Le questioni letterarie e sociologiche legate alla dedica delle opere letterarie italiane hanno suscitato, soprattutto nell’ultimo decennio, un ricco dibattito nel quale si distinguono interventi su casi, o su epoche, in particolare e studi complessivi, e talvolta sistematici, prodotti da agguerrite équipes di ricerca1. Grazie a questi strumenti, è ormai possibile orientarsi nel mare magnum di un paratesto che ha tutte le peculiarità di un vero e proprio sottogenere letterario e che, onnipresente e multiforme attraverso le epoche, sollecita una riflessione tanto sulle strategie retoriche e sui topoi che lo caratterizzano, quanto sulle implicazioni culturali e sociali del suo impiego.
La dedica può essere infatti considerata la punta dell’iceberg dei rapporti tra autore e dedicatario, tra letterato e patrono, la parte emersa e visibile di un universo profondo, da vari decenni al centro dell’attenzione degli studi e tuttavia ancora opaco e spesso difficile da sondare per insufficienza di elementi documentarî.
La ripetitività del campionario di formule che si succedono, non di rado nel medesimo ordine, nelle migliaia di dediche apposte alle opere letterarie italiane (ma il discorso può essere facilmente esteso ad un’area geografica ben più ampia)2 ha contribuito a indurre nel lettore un comprensibile riflesso pavloviano a saltare a pie’ pari le prime pagine dei volumi in cui compare una dedica. Ma proprio il carattere formulare di questi testi e la loro imperturbabile presenza nelle opere letterarie tra Quattro e Settecento è il segnale non di una banalità da relegare tra i rumori di sottofondo, ma di una necessità, di un bisogno collettivo e individuale di definire il rapporto che il dono dell’opera stabilisce tra l’autore che la offre e il dedicatario che la riceve.
La dedica è in questo senso un notevole documento dei rapporti tra intellettuali e potere, uno strumento di indagine insieme esplicito e codificato, che va interpretato secondo il suo linguaggio formulare e secondo le variazioni che le singole dediche apportano a un ipotetico modello normativo. La dedica è anzi il documento che stabilisce i termini di uno scambio di beni, materiali o immateriali, tra una parte in causa e l’altra. È una sorta di contratto, il cui valore giuridico non si fonda certo su un articolo di codice, ma su un diritto consuetudinario, una giurisprudenza che, benché non scritta, ha una sua codificazione e che, nella pratica, non ha meno valore di un articolo di legge3. Questo aspetto ‘giuridico’ della dedica, che gli studi storici più attenti alle questioni antropologiche e sociologiche hanno individuato già da tempo con chiarezza, resta uno degli aspetti più interessanti della questione.
Il periodo a cavallo tra Quattro e Cinquecento, in cui si manifesta, in Italia e altrove, una profonda crisi dei rapporti tra letterati e patroni in concomitanza con lo sviluppo dell’industria della stampa, è un’epoca-chiave in questa prospettiva. Il passaggio dalla pratica manoscritta a quella a stampa, l’esplosione del mercato del libro con la moltiplicazione e la diversificazione dei lettori, e l’irrompere sulla scena della figura cardinale dell’editore-tipografo, sono tutti fattori che contribuiscono a quella rivoluzione-evoluzione della stampa, su cui esiste ormai una bibliografia enorme, che non smette d’interrogarsi sulla rottura e sulla sopravvivenza delle diverse pratiche librarie4.
Anche la dedica registra, in questo periodo e nel corso di tutto il Cinquecento, novità eclatanti accanto ad abitudini persistenti, perché se da un lato la stampa modifica durevolmente il rapporto che gli autori, i dedicatari e tutti gli attori dell’editoria intrattengono con l’opera letteraria, dall’altro gli automatismi retorici e dialettici della dedica spesso avvolgono le pratiche innovative nel mantello della tradizione, per facilitare l’assorbimento di certi bruschi cambiamenti o perché, in fondo, il rimescolamento delle carte in tavola e l’aggiunta di nuovi giocatori non rimettono in causa la logica di base, che resta quella dello scambio di un’opera letteraria contro il favore del dedicatario, il cui potere di attrazione è solo marginalmente intaccato dai benefici economici generati dalla stampa.
