Un romanzo e un film
Quando Marco Turco s’imbatte nel romanzo La straniera di Younis Tawfik, l’opera dello scrittore iracheno, stabilito da tre decenni a Torino, è da mesi un best-selleri. Il regista, autore di vari film e documentari (e ultimamente di una serie televisiva su Franco Basaglia, C’era una volta la città dei matti, 2010, girata per la RAI), si appassiona per la storia di Amina, una ragazza marocchina clandestina in Italia. Nel film, come nel romanzo, il racconto viene trasmesso alternativamente dalla donna, che si ritrova a dover sopravvivere attraverso la prostituzione, e dall’altro personaggio protagonista, l’architetto, immigrato anche lui, ma perfettamente inserito nella società italiana : vive da trent’anni a Torino senza tenere contatti con altri arabi, fino a quando incontra Amina.
La straniera è un continuo incrociarsi di sguardi poiché la rappresentazione della donna protagonista passa attraverso una penna poi una cinepresa entrambe maschili ; s’incrociano anche le origini dato che il racconto è trasmesso una prima volta da un autore non nativo che si esprime in italiano, poi da un regista italiano che fa sua la storia di due stranieri stabilitisi in Italia. Il film come il romanzo mette in parole e in immagini gli ambienti nei quali si evolvono i due personaggi, nel loro paese d’origine e nei quartieri, « colorati » o meno, di Torino alla svolta del ventunesimo secolo. Lo spettatore, come il lettore, viene trasportato all’interno di un « altro mondo » a due passi da casa sua, e di un « altrove geografico », paese d’origine di persone che costeggia tutti i giorni senza sapere niente di loro né del loro passato, in questo caso il Marocco : « […] meta di molte delle nostre vacanze, che spesso ci affascina ma che altrettanto spesso non conosciamo se non nel suo più superficiale, folcloristico aspettoii ». Come per insistere su questa vicinanza/lontananza, la struttura del film, imitando quella del romanzo, è fatta di andirivieni narrativi e geografici, con classiche dissolvenze incrociate che trasportano lo spettatore da Telouet, Marocco, o da Marrakech, a Torino e viceversa. Queste transizioni, che nel romanzo sono sottolineate da poesie intercalate nel raccontoiii, sono spesso accompagnate nel film dalla musica, di Natacha Atlas, Tim Whelan e Hamilton Lee, che attingono felicemente dalla tradizione delle due sponde del Mediterraneo, ai quali Marco Turco ha affidato la colonna sonora del lungo-metraggio.
È costante la cura del regista a cercare tutti i modi di tradurre in linguaggio cinematografico le caratteristiche, anche strutturali come abbiamo visto, del romanzo. È stato, tuttavia, necessario cedere a alcune esigenzeiv, di produzione o di circostanze ; per questo il protagonista maschile è marocchino nel film, e non iracheno come nel romanzo : era impossibile immaginare di andare a girare in Irak le scene della gioventù dell’architetto. Altri cambiamenti di cittadinanza sono stati operati, sempre con l’approvazione benevola dello scrittore che, come in segno di consenso, in una scena del film appare di sfuggita vicino al protagonista interpretato da Ahmed Hafiane, un attore tunisino che, con La straniera, ho cominciato una carriera in Italiav.
Questi altri cambiamenti, che specificheremo più avanti, non più provocati da necessità contingenti, mettono in moto un gioco particolare e sottile intorno a : « chi è straniero nei confronti di chi ». Il sentimento d’estraneità è inerente al percorso migratorio e lo troviamo rappresentato in tante pagine della letteratura mondiale e in una moltitudine di sequenze cinematografiche. Anche la letteratura e il cinema italiano, da quando l’Italia riceve a sua volta in massa chi è nato altrove, lo mettono in scena dopo che è stato vissuto da tanti italiani, e rappresentato, sulle piazze, nelle strade e le campagne del mondo intero, da Marsiglia a New York, Buenos Aires, São Paulo, in Australia... Ne troviamo, nella citazione che segue, un’espressione contemporanea, molto simile, ci sembra, a quella voluta da Marco Turco, e cioè non univoca, tratta dal romanzo Il padre e lo straniero :
Si sentì solo in mezzo a una folla ostile, solo con il suo mezzo salmone in una busta di plastica in una mano e i pomodori e le arance nell’altra mano. Era così che si sentivano gli altri, gli stranieri ? Walid non aveva l’aria di trovarsi a disagio in Italia. Al contrario, realizzò con un certo oscuro spavento, era lui a sentirsi spaesato senza l’altrovi.
