Dieci sonetti burleschi attribuiti a Gabriele Salvago (1570): dall’ambiguità fidenziana alla censura ottocentesca nel fondo Pinelli dell’Ambrosiana.

Résumés

Alla fine dell’Ottocento Antonio Ceruti, archivista della Biblioteca Ambrosiana di Milano, pubblica lettere e sonetti inediti di un personaggio finora sconosciuto, Gabriele Salvago, un nobile genovese che nel tardo Cinquecento svolse fra Roma e Venezia una sfortunata carriera cortigiana. Basandosi principalmente sui manoscritti milanesi, quest’articolo cerca di dimostrare che Ceruti, oltre ad operare una pesante censura sui testi, commise un sostanziale controsenso nel suo approccio alla figura di Salvago. Infatti non seppe sospettare la natura prettamente burlesca dei componimenti poetici: essi si riallacciano alla moda della poesia fidenziana sorta nel tardo Rinascimento, e invece di essere la fantasiosa espressione di uno «spirito bizzarro» costituiscono la spietata parodia delle sue manie.

In the late XIXth century, Ambrosiana Library’s archivist Antonio Ceruti published some sonnets and letters of Gabriele Salvago, an until then unknown Genoese courtier, who conducted an unlucky carrier in late Renaissance Rome and Venice. This article, which is based on the manuscripts conserved in Milan, tries to assert that not only did Ceruti censore the original texts, but deeply misunderstood their meaning. The archivist was indeed unable to suspect that the poems were inspired by the recent trend of fidenziana poetry: they are not the odd and spontaneous expression of Salvago’s feelings but a ruthless parody of his follies.

Plan

Texte

Chi comprò, nel 1873, un volumetto intitolato Rime di poeti italiani del secolo XVI, pubblicato a Bologna presso Gaetano Romagnoli, fu probabilmente sorpreso di incontrare, stretti fra quelli di Luigi Tansillo ed altri di Vittoria Colonna, sonetti di un certo Gabriele Salvago1. Quest’antologia era stata curata da Antonio Ceruti (1830-1918), custode del catalogo della Biblioteca Ambrosiana di Milano, con lo scopo di presentare al pubblico carte inedite tratte dal fondo Gian Vincenzo Pinelli, cioè dalla sterminata collezione dell’umanista residente a Padova che diventò poi uno dei nuclei principali della biblioteca milanese2. Ma per chi non avesse avuto in mano una breve lettera pubblicata a Venezia nel 1842 in tiratura limitatissima3, Salvago risultava certamente un poeta sconosciuto sul cui nome infatti pesava il silenzio dei secoli. Qualche accenno al patrizio genovese è certo riscontrabile nei meandri della Storia e Ragion d’ogni poesia del Quadrio4, opera tanto importante quanto difficilmente reperibile, e nella bibliografia che Michele Giustiniani dedicò nel 1667 agli Scrittori liguri5; ma sono meri rimandi a pagine introvabili. Perciò Antonio Ceruti spende qualche parola sul suo conto: « dotto ma bizzarro gentilhuomo », sarebbe vissuto fra Roma e Venezia senza mai avere successo nella carriera cortigiana; amico di Pinelli, bersaglio di una satira del cardinale veneziano Bernardo Navagero6, avrebbe lasciato di sé « alcuni sonetti e molte lettere ».

I sonetti sono sette7. Nostalgico, Salvago depreca la decadenza della sua amata Roma; polemico, si vanta di aver fatto ingelosire le più potenti famiglie della città; aneddotico, narra un incontro infelice con Livia Azzalina famosa cortigiana veneziana8, una discussione di chiesa e una di palazzo, o dettaglia qualche disturbo intestinale; politico infine, si lamenta degli indugi militari della Spagna ai danni della Serenissima. Sei di questi testi, dai riferimenti spesso oscuri, vengono delucidati da paragrafi di prosa dati in nota. Anche se nessuna data viene fornita da Ceruti, non sembra difficile proporre un ridotto periodo di composizione per i sonetti: un riferimento a Giovanni Antonio Fachinetti, nunzio pontificio in laguna dal 1566 al 1572 e futuro papa Innocenzo IX (VI), restringe l’arco temporale da considerare, ma decisive sono le allusioni all’arrivo delle navi di Marco Querini a Messina (V), al ritardo di quelle spagnole ivi aspettate (VIII) e alla venuta a Venezia del generale della flotta pontificia Marcantonio Colonna (VII), che rimandano all’estate 1570 e allo scacco del primo tentativo di rispondere alla presa di Cipro da parte dei Turchi, un anno prima di Lepanto.

Si capisce che questo primo approccio alla figura di Salvago abbia incuriosito l’erudito milanese, se quattro anni dopo stende un lunghissimo articolo per gli « Atti della Società Ligure di Storia Patria »9, nel quale pubblica centocinque lettere del genovese datate dal 1546 al 1575, precedute da una sintetica introduzione che costituisce tuttora l’unico intervento critico esteso su Salvago10. In appendice ad un testo di natura quindi essenzialmente epistolografica, Ceruti riproduce i sonetti già pubblicati nove anni prima, ma aggiunge anche tre componimenti : due altri sonetti, e una pagina di prosa introduttiva. Essa presenta le circostanze della diffusione delle poesie: un amico veneziano di Salvago ha approfittato di un attimo di distrazione dell’autore per rubare alcune sue bozze, sentendosi autorizzato al furto dalla quantità di poesie sue già in circolazione, e ha precisato per il lettore il contesto di ogni composizione in svelte parafrasi; i due sonetti invece introducono un nuovo personaggio, la cortigiana Medea11, che ripetutamente si era rifiutata al poeta. Spariscono invece i paragrafi di commento, con l’effetto di rendere la lettera introduttiva poco comprensibile; unica nota rimasta, l’identificazione della prima cortigiana come Livia Azzalina.

La stessa impaginazione svela l’imbarazzo di Ceruti di fronte a questa parte della produzione di Salvago: se le eleganti pagine della rivista lasciano respirare le lettere, i nove sonetti vengono accatastati, in caratteri di dimensioni minori, su quattro pagine di un articolo che supera le duecento, come un dovuto tributo all’hobby di un uomo notevole solo per il suo carteggio diplomatico. L’introduzione non cerca di nascondere le remore morali da cui deriva quest’imbarazzo: scrive l’ex-seminarista che « i sonetti rimastici di Gabriele non hanno altra importanza, che di esporre con forza d’epigramma alcune delle sue avventure, talvolta galanti, e allora non sa sempre trattenersi da espressioni scorrette », difetti comprensibili in un secolo « poco severo e tenero della castigatezza dei costumi e del parlare » che tanto produsse « frasi indecenti, che parean facezie »12.

