o apparati diversi137. Ma la questione è anche quella dello statuto stesso di questo tipo di raccolte. Probabilmente di interesse e di valore immediatamente fruibile saranno state le raccolte per nozze, nonostante l’impegno a livello della preparazione e della spesa. Questo però non significa che la loro ‘memoria’ si cancellasse subito : la gara tra le famiglie nel mondo comunque chiuso della Bologna patrizia doveva spingere l’editore – che fosse l’accademia, i letterati oppure la famiglia stessa a sollecitare i contributi – ad onorare i nuovi sposi alla pari di quelli a cui era stata offerta una raccolta qualche anno prima, per non dire delle raccolte pubblicate lo stesso anno. Questo evidentemente non significa che il materiale offerto da parte dei singoli contributori fosse considerato logoro e, aldilà delle variazioni individuali, i testi prodotti per nozze fanno parte integra della poesia di uno scrittore, attentamente rivisti e reinseriti nei suoi libri di rime.
Questi aspetti saranno da considerare nello studio delle raccolte del secondo periodo del contributo di Valesio a raccolte per nozze (1620-1622) in cui si profila appunto il problema della promozione delle varie doti del suo ingegno. Per ora mi accontento di segnalare come l’encomio che definirei indiretto o secondo, all’interno della lode principale degli sposi e delle loro famiglie, trovi in questo secondo periodo un’espressione interessante a beneficio di Marino. In una delle due raccolte approntate nel 1620 per le nozze di Filippo Aldrovandi con Isabella Pepoli, edita da Alberto Rabbia e nella quale Valesio interviene come autore del frontespizio e come poeta, compare infatti il nome di Marino, elogiato da Ettore Ghisilieri nei versi latini con cui si chiude la raccolta138. Impostato su un luogo comune dell’encomiastica, il doppio omaggio accomuna così Marino e Guido Reni, o per dirla diversamente, inserisce nello spazio culturale felsineo il poeta allora in Francia ma presente nella mente degli amici bolognesi :
Ecce Isabella foras prodit, quis pinget Apelles ?
Quis digno scribet carmine Mœonides ?
Inveni, astra favent, depinget Rhenus Apelles,
Marinus scribet carmine Mœonides.139
*
Le illustrazioni dei frontespizi hanno l’autorizzazione di riproduzione della Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna <http://www.archiginnasio.it> prot. N 1976/IV-3C 22/11/2011, per « Nelle nozze de gl’Illustrissimi Signor il Signor Ferdinando Riario e la Signora Laura Pepoli, Bologna, eredi di Giovanni Rossi, 1607 » ; « Nelle nozze de gl’Illustrissimi Signor il Signor Ludovico Fachenetti e Donna Violante di Correggio Austriaca, Bologna, eredi di Giovanni Rossi, 1608 » ; « Nelle nozze del Conte Ercole Pepoli e Donna Vittoria Cibo, Bologna, eredi di Giovanni Rossi, 1609 ».