Seguendo il punto di vista del suo protagonista italiano, Giancarlo De Cataldo ci immerge nel mercato romano di Piazza Vittorio che ha tanti punti in comune con quello torinese rappresentato nel film di Marco Turco : il mercato di Porta Palazzo, vantato nei dépliant come il più grande mercato all’aperto d’Europa e proposto come curiosità ai turisti in visita a Torinovii. Il mercato è per eccellenza un luogo dell’immigrazione, a tutte le epoche e in tutte le parti del mondo. È un luogo di ritrovo, è spesso una tappa economica importante perché si vende sul mercato prima di aprire una bottegaviii, e mette anche a portata di mano, per gli autoctoni, spaesamento ed esotismo senza costringerli a lunghi spostamenti. Non a caso una lunga sequenza all’inizio del film si svolge al mercato, in particolare nella parte araba, vicino alla quale l’architetto è vissuto per trent’anni senza mai avvicinarla. Lo spettatore osserva da un punto fisso il personaggio immergersi nel luogo e scoprirloix.
Fig.01
Najib nel mercato di Porta Palazzo
Un’altra sequenza del film ha la stessa funzione e fa da pendant a quella del mercato, quando l’architetto torna dopo trent’anni nella sua città natale, Marrakech. Secondo lo stesso principio – rovesciato poiché siamo ora nel paese d’origine del protagonista –, come per suggerire simultaneamente vicinanza e lontananza, la cinepresa segue l’architetto nel taxi che lo porta dall’aeroporto al centro storico di Marrakech e al famoso mercato di piazza Jemaa El-Fna, passando per i viali della parte più recente della città. Lo spettatore (ri-)scopre quest’universo insieme a lui e si sente, per empatia, nello stesso tempo a casa e in un altro mondo.
Nel film, non solo i luoghi ma anche gli incontri sono all’origine del sentimento di estraneità e spingono lo spettatore a chiedersi chi è l’italiano e chi è lo straniero. Nella storia della straniera, gli italiani in contatto con migranti entrano in una tipologia che comprende i colleghi dell’architetto, un uomo e una donna, il proprietario di un bar che, come altri personaggi del film, è la sintesi di vari personaggi del romanzo, i poliziotti dell’ufficio stranieri, che invece non erano presenti nel romanzo, e i clienti di Amina.
Prostituzione, metafora delle relazioni sociali
Questi ultimi costituiscono, potenzialmente, vista l’attività della protagonista, l’occasione più frequente di contatto tra italiani e migranti, e sono fra i nove milioni d’individui (essenzialmente uomini) che ricorrono ai servizi di persone prostitutex. Né il film né il romanzo di Tawfik vertono sulla prostituzione che funge unicamente da sottofondo. Lo scrittore è stato il depositario di una testimonianza diretta da parte di una donna marocchina che i casi della vita hanno portato alla prostituzione e che ha servito di modello per Amina, la cui storia corrisponde anche a una realtà sociologica : sulle cinquanta/settantamila persone che si prostituiscono in Italia, tra quindici e venticinquemila sono straniere, molte originarie dalla Nigeria o da vari paesi dell’Europa orientale. Il Marocco non fa dunque parte dei paesi che forniscono il contingente più importante di prostitute in Italia. Al contrario della parola al maschile, « marocchino », che da decenni viene usata in modo spregiativo, la versione femminile, « marocchina », non rinvia a nessuna semplificazione o generalizzazione come quelle che toccano invece le donne nere, descritte, in modo molto sensibile, da Igiaba Scego nel suo primo romanzo :
Quello che più detestavo della mia vita era il luogo comune. […] Una donna nera in Italia aveva, nell’immaginario comune, delle collocazioni precise. Si andava dal top ai bassifondi più tetri. Le donne nere erano cantanti di soul o di jazz, atlete da record, modelle da urlo… Questo nei casi migliori. Nei casi peggiori si era delle donne perdute, femmine avide di soldi e disposte a vendersi per pochi luridi spiccioli. In quanto donna nera mi sentivo etichettataxi.