A questo punto potrebbe sembrare una semplice curiosità andare a sfogliare il codice che contiene il brevissimo canzoniere13, per verificare se i due sonetti pubblicati nel 1881 siano o no corredati – come sei dei sette sonetti dell’antologia del 1873 – da paragrafi di prosa; e infatti non è una sorpresa scoprire sotto i componimenti dedicati a Medea la solita parafrasi, che riproduciamo qui; ma se una volta trascritte quelle righe continuiamo a compulsare il volume le sorprese non mancano, tanto gli interventi di Ceruti sono stati pesanti. Prima modifica arbitraria, è stata sistematicamente troncata la fine dei paragrafi: essi infatti si chiudevano con la definizione, quasi la traduzione, di alcune parole ostiche o arcaiche, spesso dei latinismi; troviamo per esempio « pedissequa: massara over fantesca », « hospitio: habitatione », o ancora « le bestie: essi cardinali ». Se poi paragoniamo le righe pubblicate a quelle originali, notiamo una costante modernizzazione tanto del lessico quanto delle forme grammaticali. Così, « un de i più giovani volse cominciar a rispondere, il che spiacendo a Messer Gabriel gli diede su la voce » diventa « un de’ più giovani volle risponder pel primo ; il che spiacendo a Gabriele, gli die sulla voce »; più in là un dialettismo veneto come « bozolo » viene sostituito con « gruppo »; la pratica è così sistematica che rinunciamo ad elencare qui la serie delle variazioni14. Sembreranno innocue: in realtà hanno anche come conseguenza di lasciare immaginare al lettore dell’antologia del 1873 che la parafrasi sia opera di Ceruti; impressione rafforzata se ci accorgiamo che, poco curante dell’uso delle virgolette, lo studioso accorpa anche sue osservazioni alla prosa del Cinquecento. Ma quest’ambiguità sarebbe il meno.

In due casi infatti, le modifiche superano di gran lunga il carattere stilistico. Nella versione del primo sonetto data da Ceruti, il poeta dichiara alla città di Roma « In te giuoco, in te dormo, in te gioisco »; il testo recita invece, con un ardito latinismo, « In te giuoco, in te dormo, in te coisco »: ecco una « frase indecente » prontamente liquidata, che porta via con sé buona parte della comicità del testo. Meglio ancora: nel quinto sonetto la parafrasi lascia pochi dubbi sulla varietà dei gusti di « meser Gabriel »; dopo una notte insonne per colpa delle sue soliti crisi di tosse, Salvago si reca tardi in chiesa, ma si riprende in fretta; infatti, recita la parafrasi, « Poi visto un bellissimo giovane, e non sapendo come entrare a ragionar seco », riesce ad esordire – questa volta nel sonetto – con un poco paterno « Figlio mio ». Ceruti sceglie di pubblicare il componimento, ma non senza cambiare il testo, che diventa « Poi vista una bellissima giovane » e, debitamente, « Figlia mia ». Infine – e il lettore che ha ancora in mente il titolo del nostro intervento l’avrà già capito – il quaderno contiene un decimo sonetto15: Salvago, trovandosi « ad una festa d’alcuni gentilhuomini », viene conquistato dalla bellezza di una certa Madaluzza; si scandalizza che cotanta donna venga chiamata con un diminutivo da bambina – cioè non coglie che questo nomignolo è proprio di una prostituta –, e si augura un amplesso nella sconvenevole posizione, già favorita dalla moglie di Calandrino, in cui l’uomo è passivo.

Notevole è quindi la distanza fra il manoscritto dell’Ambrosiana e le edizioni di Ceruti, che della raccolta alterano in profondità sia la forma – la dicotomia sonetto/commento – che la sostanza – l’estesa presenza di una dimensione erotica dai connotati burleschi. Perciò prima di avvicinarci con più precisione ai sonetti sembra necessario interessarci al carteggio di Salvago, almeno per verificare che non sia stato oggetto di un simile procedimento.

Le lettere di Salvago, come abbiamo scritto, sono state in parte pubblicate dal Ceruti nel 1881. Ci permettono di tracciare un sintetico profilo biografico: nato a Genova, negli anni 1540 Salvago si trova a Roma16, dove cerca invano un posto di rilievo nella curia: « quale ufficio sia riuscito allora o poi a conquistare in Roma, non si rileva mai da’ suoi scritti, e nol si saprebbe, se Navagero non ci dicesse ch’era semplice cameriere del pontefice »17, funzione certo non consona alle sue ambizioni. Deluso dalla città pontificia si reca a Venezia, dove lo troviamo durante l’estate 1565, « forse nella cancelleria del nunzio apostolico »18; se in un primo tempo accetta in pieno il mito del governo ideale di cui si fregia la Serenissima19, il miglioramento sociale sperato non avviene, e nella primavera 1573 torna a Roma, dove forse muore pochi anni dopo20. Lungo tutti questi anni scrive a potenti personaggi della gerarchia ecclesiastica (Ranuccio Farnese, il cardinale Salviati, il cardinale di Fano, il cardinale Gonzaga, San Sisto, Navagero, ecc.) nella speranza di raccogliere i frutti di una sua presunta influenza. Richiesto o non richiesto propone consigli, analisi, informazioni, affermandosi partecipe dei segreti degli dèi: elezione di un papa, di un doge, notizie della guerra di Cipro, questi eventi sembrano fare di Salvago un informatore universale, che da Roma ragguaglia Genova, da Venezia Padova, o da Genova Venezia.

Non per questo Ceruti prende troppo sul serio le dichiarazioni perentorie del genovese, « piccolo intrigante » convinto di essere un « grande statista »21; fra altri esempi, « quando trattavasi nel 1567 dell’elezione del doge, spacciava agli amici assai notizie e pronostici sulle probabilità dell’esito; ma non gli riescì mai azzeccarne una »22. Infatti Ceruti ha letto (e pubblica dopo la sua introduzione) i Detti e Fatti di Gabbriello Salvago Cavaliere, Gentiluomo Genovese sotto Pio IV, quando fu introdotto in Palazzo, descritti da Bernardo Navagiero Cavalier, e poi Cardinale. Di questo testo conosciamo almeno tre copie: due conservate all’Ambrosiana, e una alla Biblioteca Marciana di Venezia23. Per Emanuele Cicogna, che nella sua edizione di una lettera di Salvago cita più passi dalla copia marciana, i Detti e Fatti sono stati scritti fra il 1561 e il 1563, secondo i periodi di permanenza del Navagero a Roma sotto il pontificato di Pio IV. Sono una collezione di settantaquattro paragrafi – altrettanti motti e facezie – nei quali Bernardo Navagero descrive una Roma schiacciata dal calore estivo dove « Palazzo, tutte le corti, e conversationi di questa terra non si trattengono con altro, che con la presentia di meser Gabriel Selvago, o col ragionar di lui ». Del genovese, in queste pagine esilaranti, si dice che è canzonato da pasquinate, incisioni e infinite voci che si rallegrano della sua « pazzia »: vive in un’ambigua prossimità con prostitute e disprezza i propri servitori; veste sempre con uno sfarzo esagerato, adattato alle sue smisurate ambizioni; millanta immaginati favori di cui gode presso il papa; è certo di diventare presto cardinale, e di essere assunto un giorno al seggio pontificio. In questo ritratto impietoso, Navagero sfrutta appieno effetti burleschi che poggiano su una lingua ridicolmente arcaica, una logica paradossale o situazioni assurde, facendo insomma di Salvago il pedante per antonomasia.