Nel corso del XVI e XVII secolo, e fino allo straordinario Roman bourgeois di Antoine Furetière, compaiono molti testi polemici contro gli abusi che i diversi attori del sistema della dedica non dovrebbero compiere: questi ricorrenti richiami alla regola non fanno che confermare non solo che il sistema resiste nel corso dei secoli, ma che si fonda su regole strutturanti e condivise, anche se non sempre rispettate5.
Per chiarire questa logica di fondo, e per valutare in che modo la svolta della stampa modifichi o perpetui le abitudini legate alla dedica e in particolare il ruolo dei diversi attori coinvolti, vorrei passare in rassegna una serie di casi, la cui rilevanza statistica è senz’altro limitata, per quantità e per qualità, ma che mi pare abbastanza significativa e tipologicamente varia per poter contribuire a una riflessione sulle categorie coinvolte nell’‘atto della dedica’. Per seguire il processo di quest’atto, articolerò il mio discorso intorno a tre domande, la cui apparente semplicità è inversamente proporzionale alla complessità della risposta: chi dedica, che cosa dedica e a chi si dedica (domanda, quest’ultima, che implica anche un ‘perché e come si dedica’).
Chi dedica
L’autore
Il principio del diritto d’autore è oggi ampiamente condiviso e la funzione-autore è per noi quasi inscindibilmente legata al titolo dell’opera composta. Questa percezione diffusa non è sempre esistita e deriva in buona parte dalle riflessioni illuministiche sulla proprietà delle opere d’ingegno6. Tuttavia, anche se la nozione attuale di autore e dei diritti che questi può esercitare sulla sua opera sono ben diversi da quelli correnti nel XVI secolo, la stampa ha avuto un ruolo di primo piano nella stabilizzazione di una nozione forte di autore, cioè dell’individuo a cui è attribuita la paternità e la responsabilità di un testo. Non solo per necessità di catalogo, ma per l’evoluzione della nozione di originalità, legata a sua volta all’esplosione di una letteratura in volgare e al dibattito sul principio di imitazione degli antichi7.
L’autore dunque dedica perché è a lui che spetta la gestione della propria opera. L’onnipresente metafora dell’autore-padre e dell’opera-figlia è la vera spina dorsale, la chiave d’interpretazione di ogni discorso che evochi o rivendichi il rapporto viscerale che unisce autore e opera, ed è declinata con logica geometrica là dove vengono definiti i ruoli degli altri attori coinvolti nella gestione dell’opera stessa. Come un padre, l’autore detiene la ‘patria potestà’ della sua prole, ne è geloso, ne cura l’onore, la accresce amorevolmente, la difende da chi vuole storpiarla e offenderla, ed esercita il diritto di tenerla presso di sé o di offrirla. E come i figli erano impiegati a corte o tenuti a battestimo dai signori (prendendone talvolta il nome), così le opere erano dedicate, donate, intitolate ai potenti.
Ovviamente questo diritto dell’autore non è un diritto d’autore, nel senso che, come accennavo, nel Cinquecento non si può parlare dei diritti dell’autore se non in termini di diritto consuetudinario. Di diritti d’autore sanciti da leggi si inizia a parlare solo a partire all’inizio del Settecento, con lo Statute of Anne (1709)8. Tuttavia già all’inizio del Cinquecento sono attestate cause e provvedimenti giuridici concernenti i diversi attori dell’impresa letteraria perché, con la stampa, gli interessi dell’autore entrano immediatamente in conflitto con quelli economici di tipografi e finanziatori, e succede che le vertenze tra questi contendenti vengono regolate in tribunale9. Nei processi che ne nascono, l’autore è considerato come il primo gestore dell’opera da lui composta: lui può cederla, prestarla, venderla, ma è da lui che ogni delega deve partire. Anche gli stampatori che, nel corso del Cinque e del Seicento ingaggeranno lotte senza quartiere con gli autori, e le vinceranno, difenderanno le loro prerogative non contestando questo principio, ma affermando proprio che i diritti di un’opera possono essere ceduti dall’autore10.
Ai diritti sulla propria opera, però, di solito non si rinuncia gratis. L’opera vale, può trasformarsi in una fonte di reddito o attraverso la dedica o attraverso la cessione a un editore di una parte dei diritti detenuti dall’autore sulla sua opera; in un caso la ricompensa sarà intesa come una merces, nell’altro come un pretium11.