Se, però, nell’immaginario italiano, la donna marocchina non ha un ruolo predefinito, in Marocco l’etichettaggio è invece diverso : di un uomo che parte per l’estero si dice che è uno studente, ma di una donna partita da sola si dice volentieri che è una prostituta. La stampa marocchina si fa frequentemente l’eco di polemiche che riguardano in particolare i paesi del golfo, i quali alimentano, ad esempio tramite produzioni televisive di dubbia qualità, lo stereotipoxii. Certo, la riputazione del Marocco in materia di turismo sessuale riposa su verità preoccupanti e se ne fa l’eco, in modo del tutto ufficiale, anche la fondazione Hassan II per i marocchini residenti all’estero, la quale precisa, pubblicando le cifre dell’emigrazione, che « […] negli Emirati Arabi Uniti, il 70% dei 13 000 migranti marocchini sono donne, di cui la metà fa parte delle reti di prostituzione »xiii. È altrettanto preoccupante il meccanismo che fa sì che vengano stigmatizzati i paesi nei quali la miseria, l’analfabetismo – alimentati dal malgoverno e dalla corruzione –, e anche certe forme di turismo, favoriscono la prostituzione, e non i paesi ricchi (in questo caso occidentali o mediorientali), che procurano i clienti, i quali possono addirittura, grazie a forum di discussionixiv, far circolare indirizzi di bar e alberghi da frequentare in questo paese dove la prostituzione è illegale e punita col carcere. Secondo lo stesso meccanismo, viene sempre stigmatizzata la persona che si prostituisce e non il cliente che ricorre ai suoi servizi e giustifica così la sua esistenza.
Mettendo in scena il personaggio di una prostituta, Marco Turco si rifà ad una lunga tradizione cinematografica : Amina si mette in fila dietro la Francesca di Rossellini, in Paisà nell’episodio che si svolge a Roma (1946), la Cabiria di Fellini (1957), il quale ci fa anche vedere, en passant, tante prostitute nel suo Fellini Roma (1972). Vengono in mente i personaggi femminili dei film di Monicelli, La Grande guerra (1959), di Pietrangeli, Pasolini e Visconti, tutti e tre nel 1960 (Adua e le compagne, Mamma Roma e Rocco e i suoi fratelli con il personaggio di Nadia). Si potrebbero citare altri film in cui le prostitute sono rinchiuse in case di tolleranza : La Viaccia di Bolognini (1961), ancora il Fellini Roma o Film d’amore e d’anarchia, ovvero stamattina alle 10 in Via dei Fiori nella nota casa di tolleranza della Wertmüller (1973). Ci limitiamo ad alcuni esempi cinematografici italiani, ma ricordiamo che la prostituta è una figura del cinema mondiale accennando a Pabst, Von Stroheim, Renoir, Ophüls, Fassbinder, Wilder, Scorsese, la lista sarebbe troppo lunga e comunque incompleta. E per prudenza non ci inoltriamo in altri campi d’espressione artistica, pitturaxv, fotografia, teatro, opera, commedia musicale..., dove le rappresentazioni sono innumerevoli. Questi pochi esempi ci bastano per ricordare che, sotto questo aspetto della prostituzione, con il film di Marco Turco lo spettatore non può che sentirsi « a casa » ; non è per niente spaesato. Le immagini gli sono familiari e rimandano a un immaginario codificato : cara a Fellini, l’immagine dell’attesa sotto la pioggia, che troviamo anche alla fine del film di Pietrangeli e nella straniera. Altrettanto frequente la rappresentazione della « danza » delle macchine dei clienti, ancora in Pietrangeli e Fellini, come pure nel film di Marco Turco. Quasi sempre il cliente è fuori campo o invisible dietro il filtro dello sportello e la trattativa sembra avvenire con la macchina e non con l’uomo che vi si ripara.