La presenza dei Detti e Fatti nelle carte dell’umanista non fa però sospettare a Ceruti qualche malizia nel collezionare testi di Salvago, anzi ritiene che « questa cura di Pinelli darebbe a credere, che non la sola affezione creata dall’amicizia personale o dalla comunanza della città nativa gli rendesse cari gli scritti dell’amico, ma eziandio la stima da lui sentita pel suo sapere e pel suo carattere »24. Sarà difficile per noi non vedere in questa fiducia nelle ottime intenzioni di Pinelli una certa ingenuità. Ceruti non cita con precisione le fonti dell’Ambrosiana dalle quali ha tratto le lettere, due codici dall’articolazione molto diversa. Il primo, conservato sotto la collocazione A 51 inf., porta il titolo « Lettere famigliari di Gabriele Salvago a Gian Vincenzo Pinelli »; contiene centotto lettere-buste, ovviamente autografe, dispiegate e unite da una rilegatura di cuoio, tutte indirizzate da Salvago a Pinelli dal 18 gennaio 1567 al 14 febbraio 1573 – quindi in media una ogni tre settimane. Si evince dal carteggio il suo ruolo di piccolo aiutante locale di Pinelli: le prime lettere25 lo vedono impegnato nella ricerca di un libro – una richiesta solita dell’umanista ai suoi corrispondenti di tutta Europa –, ma questa semplice missione non va a buon fine; lo troviamo più tardi intento a procurare un paio di occhiali al collezionista26 o ad assecondare Gieronimo, un servitore di Pinelli che fa da spola fra Venezia e Padova. Ma il successo in queste imprese è raro, e la colpa è sempre di qualcun’altro. Salvago si lagna dei contatti veneziani, irreperibili: « con tutta la mia diligenza anchor non si fornisce col venetiano il quale occupato in lite, fabrica, et moglie, leva tardi, negotia poco, et è difficile da trovare »27; oppure critica sentenzioso l’ingenuità di Pinelli, che si scontra con le dure realtà del mondo: « voi mandate Gieronimo a trattare con la plebe vinitiana sicuramente come con un santo: et pur dovete sapere che ogni plebe è ladra; ma la vinitiana assassina »28; o ancora, si lamenta di essere stato tanto debilitato dalla malattia da non potere lasciare il letto29. Insomma, qualsiasi richiesta di Pinelli, o affare proprio di Salvago, sembra condannato al fallimento: praticamente in centotto lettere non si conclude mai niente, da rendere quasi una running gag le proteste di servitù del genovese che ritmano le chiuse, come « se altro fra tanto volete comandare, date aviso, che sarete servito visa litera »30. Da Pinelli, Salvago non richiede grandi beni dell’anima: sembra ostinato nel farsi recapitare vino – per evitare, forse grazie alla sua posizione di « delegato della sede apostolica », di pagare il dazio imposto dalla Repubblica su questa derrata31 – e ripetutamente anela la degustazione di fichi freschi32.

Il secondo codice, S 84 sup., reca sulla pagina di titolo « Diversa moralia »: è una miscellanea che contiene svariate opere, dalla descrizione storica dei quattro cavalli della basilica di San Marco al trattato di medicina, fino ad una serie di disegni di tempi e teatri dell’isola di Candia. Un centinaio di carte centrali33 contengono testi di o su Salvago, rubricati sotto il titolo « Scritture, poesie, lettere, detti, fatti (uno verbo Pazzie) di M. Gabriel Selvago », così organizzati: dalla c. 94 alla c. 171 compaiono, in vari quaderni di varie dimensioni, lettere mandate a personaggi importanti; in questo caso sono solo copie effetuate da più mani, probabilmente in periodi diversi. Infatti sappiamo dal codice A 51 che Salvago, su esplicita richiesta di Pinelli, mandava all’umanista copie dei suoi testi o gli prestava gli originali34. Seguono, in un quaderno a parte, i dieci sonetti che qui pubblichiamo e la loro pagina introduttiva35. Poi, un altro testo di prosa arzigogolata che tesse le lodi di uno squisito autore36 e una sprezzante lettera di Salvago a Cosimo de’ Medici37; infine, troviamo una delle tre copie conosciute dei Detti e Fatti. Dopo questa fortunata raccolta di facezie, un quaderno è interamente occupato da ventisei estratti di lettere di Salvago che provengono essenzialmente dal volume A 5138. Sarà interessante paragonare la scelta attuata da Ceruti nel suo volume del 1881 e quella di quest’antologia, che già esisteva ai tempi di Pinelli ed è probabilmente opera dello stesso umanista. Il conservatore milanese attinge soprattutto alle missive contenute nella miscellanea S 84, e all’ultima parte della raccolta delle « lettere famigliari »; sceglie, in breve, quelle di argomento politico, che certo non mancano. Alquanto diversi appaiono gli interessi del compilatore cinquecentesco, che si concentra infatti sull’aneddotico: tormentosa voglia di fichi o di vino, ripetute scuse per non aver potuto adempiere a una richiesta di Pinelli, accanto ad alcune oziose e puntuali considerazioni diplomatiche. Insomma – e anche la posizione del quaderno nel codice ci spinge a pensarlo – abbiamo fra le mani un tentativo di riprodurre dieci anni dopo39 i Detti e Fatti a partire dalle lettere raccolte da Pinelli: riunire cioè un best of dei vaneggiamenti di Salvago, che come le pagine facete del Navagero possono essere copiate e trasmesse alla schiera dei beffardi ammiratori del genovese.

Non preziose informazioni politiche sono quindi le lettere di Salvago per Pinelli, ma fonte di ilarità, « uno verbo pazzie » che vengono condivise all’interno dei cerchi letterari veneti – e infatti si farebbe fatica a capire come l’umanista, che a Venezia gode di contatti con un patrizio dell’importanza di Giacomo Contarini, abbia bisogno dei lumi di quest’oscuro cortigiano per essere informato di notizie, quali l’arrivo di un generale o l’avanzata di truppe, che certo sono conosciute da tutta la città. È invece chiaro che Ceruti, pur se sfiorato da qualche dubbio sulla serietà del carteggio di Salvago, non arriva a sospettare il carattere prettamente burlesco che quegli scritti assumevano per i contemporanei. Ora, questa veloce ricostruzione del posto occupato da Gabriele Salvago fra Roma e Venezia, quella di un involontario buffone, quasi di un « grasso legnaiuolo » della Repubblica delle Lettere, ci pone davanti alla tentazione di compiere un passo successivo: mettere in dubbio l’attribuzione a Salvago dei dieci sonetti dell’Ambrosiana.