Esiste tuttavia anche la possibilità che l’autore rinunci ai suoi diritti, facendo circolare la propria opera anonima: un sistema pratico per sottrarsi alla propria responsabilità di fronte al controllo della censura, visto che un libro anonimo può essere messo all’indice, ma il suo autore non può essere perseguito prima che ne venga accertata l’identità. Man mano che, nel corso del Cinquecento, aumentano le preoccupazioni per la censura, al discorso sul diritto dell’autore si accompagna sempre più quello sulla responabilità dell’autore.
L’autore può infine essere non negato, ma moltiplicato, nel caso ad esempio in cui esista un ‘autore collettivo’, come le accademie, che si assumono la resposabilità collettiva dell’opera e che ripetono in altri termini la pratica delle confraternite dei joglars medievali. Ma si tratta di casi minoritari.
L’editore
La dedica dell’editore (e intendo questo termine in senso largo ed etimologico: può trattarsi dello stampatore, del finanziatore o del curatore) è sempre più frequente nel corso del Cinquecento via via che in particolare il ruolo dello stampatore diventa più ingombrante nella gestione dell’opera, ed è una delle cartine di tornasole della lotta tra l’autore e chi detiene i ‘mezzi di produzione’ e di finanziamento12. Le rappresentazioni dell’atto di offerta dell’opera al dedicatario, nei manoscritti e nelle stampe, forniscono molte informazioni sul ventaglio delle persone e delle funzioni che detengono, o che pretendono di detenere, in diritto di dedicare l’opera13.
La problematica definizione dei confini tra le competenze e i frequenti abusi perpetrati da chi occupa una posizione di forza sul piano tecnico ed economico è uno dei principali nodi del dibattito sulla dedica, che si infiamma nella seconda metà del Cinquecento. Nelle prime pagine del suo dialogo Della dedicatione de’ libri, Giovanni Fratta si sofferma sulla questione mettendo in guardia contro le prepotenze degli stampatori, ma affermando anche implicitamente che l’« intendimento del proprio autore » è un titolo valido per la cessione del diritto alla dedica14. Quanto ai motivi dichiarati, sottintesi o taciuti per cui è l’editore a firmare la dedica al posto dell’autore, la casistica è piuttosto varia.
Può accadere che l’autore sia morto prima che l’opera potesse essere pubblicata (a stampa o manoscritta, il principio non cambia). L’opera, orfana, non rimane però in balia del primo venuto dal momento che, come tutti i beni del defunto, anche essa viene trasmessa in eredità, benché siano rare le indicazioni esplicite nei testamenti. E gli eredi gestiscono i diritti del defunto autore come gestirebbero un terreno ricevuto in eredità. È celebre il caso delle opere ariostesche, che si trasformarono in un vero tesoro per i parenti che le ebbero tra le mani (prima il fratello Gabriele, poi il figlio Virginio) e che regolarono l’accesso dei curiosi e degli editori ai cassetti di Ariosto, in cui restavano, dopo la sua morte, ancora delle opere inedite.
Alla morte di Giovanni Della Casa, le sue opere rimasero al nipote Annibale Rucellai che, disobbedendo alla volontà dello zio, non bruciò le sue opere volgari o incompiute, ma le pubblicò una dopo l’altra. Il suo senso di colpa, o più probabilmente il bisogno di giustificare la propria posizione nei confronti dei lettori, lo portarono ad aggiungere alcune preziose prefazioni, che illustrano il tenore dell’operazione. Nella lettera dedicatoria dei Latina monimenta (Firenze, Giunti, 1564), Annibale (o chi per lui: quello che importa è la spartizione ufficiale dei ruoli nel gioco della dedica) spiega infatti di non aver rispettato la volontà dello zio a causa dalle insistenze degli amici e per rispetto del bene comune. Del resto, egli accetta di condividere questa colpa, se colpa si può chiamare, con altri illustri esempi, sia antichi, sia contemporanei. Poco tempo prima, avevano preso la stessa decisione anche gli eredi di Guicciardini, che avevano salvato la sua Storia, benché l’autore, interrogato dal notaio testante, avesse imposto che fosse bruciata15.