Fig.02
Amina in mezzo alle macchine
Le scene del film, assenti dal romanzo, nelle quali vediamo la protagonista nella realtà della prostituzione sono esemplari dell’impossibilità nella quale si trova Amina di varcare una barriera invisibile e disumana, legata non tanto alla sua origine quanto alla sua posizione sociale. Lei si trova presa nel vortice di una relazione tra dominato e dominante. La prostituzione potrebbe essere per Marco Turco, come già per Godard dietro a Mizoguchi, « la metafora dell’insieme dei rapporti sociali »xvi. Amina, come Francesca, Cabiria, Nadia, Adua, Mamma Roma e le più giovani Vesna (protagonista di Vesna va veloce di Carlo Mazzacurati, 1996) e Nadja (in La bella gente di Ivano De Matteo – 2009), tutte, italiane o straniere, mettono la società di fronte alle sue contradizioni e alla sua ipocrisia. La questione dell’origine straniera della protagonista è un pretesto narrativo e una realtà contigente. È socialmente che Amina è dalla parte sbagliata, dalla parte dei dominati di cui la società approfitta e che non hanno niente da aspettare in ritorno. Il finale è quasi sempre disperato, per le lucciole tokioite ne La strada della vergogna (1956), per Adua, la cui volontà di rompere con il passato è violentemente spezzata, anche se la sua sorte appare meno tragica di quella della viscontiana Nadia o di Mamma Roma. Neanche per Amina vi è una via d’uscita.
Il finale proposto da Marco Turco è completamente diverso da quello, surreale, del romanzo di Tawfik. Invece di far entrare i protagonisti in una vena « medico-favolistica », che non è la parte più riuscita del racconto – e che solo un lettore disattento può usare come metro per giudicare tutta l’opera –, Marco Turco li immerge nella brutale e grigia realtà di un centro che accoglie immigrati illegali. Dopo il sorriso e la gioia di essersi ritrovati, i due amanti rinchiusi nel CTP vengono ripresi con una lunga carrellata obliqua all’indietro. Anche se lo spettatore più ottimista riesce a credere che per Amina il vortice si è placato, aiutato in questo dalla voce consolante di Natacha Altlas, gli viene ricordato che molte altre resteranno dalla parte sbagliata dell’inferriata.
Il gioco dell’identità
Questo finale è lungo ad arrivare ma viene annunciato già nella terza e ultima parte del film, quando la storia giunge a una svolta, prendendo il contropiede del romanzo. Durante una banale operazione di polizia, Amina viene arrestata, interrogata e registrata. Potremmo definire « amministrativa » la sequenza che fa da perno a questo ribaltamento : per lunghi minuti, il tempo per lo spettatore di capire che, irremediabilmente, non c’è via d’uscita, una voce fuori campo, quella di una funzionaria dal timbro dolce e gentile, sottomette Amina ad un interrogatorio burocratico, mentre le immagini la mostrano quando viene ripresa per le schede segnaletiche, quando deve lasciare le impronte digitali, quando viene misurata… La sequenza si conclude con una dissolvenza in nero, l’unica del film, subito dopo una lunga carrellata all’indietro, questa volta orizzontale, che allontana dallo sguardo dello spettatore la figura minuscola di Amina sotto il marmo che ricorda che la legge è uguale per tutti.
Fig.03
Amina in questura
Viene così attaccata, irremediabilmente, ad Amina un’etichetta, un’identità, che ha per risultato l’esclusione.
Anche l’architetto si sottomette al gioco dell’identità : nel romanzo di Tawfik rimaneva innominato, ma nel film ha un nome, Najib, e un cognome e addirittura un biglietto da visita che, fermando artificialmente l’immagine, si riesce a trascrivere : Arch. Naghib Menraoui (notando così che il nome porta il segno della pronuncia egiziana e non di quella marocchina).