Infatti non troviamo mai, nelle numerose lettere di Gabriele Salvago, la minima allusione alla sua attività poetica; fatto difficilmente comprensibile se davvero circolano molti suoi sonetti, come afferma la premessa alla raccolta. Intorno alle circostanze della divulgazione dei testi, poi, certamente non bisogna dare troppa fede a questa pagina in cui un anonimo « amico » di Salvago afferma di aver sottrato i componimenti al genovese: premesse di questo tipo – basti ricordare quella al primo libro delle lettere dell’Aretino – erano spesso mere finzioni.

Altri indizi li troviamo nei paragrafi di parafrasi, il cui lessico fa sospettare un autore locale (« cadrega » per « sedia », « bozolo » per « gruppo »). Le definizioni che forniscono al lettore non sempre si limitano a dare semplici traduzioni, come « incedo: vado » o « ipocondria: tosse di sfreddimento », ma a volte insistono senza necessità su aspetti comici (« le bestie: essi cardinali ») o si collegano al contenuto del sonetto per assecondarne gli intenti, come nel componimento contro gli spagnoli in cui « cantafole » viene definito « favole, et vane inventioni, o come alcuni dicono spagnolate ». Lo stesso tono di ossequiosità nei confronti di Salvago, che percorre la raccolta dalla premessa all’ultimo sonetto, stona così tanto nella mente di chi ha letto i Detti e fatti e ricorda che anche le lettere del genovese erano date per « pazzie » da parte del compilatore di S 84 sup., che diventa difficile non vederci un esempio di quei commenti giocosi così in auge nel secolo di Francesco Berni e Andrea Calmo40.

Mentre sarebbe una vana impresa ricercare nelle lettere di Salvago il minimo accenno di autoironia, in dieci sonetti lo vediamo quasi bastonato per ordine di potenti cardinali (II), amante di posizioni amorose poco accette alla virilità del tempo (III), vittima di un artigiano e disprezzato da una cortigiana (IV), sospetto di omosessualità (V), parassita del desinare altrui (VI), e perfino preso in giro dalla serva della donna che desidera (IX), un ridicolo accentuato dalle iperboliche perorazioni che spesso aprono i sonetti: « Potrei dire che possedei il Papato / Vent’anni in filo pria ch’entrasse Pio » (II); « Sono io meglio informato, o, ferma il detto » (VI); « Che mi giova esser dotto? Che mi vale / Scender da patria illustre e gran brigata? » (IX). Sono testi in cui il comico scaturisce quindi soprattutto dai veloci cambiamenti di registro: nel sonetto IV per esempio, la prima quartina e i due primi versi della seconda mettono in scena un alterco fra il poeta, che in ritardo corre in chiesa, e un « vil huomo » artigiano che « zappandoli sui zoccoli » lo priva delle suole delle scarpe; ma alla vivacità della ridicola descrizione (« Or mentre lui minaccio, et miro quelle / Et del danno il disturbo più mi pesa ») seguono due versi dall’andamento solenne: « Esce fuor petulante, grave, e tesa, / Livia bella quel dì sopra le belle », prima di chiudere, nell’ultima terzina, con l’immagine del poeta che per paura di perdere del tutto la dignità rimane impalato, « ritto in piedi », a vederla partire dolendosi di una povertà che lo priva di servitori e di gondola.

Infine la frequenza dei latinismi (hospitio, pallio, imbelle, janua, pedissequa, ecc.), con le relative definizioni date in nota, negli anni veneziani di Salvago (1565-1573) certamente guarda almeno con un occhio verso una recente e dissacrante moda letteraria, quella della poesia fidenziana, iniziata con la pubblicazione nel 1562 dei Cantici di Fidenzio di Camillo Scroffa41. Ora, a parte gli arcaismi linguistici e la canzonatura della figura del pedante, assai compatibili con la satira di Salvago che abbiamo incontrato per esempio nei Detti e Fatti, i testi di Scroffa e dei suoi seguaci hanno proprio come caratteristica quella di essere un « falso letterario »42, nel quale il vero autore si nasconde dietro l’identità del suo bersaglio polemico, generalmente un grammatico o un maestro. Vedere questi dieci sonetti come un abbozzo di raccolta fidenziana irregolare – lontani dal mondo della scuola, questi testi si avvicinano alla satira antiputtanesca che fiorì a Venezia durante tutto il Cinquecento – potrebbe quindi per noi meglio fare tornare i conti43.

Imbattendosi nella figura del « bizzarro gentilhuomo » Gabriele Salvago, mentre stava diligentemente catalogando le carte appartenute a Gian Vincenzo Pinelli, Antonio Ceruti non ha quindi voluto lasciarla immersa nell’ombra che la circondava da secoli; ma, restio per gusto e per ideologia alle sottigliezze della poesia burlesca, non ha probabilmente voluto guardare troppo da vicino i testi che stava portando alla conoscenza del pubblico, come mostrano i suoi tanto frettolosi quanto pesanti interventi di selezione e di censura. I suoi intenti certo erano altri: richiamare alla luce nomi sconosciuti in mezzo ai grandi del secolo per quanto riguarda l’antologia; fornire agli studiosi della storia di Genova qualche informazione circa un loro concittadino con il volume di lettere. Così facendo – se le ipotesi che proponiamo in questo breve saggio possono essere accolte senza troppe modifiche – ha commesso un sostanziale controsenso: Salvago non è un amico di Pinelli che deve all’affetto del collezionista il fatto di esssere rimasto presente nelle biblioteche di Milano o di Venezia, ma il bersaglio di un’elaborata satira continua che lo seguì, forse a sua insaputa, dagli anni romani a quelli veneziani, e coinvolse alcuni fra i nomi più noti della cultura e della politica del tempo. I sonetti che qui pubblichiamo sono forse il punto più alto, ma certamente non l’unico, di una beffa durata vent’anni che ci tocca ancora ricostruire per intero.

Criteri di trascrizione

Per dare questa nuova edizione dei sonetti siamo partiti dal manoscritto, che non richiedeva grandi modifiche: per facilitare la lettura abbiamo modernizzato la punteggiatura, le maiuscole e gli accenti e sciolto le poche abbreviature.