È quindi il Rucellai stesso che dedica l’opera al curatore, Pier Vettori, amico carissimo dello zio, cercando in questo modo un accordo a posteriori con la volontà dell’autore, poiché, continua a spiegare nella prefazione, Della Casa intendeva dedicare a Vettori una grande opera sulla lingua, ispirata al modello varroniano. Così, il nipote intende compensare il furto subito da Vettori a causa della morte dell’amico. «Remitto igitur ad te librum excusum et iam communem omnium publicumque factum qui prius tuus privatusque erat», risponde Vettori ad Annibale Rucellai, attestando così nel contempo la generosità dell’amico e la fondatezza dei diritti dell’erede nella gestione dell’opera16.
Che questo racconto sia vero o meno (lo ritroviamo in occasione della pubblicazione del Galateo: l’attrazione dell’esempio virgiliano è enorme), quello che importa è che la decisione spetta all’erede, senza il cui consenso non c’è legalità17. Naturalmente non mancano episodi di pirateria, ai danni degli autori come degli eredi, ma la logica della pirateria non è compatibile con quella della dedica. Gli stessi eredi del resto gestivano i loro diritti secondo una logica economica, e càpita che la pretesa pirateria non sia in realtà altro che una copertura per operazioni commerciali.
Un caso in cui pirateria e gestione del diritto ereditario si confondono è quello della pubblicazione della traduzione latina dei De dictis factisque memorabilibus collectanea di Battista Fregoso (Milano, Iacobus Ferrarius, 1509). Il traduttore, il giovane Camillo Gilino, dedica il suo lavoro al governatore francese di Milano. Ma l’opera era già stata dedicata dall’autore al figlio Pietro, ed era rimasta manoscritta presso l’erede. In qualche modo, però, il manoscritto era sfuggito al controllo di Pietro, ed era finito in mano al Gilino. A prima vista, si direbbe un caso di abuso da parte dell’editore. Ma il traduttore pone la questione diversamente: nella dedica si rivolge infatti a Pietro, invitandolo a non aversene a male se la dedica che gli era destinata è stata trasferita (« transfertur ») a un personaggio potente, ma a riconoscere che questo può tornargli addirittura utile (« sed in eo beneficium quoque esse agnosces »)18.
Secondo l’interpretazione dell’editore-pirata (che comunque, ed è fondamentale, è un traduttore che dedica in primo luogo il suo lavoro di traduzione, ma tornerò più avanti sulla questione), la dedica passa da uno statuto privato, familiare e manoscritto a uno statuto pubblico, ufficiale e a stampa. Ma è probabile che l’erede non fosse all’oscuro delle intenzioni del traduttore, ma che al contrario fosse consenziente e desideroso di approfittare di quella dedica che, se avesse voluto tenere per sé, non gli avrebbe fruttato nulla. Si può cioè pensare che l’erede abbia ceduto la dedica a un potenziale patrono, secondo una prassi non ignota nel Cinquecento (a riprova del fatto che la dedica era, nei fatti, trattata come un bene negoziabile), ma non unanimemente approvata, tanto che era consigliabile mascherare l’operazione.
Un altro motivo, tra i più diffusi, per cui l’editore si incarica della dedica, è che l’autore rifiuta di pubblicare la sua opera, che però merita di essere conosciuta da tutti. L’atto di pirateria dell’editore viene quindi presentato come un gesto di altruismo nei confronti della comunità letteraria.
Due sono di solito le ragioni che l’editore adduce per giustificare il suo atto di prevaricazione: il bene comune, appunto (come nel caso dei Latina monimenta casiani), e il diritto del dedicatario. Non è giusto, infatti, che il dedicatario sia privato di un onore che gli è dovuto, perché l’autore non vuole pubblicare la sua opera19. Tuttavia, alcune circostanze danno adito a dubbi sull’autenticità di questi furti dal cassetto degli autori e fanno sorgere il sospetto che, almeno in una certa percentuale, quelli confessati dagli editori non fossero veramente dei furti, ma, ancora una volta, degli stratagemmi organizzati, o quantomeno approvati dagli autori stessi per evitare certi fastidi legati alla pubblicazione di certe loro opere.