Questa volta ancora, l’identità rivelata porta ad un ribaltamento nella storia, inesistente nel romanzo : mentre l’architetto tentava di ritrovare le tracce di Amina, le loro due storie vengono riallacciate grazie a un colpo di telefono della poliziotta che ha arrestato la ragazza. Da allora, il tempo del film cambia e il ritmo si accelera, non ci sono più flashback : lo spettatore vive il presente dei protagonisti e la corsa contro l’esclusione, questa volta fisica. Il gioco non si ferma per l’architetto : l’unico mezzo che trova per entrare, a sua volta, nel centro di detenzione per immigrati illegali è proprio di rinunciare alla sua identità : non ha più nome né cognome, ma semplicemente la faccia di uno che « non è nato qui ».
È espressamente la conclusione alla quale arriva Najib per non perdersi nelle varie etichette che gli vengono date successivamente e lo rendono irraggiungibile in quanto persona. Per la sua collega di lavoro, innamorata di lui, è arabo ; per degli individui incrociati per caso, di notte, è un « marocchino di merda », nonostante la sciarpa di cashmere bianca che sempre lo accompagna ; per la ragazza marocchina, è italiano. È proprio per rispondere ad Amina, che gli rimprovera di non più parlare la sua lingua e di comportarsi come gli italiani, che trova l’unica posizione ragionevole e comoda, che gli permette poi di sormontare il vero ostacolo, di ordine sociale e morale, che gli impedisce di avvicinarsi a lei. Trova la soluzione prendendo spunto da una realtà di fatto : « Di sicuro c’è che non sono nato qui. » A rendere più visibile il suo essere straniero è proprio Amina, la quale fa venire a galla dettagli che lo avvicinano a lei, come la cartolina che le cade tra le mani mentre sta curiosando nel suo lussuoso appartamento. Per lo spettatore, è solo una immagine fuggitiva sulla quale, con un altro fermo-immagine, si riconosce la moschea Al-Aqsa di Gerusalemme e alcune parole goffamente scritte in arabo, che rendono però autentico anche questo minimo particolare.
Marco Turco cura l’aspetto linguistico pure nei dialoghi. È per forza autentico il dialetto parlato dall’attrice olandese Kaltoum Boufangacha, di origine marocchina, che interpreta la parte di Amina. Anche la parlata tunisina di Ahmed Hafiane, che crea una specie di distanza, simile a quella manifestata dal personaggio, è molto plausibile, in particolare quando torna in Marocco dopo trent’anni e vede i suoi, soprattutto la sorella, stupirsi di trovarlo così cambiato, perfino nel modo di esprimersi. Questa distanza linguistica assume anche, nel film, una funzione narrativa e psicologica poiché l’incomprensione manifestata da Najib nei confronti del modo di parlare di Aminaxvii è in realtà un rifiuto, da parte dell’architetto, di comunicare in arabo, ad esempio nella scena che si svolge in un ristorante chic di Torino :
Amina : Mi chiamo Aminaxviii.
Najib : È un bel nome.
Amina : Non parli l’arabo ?
Najib : Non capisco il tuo dialetto.
Amina : Dialetto ! Ma io parlo l’arabo letterale. Sono andata a scuola.
Najib : Ascolta, io sono qui più o meno da trenta anni e non ho mai frequentato arabi. La mia lingua è l’italiano.
A questa realtà che si invita in Italia, i personaggi italiani del film si mostrano molto aperti e, al contrario di tante rappresentazioni del fenomeno attuale dell’immigrazione, La straniera non si fa l’eco di sentimenti di rigetto. Marco Turco ha scelto di ritrattare un’Italia, autentica quanto quella xenofoba, umanamente aperta ed accogliente.