[Dedica]44

Per quel poco tempo che mi son ritrovato star in Vinegia, mentre v’è stantiato il signor Gabriel Salvago, credo io che pochi o nessuno più di me abbia seco domesticamente praticato, perciochè sì di giorno come di notte ben spesso m’è occorso con esso lui ritrovarmi et in luoghi tali, ove ad ogn’uno con ogni libertà era concesso poter ragionar a sua voglia et senza alcun rispetto, et di che et di cui più gli piacesse. Piacque adunque et alla mia fortuna di quel tempo et alla cortesia di esso Salvago, nell’abitation del quale domesticamente et liberamente praticava, che un giorno, mentre egli per non so che era uscito di camera, ebbi comodità di far un onesto furto di alquanti suoi sonetti, che egli teneva abbozzati sopra alcuni fogli di carta, composti da lui secondo le occasioni che gli s’erano appresentate in quei giorni, in molte delle quali mi ci trovai presente ancor io. Questi ho fin qui tenuti presso di me nascosti, dubitandomi, quando gli avessi mostrati ad alcuno, di fargli dispiacere, massime non essendo quelli, come ho detto, se non nell’essere del primo nascimento. Ora mo avendone io veduti molti di suoi usciti in luce, non potendo credere senza suo assenso, non conoscendo alcuno di sì audace et arrogante natura, a cui bastasse l’animo di torsi a petto un flusso di tanta eloquenza, ho preso sicurtà di mandar fuori anco questi pochi, per dar (se però è possibile) acrescimento alle sue lodi. Accettategli et accarezzategli adunque, signor compadre45, come puri et legittimi parti di quel nobilissimo ingegno; et se ben, come gli altri da voi veduti, non ne fate altro giuditio che quello che v’ho di sopra detto, prendendone per essempio quei figliuoli, che nati degli stessi padri et madri, ma innanzi il debito suo tempo, benché vivano, non però s’assomigliano a’ loro fratelli in grandezza di persona o in formosità di volto; et aggradendo insieme il mio buon volere, conservatemi vostro.

[I]

Roma cangiata oimè da quel di pria,
Et fatta hoggi di albergo a sdegno, et ira,
Come in sicuro te porto a te mi gira,
Città meravigliosa, ricca e pia.

Mentre l’occhio ti guarda, il piè s’invia
Contempla l’intelletto, il senso tira,
Che narcotico paio a chi mi mira
Sì mi causa il tuo vario letargia.

O comodo civile, o cara, o queta
Cimba, che senza Tifi46, che mi guidi
In te giuoco, in te dormo, in te coisco47!

Degna ch’in stil moderno, in sermon prisco48,
Canti delle tue lodi ogni poeta,
Sì che voli tua fama a gli altrui lidi.

[II]

Tra gli più vecchi cortigian son io,
Antiquo più di tutti, e consumato.
Et potrei dir che possedei ‘l Papato
Vent’ anni in filo pria ch’entrasse Pio.

49 che ben conobbe il valor moi
Volse degnarmi del Cardinalato.
Ma, perchè essendo grande, ero invidiato,
Mi si fece tal grado all’hor restio.

Quindi fra Cardinali et me, contese
Nacquer, né volli stargli un pel di sotto.
Ma sempre i’ mi dipinsi et dotto, et bravo.

Coglier poi mi cercar, mentre passavo
Da corte ver l’ospitio, a un baston sotto,
Le bestie di Cornaro e di Farnese.

vendo inteso alcuni nobili che per aver sparlato meser Gabriel di certi cardinali era stato bastonato gli dimandorno, si ciò era vero. Il che egli negò che avesse il lor desio avuto effetto, narrando le cagioni per le quali diventò nemico ad essi cardinali et dipingendo le sue conditioni.

In filo: continui.
Hospitio: habitatione.
Le bestie: essi cardinali.

[III]

Madaluzza a fanciulle de dozzena,
Poter di Dio, dee dirsi, et non far torto
A donna di tal pezza, a cui l’accorto
Di gusto dir dovrebbe Madalena.

Vale nel senso buono, mi dà lena,
Mi dà forza e virtù, mi dà conforto,
Che l’altro diminuto et semimorto,
on invita o provoca a tanta vena.

Ha così grave incesso e entrar quadrato,
Che Ginetto assomiglia nel maneggio.
Né so ben se le basti il parangone.

Così stesse ella nuda, et io ‘l giuppone
Le brache, el pallio m’havesse levato
Et fosse a sì bel corpo il mio sen seggio.

Ritrovandosi meser Gabriel ad una festa d’alcuni gentilhuomini dove era una gratiosissima et bellissima gentildonna, sentendola nominar Madaluzza disse che era nome imperfetto et indegno a donna tale.

Grave incesso: gravità nel caminare.
Entrar quadrato: passo di maestà e di reputation.
Pallio: vestimento di sopra.
Seggio: scagno, e cadrega.

[IV]

A l’abito vil huomo, a 1’aere imbelle,
Là, dove non cred’ io per farmi offesa
Mentre di trotto tardo incedo in Chiesa
Zappando disciolsemi le pianelle.

Or mentre lui minaccio, et miro quelle
E del danno il disturbo più mi pesa
Esce fuor petulante, grave et tesa,
Livia bella quel dì sopra le belle.

Mi mira, rode il morso et si spalleggia,
Ch’el cale largo intorno a venti piedi
A pena nel diametro la cape50.

Restai come mi colse ritto in piedi,
Che seguirla il mio piè scalzo non sape
Né men ho chi di gondola proveggia.

Volendo meser Gabriel entrar una mattina dentro una chiesa, un artigianuzzo zappandoli su i zocoli gli scuscì tutte due le suole et mentre dice villania a colui, e guarda essi zocoli discusciti vien fuori di chiesa la signorina Livia Azzalina a cui egli aveva affettione et cercava molto di entragli in casa, onde si dole non potergli andar dietro, come avrebbe fatto, se avesse le pianelle intiere, o il servo, che gli provedesse di gondola.

Imbelle: non armigero.
Trotto tardo: passo lento.
Incedo: vado.
Petulante: baldanzoso e che move a rimirare.
Rodea il morso: movea per bocca la lingua.
Diametro: di mezzo della via.

[V]

Il buon giorno a la Vostra Signoria,
C’è di novo stamane alcuna cosa?
A forza la mattina si riposa
Chi di notte patisce ipocondria.

Ier mi disse il Grimani51 per la via
Ch’era giunto il Quirino a Saragosa52,
E venuto nel golfo Caracosa53,
Ma non sa se di questo ha bona spia.

Per sorte il mio Negroni54, o 1’Omelino55
Sarebbon trapassati qui per chiesa?
A Dio. Ch’in piedi a infermo il56 star non giova.

Figlio mio57, questa janua ti fa offesa.
Ma costei, ch’ora incede Elena nova,
Non è moglie di Paolo Contarino58?

Avendo meser Gabriel patito tutta notte di tose, andò tardi per udir messa, et ritrovato in chiesa un nobile amico suo gli dimanda se vi è di novo, narrandoli quello aveva inteso dal Patriarca Grimani il giorno avanti. Poi veduto un bellissimo giovane, né sapendo come entrar a ragionar seco, accostatoglisi et postagli una mano sopra le spalle, gli dice che il vento il quale entrava per la porta a lui vicina gli avrebbe fatto danno, dimandandogli poi informatione di una gentildonna che entrava all’hora in chiesa.
Ipocondria: tosse di sfreddimento.
Haver bona spia: vera relatione.
Janua: porta.