Questi fastidi potevano essere le critiche all’opera, sempre più frequenti e temibili in un’epoca in cui si sviluppa una critica letteraria agguerrita e una spietata concorrenza editoriale, soprattutto per certi generi letterari; oppure, in particolare nei primi anni del Cinquecento, quando ancora i dedicatari avevano un concetto forte dei loro diritti, potevano essere le pretese stesse dei dedicatari di tenere l’opera presso di sé in esclusiva, almeno per un certo tempo. Per liberarsi da qualsiasi responsabilità, l’autore poteva allora fingere un furto, come forse fece il Tebaldeo, le cui Rime furono pubblicate dal cugino Iacopo, ufficialmente contro la volontà dell’autore, nel 149820. Il fatto che, nella maggioranza di questi casi, gli editori cerchino un accordo ideale con le intenzioni dell’autore o che confermino la dedica che l’autore aveva apposto al manoscritto, non si oppone all’ipotesi di un furto mascherato, anzi la rafforza perché quello che l’autore voleva ottenere non era il cambio della dedica, ma la pubblicazione della propria opera.
Sempre più, però, nel corso del Cinquecento, la sete di novità, di cui molti autori si lamentano (primo fra tutti Castiglione nel Cortegiano), ma che alimenta l’industria della stampa, spinge a commettere furti reali21.
Non è certo il caso più frequente, visto il valore che poteva avere un’opera, ma è possibile che l’editore si incarichi della pubblicazione e della dedica di un testo perché l’autore se ne disinteressa. In effetti, questa categoria è talmente particolare che, come per il caso precedente, ci si può interrogare sulla sua reale consistenza.
È tuttavia quello che sembra accadere all’Arcadia di Sannazzaro, pubblicata da Pietro Summonte quando l’autore l’aveva accantonata per dedicarsi ad altre imprese letterarie22; o, in altre circostanze, alla Monarchie de France presentata da Claude de Seyssel a Francesco I nel 151523. L’umanista francese, ritiratosi in seguito in Savoia, non ebbe alcuna parte nell’edizione stampata nel 1519 da Regnauld Chaudière: per lui la questione della sua opera si era chiusa quattro anni prima, al momento dell’offerta del manoscritto di dedica.
Nel caso di Sannazzaro, l’autore abbandonò l’opera perché erano cambiati i suoi interessi letterari, per cause quindi interne all’evoluzione della sua poetica, mentre nel caso di Seyssel sembra emergere la differenza tra la logica di un autore, che mira a un riconoscimento e a una ricompensa da parte del solo dedicatario, e quella di chi cerca un riconoscimento e un guadagno vendendo le proprie opere a stampa.
Ma il caso di Seyssel, sempre che la storia editoriale della sua Monarchie de France si sia effettivamente svolta così, è minoritario, e non perché sia un esempio transalpino: proprio nel contesto francese, gli studi di Cynthia Brown hanno mostrato come, con l’affermazione della stampa, nel primo trentennio del Cinquecento, si siano avviate una rivoluzione delle aspettative degli autori nei confronti della loro opera e una modificazione dello statuto dell’autore verso una maggiore indipendenza, sociale e economica, dal signore. Anche gli autori che offrivano con successo le loro opere a corte si occuparono infatti da vicino della stampa dei loro libri e lottarono accanitamente per la difesa dei loro diritti di autori.
Un ultimo motivo che può essere invocato per giustificare la dedica dell’editore è che l’autore gli abbia offerto l’opera, come fece Laura Terracina con le sue Rime (Venezia, Giolito, 1548), dedicate dal curatore Ludovico Domenichi a Giovan Vincenzo Belprato, conte d’Aversa. Nella lettera di presentazione, Domenichi si dice certo di non « havere offeso la Signora Laura, publicando le fatiche sue sotto il nome vostro, perché io mi rendo certo che havendole io havute in mano per sua cortesia, io habbia anco potuto con tacita licenza di lei farne il voler mio. [...]. Prendetele dunque Signore come cosa degna et come dono di me, che desidero servirvi »24.
Come accennavo prima, oltre alle dediche degli autori e degli editori esistono poi le dediche dei traduttori, degli autori di apparati, delle illustrazioni. Ma, a ben vedere, queste offerte non si riferiscono all’opera in sé, ma alle aggiunte apportate o alle operazioni compiute sull’opera dell’autore. Sono dediche ‘accanto’ e non ‘al posto di’ quelle dell’autore. È importante infatti distinguere che cosa è oggetto della dedica.