Italiani multiculturali
Non sempre le ragioni di questa apertura sono esenti da stereotipi o preconcetti, non del tutto negativi, ma non sempre confessabili. La collega di lavoro dell’architetto non è lontana dal vedere in Najib l’Arab lover che la fa sognarexix ; il suo collega maschio (che è all’origine dell’incontro tra l’architetto e Amina ed era, nel romanzo, un suo compatriota, sposato con un’italiana) è avido d’esotismo e, nonostante abbia una moglie brasiliana, è sempre in cerca d’esperienze « culturali » che sole sembrano poter soddisfare la sua libido disordinata.
Gli altri due personaggi italiani sono invenzioni della sceneggiatura e hanno una funzione narrativa importante poiché sono loro a ricevere la storia dei protagonisti. Servono anche a cancellare le consuete e resistenti frontiere mentali. Così, il proprietario del bar che aiuta Najib a ritrovare le tracce di Amina : anche lui era, nel romanzo, un compatriota dell’architetto, ma nel film, è un italiano. Dopo la lunga passeggiata di Najib nel mercato, che lo portava, insieme allo spettatore nell’« altro mondo » a due passi da casa e in particolare in un bar frequentato da marocchini, il protagonista, e lo spettatore, si stupiscono di non trovarsi di fronte uno straniero :
Najib : Ma Lei è italiano ?
Proprietario : Mia moglie è di Casablanca e io sono musulmano. Va bene così ?
Najib : Ma certo, scusi. Mi scusi.
Altre frontiere cadono grazie al personaggio della poliziotta, interpretato da Sonia Bergamasco. L’interrogatorio di Amina, tra i tanti flashback e l’alternarsi con la storia raccontata dal punto di vista di Najib, inaspettatamente si evolve verso un’amichevole complicità. Come due amiche del cuore, le donne scambiano storie d’amore e di maternità. Poco manca che diventino complici anche nell’illegalità, perché ad Amina viene quasi lasciata (ma la scena rimane volutamente nell’ambiguità) la possibilità di scappare. Non è dubbia invece la complicità della poliziotta con Najib che fa in modo di essere rinchiuso nel CTP per ritrovare Amina, sul punto di essere espulsa dall’Italia.
Fig.04
Amina e la poliziotta
Oltre alla complicità, il personaggio interpretato da Sonia Bergamasca manifesta anche empatia nei confronti della straniera in situazione illegale, a tal punto che i due personaggi, l’italiana e la marocchina, sembrano fondersi. Lo spettatore se ne rende conto attraverso un breve scambio di battute :
– Io faccio solo il mio lavoro.
– Allora è un lavoro di merda !
che avviene una prima volta durante l’interrogatorio di Amina e viene ripetuto a distanza di poco, con la differenza che la poliziotta, la seconda volta, riprende per conto suo le parole di Amina, rivolgendosi a un’altra poliziotta, suo superiore gerarchico. Viene così messo in rilievo il carattere artificiale di una frontiera, questa volta legale, che ha per risultato di interrompere un processo di emancipazione.
Amina riesce a « contaminare » un’altra donna, capace, a sua volta, di adottare un punto di vista diverso, un altro codice, così come lei stessa si è lasciata contaminare a contatto con le donne italiane, per esempio nel vestire. Le due scene girate successivamente al ristorante, che, come le due scene già citate del mercato, si rispondono, mostrano che basta possedere il codice per non suscitare il rigetto, fondersi nell’ambiente e sentirsi nel posto giusto. Mostrano anche, seppure con dettagli irrisori – un vestito più elegante del solito –, il senso della lotta di Amina per la sua emancipazione, una lotta cominciata fin dall’infanzia che la spinge a togliersi il foulard che le donne portano tradizionalmente in Marocco. Questa sua lotta è rallentata perché Amina non trova da sola i mezzi necessari al suo mantenimento e in questo, trova la sua dimensione universale. Ma Amina ha un doppio, in Marocco, rappresentato attraverso la sorella di Najib che non è, al contrario di tante, « tagliata per l’esilioxx » e sembra determinata a riuscire, con, ma meglio senzaxxi, il foulard, a non dipendere da nessuno se non da se stessa e a trovare la sua via all’emancipazione.