[VI]

Son io meglio informato, o ferma il detto,
E mentre il savio parla, ruba e taci.
Credi a me, si del ver tu ti compiaci
Ier sera io ‘l seppi mentre andavo a letto.

Ecco vien di collegio Facchinetto59,
Spuntano gli affamati suoi seguaci.
Se da lui tu ti guardi, tu mi piaci,
Che giuoca intorbigliato, et parla schietto.

Porterà scuti neri dieci mille
Fuori del suo messer san Gioan Forlan60.
Santo i grandi di sopra, et lo so io.

Veggo Francesco Pesaro61 lontano
Salviamci dalla pioggia, patron mio!
Ulisse, ritrovasti a tempo Achille.

Ritrovandosi meser Gabriel una mattina che pioveva in corte di Palazzo in un bozolo62 di molti gentilhuomini, e dimandandosi ciò che vi fosse da novo, un de i più giovani volse cominciar a rispondere, il che spiacendo a meser Gabriel gli diede su la voce quasi dicendo che non toccava a parlar a lui, dove era persona più dotta et di maggior età et volse che toccasse a esso il dargli risposta. Ma vedendo il legato venir giù di collegio, lasciando il primo proposito si volta a parlar di lui, et poi venuta l’hora del desinare e visto di lontano meser Francesco da Pesaro che voleva montar in gondola per andar verso casa, li va dietro, monta in gondola anch’esso et desina seco quella mattina.

Scuti neri: colorati et trabbocanti.

[VII]63

Non fa per ogni stomaco ber fresco.
Ier desinai con Marcanton Colonna64,
Gridato ho tutta notte « Nostra Donna! ».
Né con teco, salnitro, mai più tresco.

Ier sera non cenai né vidi desco,
Ma levata di subito la gonna
D’un salto entrai nel letto, ove madonna
Stamane fé sorbirmi un ovo fresco.

Dioscoride et Galeno, vada al chiasso!
Se di dar scacco a medici tu hai voglia,
Non levar pria di Febo, et lento il passo.

A cena, quando il capo pur ti doglia
Con l’insalata, averti fuggi il grasso,
La tua carne minuta, et vatti spoglia.

Ritrovandosi il signor Marcantonio Colonna in Vinegia per le cose della Lega65 restò meser Gabriel una mattina tra l’altre a desina[r] seco, ove da un servitore gli fu dato un bicchiere di vino fatto fresco anzi fredo col salnitro, il qual gli fece grandissimo male essendo egli di debolissimo stomaco. Di questo dolendosi entra poi nella sua regola di vivere con la qual dice, che chi la osserva si mantien sano et non ha bisogno di medici.

Gonna: benché per il piu s’intenda vesta di femina qui però si piglia per quella che porta l’uomo per casa, et più tosto per quella con la quale il dotto studia.

[VIII]

Fatti, fatti, Spagnuolo, et non parole;
Non si pone il nemico suo in ruina
Per perdersi fra Napoli, e Messina66.
Son ciancie queste tue, son cantafole!

Ben scortica si dice a chi non dole,
Ma tal prepara altrui la medicina
Che la sua infermità forse ha vicina,,
Et peggio habbia (se può) chi così vuole.

Veneto, sta avvertito al fatto tuo:
Il dotto ti ragiona, et non ha sonno;
Son figlio di Republica anchor io!

Fan tutto quel che sanno, et quel che ponno,
E congiunta con gran forza a mal desio,
Cercan quel che possedi, un dì far suo.

Andando al fresco in gondola meser Gabriel con alcuni nobili suoi confidentissimi amici dolendosi esso fra di loro, che l’armata de’ spagnuoli non si congiungeva mai per tempo con la Veneta et che li andamenti suoi portavano infiniti danni alla sua Republicca, esso meser Gabriel spiegò questo bellissimo et vero concetto dicendo « per il ben che ti voglio, Venetia, mi s’è spiccato dal cuore ».

Cantafole: favole, et vane inventioni, o come alcuni dicono spagnolate.

[IX]

Che mi giova esser dotto? Che mi vale
Scender da patria illustre e gran brigata,
Se Medea per miei danni e bella e ingrata
Con ingorda risposta ognihor mi assale?

O di femina lingua homicidiale,
Pedissequa incivil, male educata,
Se ti do ‘l mantel mio per advocata,
Perché farti ministra del mio male?

Ben Medea veramente in nome67 in fatti,
Che senza succhi e virtù d’herbe o sassi,
Con la sola parola un huom trasformi.

Col corpo col qual teco pensai pormi
Nel letto, e sodisfar a sensi, a tatti,
Qual (oimè) metarmorfosi farassi?

Piacendo molto a meser Gabriele la signora Medea et havendo egli tentato più vie per godere di lei, pascendolo esso di speranza et menandolo d’hoggi in dimani, trovando un giorno per strada la sua massara gli donò alquante monete, et la indusse a persuader la sua patrona a doverlo contentare. Dalla quale indi a pochi giorni avendo risposta, che bisognava esborsar cinquanta ducati prima che ponesse il piede entro della porta, e questo per una notte solamente, quasi che stupefatto et fuor di se disse le prefatte parole.

Pedissequa: massara over fantesca.

[X]

Ecco Circe crudel, non più Medea.
Come il più saggio cortigian di Roma
La tua poca pietà converte e doma,
Inimica di Venere e d’Astrea68.

Quel già serico pileo, che solea
Coprir mia rara, chierifica coma69,
Hora non so più dir quel, ch’ei si noma,
Dissimile dall’esser che tenea.

Spargonsi mille frondi intorno al volto,
E mi cingon più rami omai le tempie,
Tal che novo Filemone70 divento.

Onde tardo d’amarti oggi mi pento.
Poiché con le tue voglie inique et empie
M’hai71 della propria forma anco fuor tolto.

Il presente sonetto compose meser Gabriel come l’altro, stando ancor fuor di sé per la risposta avuta della signora Medea, della quale mostrava esser ardentemente accesso. Perilché accorgendosi pure della stupidezza nella quale era entrato stando talor le ore immobile, si figura nuovo Filomone converso da Giove in quercia, o come diciam noi in rovere.

Serico pileo: capello di seta, et da uomo grave.

Note de fin

1 Antonio Ceruti, Rime di poeti italiani del secolo XVI, Bologna, Gaetano Romagnoli, 1873, p. 88-94. Due ortografie, Salvago e Selvago, coesistono nel Cinquecento.

2 Per estese notizie relative a Gian Vincenzo Pinelli (1535-1601), di origine genovesi ma nato a Roma e vissuto a Padova, rimandiamo all’edizione critica di alcune delle sue lettere: Gian Vincenzo Pinelli, Claude Dupuy, Une correspondance entre deux humanistes, introduction, notes et index d’Anna Maria Raugei, 2 vol., Firenze, Leo S. Olschki, 2001.

3 Gabriele Salvago, Della città di Venezia / lettera inedita di Gabriele Selvago genovese a messere Camillo Paleotto, con avvertenza di Emmanuele Cicogna, Tipografia Merlo, Venezia, 1842.