Che cosa si dedica
Il testo, il corpus mysticum e l’esemplare, il corpus mechanicum
Si tratta di una distinzione fondamentale, pienamente riconosciuta nel diritto d’autore odierno, ma ben presente anche nella sensibilità rinascimentale e valida sia per le opere manoscritte sia per quelle a stampa. Il corpus mysticum, l’opera dell’ingegno, non può infatti circolare senza un supporto materiale, per cui se, in una gerarchia ideale, la forma prevale sulla materia, l’autore sullo stampatore, chi gestisce il corpus mechanicum può legittimamente reclamare alcuni diritti.
A un ‘grado zero’ della diffusione di un’opera, l’autore offre un manoscritto autografo al dedicatario, controllando così insieme il testo e il suo supporto. È il modello che vige prima della stampa, e che comunque, anche in quel contesto di produzione, ha un valore più ideale che reale, perché l’opera può sfuggire, e spesso sfugge, con o senza il loro consenso, al controllo dei due principali attori della diffusione, l’autore e il dedicatario.
Con la stampa, la questione si complica in maniera sostanziale, perché il corpus mechanicum diventa il frutto di una produzione ‘industriale’, la cui gestione è sottratta all’autore e affidata a dei professionisti che hanno delle competenze tecniche, che investono grandi capitali negli strumenti di lavoro e nella manodopera, e che, assumendo gli alti rischi commerciali dell’impresa, pretendono in cambio dei benefici e dei diritti, se non sul corpus mysticum, che resta sempre patrimonio dell’autore, sul corpus mechanicum, che è quello poi si cui si giocano tutte le questioni giudiziarie.
Le dediche non d’autore, che fioriscono sempre più rigogliose nelle stampe cinquecentesche, riguardano quindi l’opera di stampa o di edizione, o i paratesti dell’opera, e si aggiungono, senza rimpiazzarle, alle dediche d’autore, che hanno anzi una vitalità spesso insperata in un quadro di giurisprudenza selvaggia e di concorrenza serrata tra stampatori. Queste dediche sono spesso il luogo in cui stampatori e editori difendono la propria linea editoriale e i loro orientamenti religiosi, politici, culturali. La concorrenza, all’inizio degli anni ’30, tra Blado e Giunti per la pubblicazione delle opere machiavelliane ancora inedite si condensa in un duello di dediche esemplare, in cui gli stampatori chiamano a sostegno delle rispettive imprese di edizione due influenti clan della politica tra Firenze e Roma. Ma, per quanto cariche di significato, queste dediche degli editori non interferiscono con la dedica di Machiavelli, anzi, cercano con essa un accordo ideale, perché le due offerte non appaiano giustapposte, ma si sostengano l’una con l’altra25.
Nonostante che fossero nei fatti in posizione di forza per imporre il proprio intervento ai margini dell’opera, molto spesso gli stampatori cercarono inoltre una legittimazione del loro ruolo e dei loro diritti, inserendosi nel topos della metafora filiale che lega l’autore e la sua opera, quasi che si trattasse di un albero genealogico in cui era necessario comparire per giustificare la propria familiarità con l’uno e con l’altra. Se dunque il dedicatario è il padrino dell’opera, l’editore si attribuisce una funzione più ‘meccanica’, ma se possibile ancora più importante: quella della levatrice, della nutrice o della madre adottiva. Nell’Hypnerotomachia Poliphili, che appare a stampa preceduta da diversi paratesti, il carme latino di Giovan Battista Scita celebra eloquentemente la doppia nascita dell’opera, « bis genita » dall’autore e dall’editore, Leonardo Crasso:
Vitam Poliphilus dedit; dedisti
Vitam tu quoque se<u> necem repellis.
Nam cum conditus in situ iaceret
Lethen iam metuens sibi propinquam,
Das hunc gentibus omnibus legendum,
Nec tu sumptibus aut tuo labori
Parcis, sed, melior parente, natum
Proiectum gremio tuo levasti26.
Lo stesso principio giustifica le dediche dei traduttori: la traduzione anzi è una delle operazioni letterarie più riconosciute e remunerate fin dall’epoca della produzione manoscritta. Le traduzioni sono spesso commissionate e pagate in moneta sonante, talvolta con un accordo che non si discosta molto da quello con cui una bottega d’artista si impegnava a fornire un’opera a un signore.