4 Francesco Saverio Quadrio, Della Storia e della Ragion d’ogni poesia, Milano, Agnelli, 1752, Volume II, Libro I, Dist. I, Capo VIII, Particella III.

5 Michele Giustiniani, Gli Scrittori liguri descritti dall’abbate Michele Giustinian patritio genovese De’ Signori di Scio, E dedicati alla Serenissima Repubblica di Genova. Parte Prima, Roma, Nicol’Angelo Tinassi, 1667.

6 Un profilo biografico del Navagero si può trovare in introduzione all’edizione della sua corrispondenza ufficiale durante la sua ambasceria a Roma, cf. Daniele Santarelli, La corrispondenza di Bernardo Navagero ambasciatore veneziano a Roma (1555-1558), Roma, Aracne, 2011. Navagero fu poi legato pontificio durante l’ultima parte del concilio di Trento, e fece segretamente da tramite fra l’evento religioso e una Serenissima poco inclina a appoggiare appieno l’inizio della Controriforma, cf. Hubert Jedin, « Venezia e il Concilio di Trento », in Studi Veneziani, XIX, Pisa-Roma, Fabrizio Serra, 1972, p. 137-158.

7 E così la loro esistenza viene debitamente registrata da Danilo Romei nella sua bibliografia dei burleschi del Cinquecento, cf. http://www.nuovorinascimento.org/cinquecento/burleschi.pdf (consultato il 29 giugno 2014).

8 Livia Azzalina è rubricata nel Catalogo di tutte le più honorate cortigiane di Vinegia, a lei dedicato, sotto il numero 132: esercita la professione a San Marcilian, e la sua tariffa – 25 scudi – è la seconda più alta di tutto il Catalogo, dopo i trenta ducati di Paulina Fila Canevo di Santa Lucia. È inoltre presente negli archivi dell’Inquisizione veneziana: Archivio di Stato di Venezia, Santo Uffizio, busta 64.6.

9 Antonio Ceruti, Gabriele Salvago patrizio genovese – Sue Lettere – Notizie e documenti, Atti della Società Ligure di Storia Patria, XIII, 1880, 4, p. Abbiamo realizzato l’indicizzazione di queste centocinque lettere per il progetto Archilet – Reti epistolari, liberamente consultabile in rete (http://www.archilet.it).

10 Emanuele Cicogna, quando pubblica nel 1832 la lettera di Salvago sulla repubblica di Venezia, si accontenta di parafrasare il testo di Navagero sul quale torneremo.

11 Se il nome di Medea non è particolarmente raro fra le prostitute veneziane del Cinquecento, nessuna di quelle venute a nostra conoscenza sembra corrispondere a quella desiderata dal poeta.

12 Antonio Ceruti, Gabriele Salvago patrizio genovese – Sue Lettere – Notizie e documenti, op. cit., p. 723.

13 Si tratta di un volume miscellaneo conservato sotto la collocazione S 84 sup. del fondo Pinelli.

14 Il lettore curioso potrà paragonare l’edizione che diamo qui ai volumi ottocenteschi, tutti e due reperibili in rete: per l’antologia cf. https://archive.org/details/rimedipoetiitali00ceruuoft mentre per la raccolta di lettere tratte dall’Ambrosiana cf. https://archive.org/details/SalvagoLettere_201404 (indirizzi constultati il 15 luglio 2014).

15 Ridiamo a questo sonetto il suo posto, il terzo, nella nostra edizione.

16 La prima lettera è firmata il 21 aprile 1546.

17 Antonio Ceruti, Gabriele Salvago patrizio genovese – Sue Lettere – Notizie e documenti, op. cit., p. 709.

18 Ibid., p. 710. Infatti in una lettera a Pinelli si dichiara « delegato della sede apostolica » (A 51 inf., c. 4, lettera del 3 marzo 1567).

19 È quello l’oggetto, non a caso, della lettera curata da Cicogna: insperato trovare quelle lodi – ormai scontate nel Cinquecento inoltrato – scritte da un figlio della repubblica nemica.

20 L’ultima lettera conservata dal fondo Pinelli risale al 16 aprile 1575.

21 Antonio Ceruti, Gabriele Salvago patrizio genovese – Sue Lettere – Notizie e documenti, op. cit., p. 709.

22 Ibidem, p. 716-7.

23 Le copie milanesi sono conservate nei codici S 84 sup. e R 95 sup., quella veneziana nel Ms. It. IX, LXXVI (=7047).

24 Antonio Ceruti, Gabriele Salvago patrizio genovese – Sue Lettere – Notizie e documenti, op. cit., p. 720.

25 Per esempio quella del 3 luglio 1567.

26 Biblioteca Ambrosiana di Milano, A 51 inf., c. 96 (lettera del 22 marzo 1571).

27 Ibid., c. 9, (lettera del 12 aprile 1567).

28 Ibid., c. 50 (lettera del 1570 – data non meglio precisata).

29 Ibid., A 51 inf., c. 12 (lettera del 2 agosto 1567).

30 Ibid., A 51 inf., c. 4 (lettera del 3 marzo 1567).

31 Per esempio, Ibid., c. 13 (lettera del 18 agosto 1567), o c. 73 (senza data).

32 Ibid., c. 12 (lettera del 2 agosto 1567), c. 26 (luglio 1568), ecc. Anche a un lettore malintenzionato non riesce di cogliere in questi frutti un significato equivoquo.

33 Biblioteca Ambrosiana di Milano, S 84 sup., dalla c. 94 alla c. 195.

34 Cf. Ibid. c. 26: « Le mando gli originali miei delle due lettere del Gerbi et di Alessandria per fuggir fatica nel copiarle: di gratia nel rimandarle v.s. averta darle a persona cauta; che tutto che poco vagliano non pero per memoria solo della cosa le vorrei perdere ».

35 Biblioteca Ambrosiana di Milano, S 84 sup., cc. 172-177.

36 Cf. Ibid., cc. 182-185. Si tratta di Salvago, ironicamente lodato. Lo spazio manca qui per analizzarlo, riserviamo questo lavoro ad un futuro intervento.

37 Cf. Ibid., cc. 186-187. Salvago si congratula con Cosimo I del titolo di granduca conferitogli da Pio V, e gli offre un « discorsetto » che volge presto al satirico: lo deride in quanto quel titolo esiste già in Stati di minori dimensioni, come Parma, Modena o Urbino, ma soprattutto perché Cosimo non possiede neanche tutta la Toscana.

38 Ibid., cc. 196-205.

39 Ricordiamo che il registro A 51 inf. finisce nel 1573; la stesura dell’antologia sicuramente non risale a una data molto posteriore.

40 Su questargomento cf. gli atti del convegno: Antonio Corsaro, Paolo Procaccioli, Cum notibusse et comentaribusse. L’esegesi parodistica e giocosa del Cinquecento, Seminario di Letteratura italiana, Viterbo, 23-24 novembre 2001, Roma, Vecchiarelli, 2002.

41 In realtà una probabile prima edizione, ormai perduta, circolava già durante gli anni 1550. L’edizione critica di riferimento dei Cantici rimane quella di Pietro Trifone: Camillo Scroffa, I cantici di Fidenzio – con appendice di poeti fidenziani, a cura di Pietro Trifone, Saleno, Roma, 1981. Comprende anche unantologia dei principali imitatori di Scroffa nel Cinquecento. Per un profilo completo della critica su Fidenzio, cf. Katharina Hartmann, I Cantici di Fidenzio di Camillo Scroffa e la pluralità dei mondi – Il canone classico, l’eredità del Petrarca e la tradizione giocosa, Bonn, Bonn University Press, 2013, p. 20-41; ma rimandiamo anche a Ivano Paccagnella, « I francolini di Marco Polo. Fonte, citazione, parodia  », in Costanzo Di Girolamo, Ivano Paccagnella, La parola ritrovata. Fonti e analisi letteraria, Palermo, Sellerio, 1982, p. 160-178, e più recentemente a Alessandro Capata, « Il petrarchismo degli anticlassicisti. Il caso di Camillo Scroffa e del fidenziano », in Cristina Montagnini (a cura di), I territori del petrarchismo. Frontiere e sconfinamenti. Atti del Convegno « Petrarca, Petrarchismi. Modelli di poesia per l’Europa », Roma, Bulzoni, 2005, p. 153-169.

42 L’espressione è di Pietro Trifone, cf. Camillo Scroffa, I cantici di Fidenzio – con appendice di poeti fidenziani, op. cit., Introduzione.

43 Ovviamente, il nostro è solo un lavoro preliminare: uno studio più preciso delle lettere e delle varie carte dei due codici pinelliani sembra d’obbligo; occorrerà inoltre collazionare le tre versioni esistenti dei Detti e Fatti, ma anche cercare a Roma altre copie, tanto parrebbe strano che questo testo così prettamente curiale, benché opera di un veneziano, sia sopravvissuto solo in Veneto; così avremo forse un’idea più precisa della circolazione della satira. Ma pare più urgente ancora un sondaggio dei rapporti fra i cenacoli letterari di Venezia e Padova, cioè nel tardo Cinquecento particolarmente quelli di Gian Vincenzo Pinelli, Giacomo Contarini e Domenico Venier, fra i quali probabilmente si muoveva il non mediocre autore dei sonetti.

44 Questa pagina è senza titolo nel manoscritto.

45 Probabilmente Gian Vincenzo Pinelli.

46 Questo doppio riferimento, alquanto oscuro, è tratto da Plinio, Storia Naturale, Libro 7, LVII, 17, probabilmente – come lo dimostra l’ortografia delle due parole – nella traduzione del Domenichi (Istoria Naturale di C. Plinio Secondo, tradotta per Lodovico Domenichi, Venezia, Gabriel Giolito, 1561). La « cimba » (« cymba » in latino) è una barca inventata dai Fenici, mentre « Tifi » (« Tiphys » in latino) sarebbe l’inventore del timone.

47 Ceruti: « gioisco ».

48 « Lingua antica », è sintagma petrarchesco (R.V.F. XL, v. 6).

49 I puntini sono nel manoscritto. Nell’antologia del 1873, Ceruti riempie il vuoto con « ed ei », mentre ristabilisce i puntini nell’articolo del 1881.

50 « Contiene ».

51 Giovanni Grimani (1506-1593), patriarca di Aquileia; si tratta proprio del prelato che fu sospettato di eresia all’inizio degli anni 1560 e assolto dopo forti pressioni sul tribunale ecclesiastico da parte del Consiglio dei Dieci, cf. Andrea Del Col, « L’Inquisizione romana e il potere politico nella repubblica di Venezia (1540-1560) », Critica Storica, XXVIII, 1991, p. 223-4.

52 Probabilmente Siracusa, dove l’ammiraglio veneziano Marco Querini congiunse le proprie navi con il resto dell’esercito della Lega alla fine dell’estate 1570.

53 Caracosa (o Khara Khodja, o Kharagoes), pirata agli ordini del comandante Alì Pascià che era riuscito a penetrare di notte nel porto di Messina per ottenere informazioni sulla flotta cristiana.

54 Battista Negrone (1522-1592), nobile genovese residente per affari a Venezia e futuro doge di Genova.

55 Un membro non precisato della famiglia Lomellini, quindi un altro patrizio genovese.

56 Ceruti toglie l’articolo.

57 « Figlia mia » per Ceruti.

58 Il patrizio Paolo Contarini (1529-1585) nel 1570 è provveditore a Zante, e in quanto tale « recherà un valido contributo alla vittoria di Lepanto con le informazioni sollecite e dettagliate che riuscirà a dare alla Repubblica sui movimenti della flotta ottomana » (Gaetano Cozzi, « Contarini, Paolo » in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 28, Roma, Treccani, 1983).

59 Giovanni Antonio Facchinetti, futuro papa Innocenzo IX, fu nunzio pontificio a Venezia dal 1566 al 1572.

60 Non abbiamo trovato informazioni su questo personaggio.

61 Nobile veneziano.

62 Un gruppo (veneziano).

63 Ceruti aggiunge questa frase al paragrafo: « È questo il solo Sonetto su tale argomento composto dal Salvago, sebbene il Quadrio ed altri abbiano scritto che di lui vi sono “dieci o dodici sonetti in occasione che il ber fresco gli fece male” ».

64 Marcantonio Colonna, generale della flotta pontificia, fu presente a Venezia durante l’estate 1570 per convincere la Serenissima a mandare tutte le galee promesse al papa.

65 Contro i turchi, che conduce alla battaglia di Lepanto. Numerose lettere di Salvago trattano dell’argomento.

66 La flotta spagnola era aspettata a Messina da quella pontificia nell’estate 1570.

67 Ceruti aggiunge qui la congiunzione « e ».

68 La giustizia.

69 Capelli (lat.).

70 Se Filemone è stato trasformato in quercia da Giove, non si trattava come qui di un atto di crudeltà, ma di una ricompensa, permettendogli di continuare a vivere, anche dopo la morte, con sua moglie Bauci; come quello di Astrea, questo è un mito tratto da Ovidio, nella continuità del tema della metamorfosi comune col sonetto precedente.

71 Ceruti corregge « M’ha ella ».

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Référence électronique

Fabien Coletti, « Dieci sonetti burleschi attribuiti a Gabriele Salvago (1570): dall’ambiguità fidenziana alla censura ottocentesca nel fondo Pinelli dell’Ambrosiana. », Line@editoriale [En ligne], 6 | 2014, mis en ligne le 29 mars 2017, consulté le 29 avril 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/559

Auteur

Fabien Coletti

cayincoletti@yahoo.it

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