Per la sua traduzione della Repubblica di Platone, Pier Candido Decembrio ricevette ad esempio dal duca di Gloucester la promessa di una pensione, poi di una tenuta nel Milanese27. Il traduttore era l’intermediario che facilitava la fruizione della cultura classica, e in particolare greca, rendendola disponibile in latino. Per i patroni le traduzioni erano un mezzo insieme per accedere alle opere e per propagandare la loro immagine di mecenati. Il traduttore era dunque a pieno titolo un autore, e la dedica della propria opera era un suo diritto indiscusso, ma, beninteso, sempre che si tratti di traduzioni in latino: i volgarizzamenti, almeno fino alla metà del Cinquecento, non avranno una dignità letteraria paragonabile, e saranno considerati, salvo poche eccezioni, opere di divulgazione28.
Anche il lavoro filologico sui testi antichi e la loro stessa riscoperta generano dei diritti, e su questo argomento le dediche di Aldo Manuzio sono una vera enciclopedia. Nella dedica della raccolta di testi sull’astronomia a Guidoubaldo da Montefeltro, Aldo spiega ad esempio su quale base si fonda il suo diritto di dedica: « vorrei che il fatto non venisse ascritto a mia presunzione; perché penso che in tanto mi sia concesso di dedicare a questo o a quello i libri altrui stampati per nostra cura, in quanto tali autori, oggetto delle nostre più attente ricerche, li richiamiamo quasi da morte a vita ». È questo suo sforzo per resuscitare i libri maltrattati dalla storia a valergli il diritto di dedicarli (« mi sembra che far ciò sia mio diritto », conclude infatti)29.
Spicca, nel discorso di Aldo, la metafora del ‘far rivivere’, che aggiunge un nuovo anello alla metafora genealogica di cui è protagonista l’opera: se l’autore è il padre, l’editore è o la levatrice nel caso in cui l’autore sia vivo (per cui l’editore aiuta a far venire il luce l’opera generata dall’autore ma che, senza il suo intervento, resterebbe al buio, non partorita), o è addirittura colui che rianima e resuscita un’opera morta, quando si tratta dell’opera di un autore antico, la cui opera giace negletta e frammentata.
Tutta questa tipologia di dediche editoriali si riflette significativamente, come nella già evocata iconografia dell’atto di offerta del libro, nella tipologia delle richieste di privilegi. Questi diritti di stampa in esclusiva erano infatti di norma concessi per opere nuove. Nelle richieste di privilegio e nelle risposte delle autorità si trovano quindi definiti gli elementi che caratterizzavano la novità dell’opera: perché composta di recente, o perché riscoperta di recente, o perché erano nuovi gli apparati, o le traduzioni, o il testo stesso era nuovo, perché migliorato dagli editori30. E come ha mostrato Elizabeth Armstrong, chi poteva ottenere i privilegi avendo apportato delle novità all’opera, poteva anche reclamare diritti, oggi diremmo intellettuali o commerciali, su di essa31.
Un’ultima tipologia del ‘che cosa si dedica’ risulta in realtà sensibilmente asimmetrica rispetto alle categorie di corpus mysticum e corpus mechanicum usate fin qui. A imporla è la produzione teatrale che, per sua natura, scardina questa logica binaria introducendo almeno un’altra dimensione al discorso, e sollevando in certi casi una questione di fondo sulla pertinenza del concetto di autore32. Gli stessi autori teatrali danno spesso indicazioni plurali sulla dedica della loro opera, dedicando magari la rappresentazione al principe che aveva commissionato o incoraggiato l’opera, o che aveva fatto organizzare la messa in scena in occasione di una delle sue feste, e a un’altra persona il testo. In questo caso la distinzione riguarda piuttosto performance e testo, e si basa sulla doppia vita dell’opera teatrale, in particolare in un momento storico in cui la rinascita dei generi teatrali antichi inagura un agone per i letterati italiani, e in cui, di conseguenza, la pubblicazione di ogni testo diventa l’occasione per discussioni sulla rinascita della tradizione dei generi drammatici.
Il Giraldi Cinzio, ad esempio, appone all’Egle due dediche, una al duca di Ferrara, che ha fatto rappresentare l’opera, e una all’amico Bartolomeo Cavalcanti, presso cui l’autore difende la sua ‘invenzione’ della favola pastorale e a cui chiede di difendere a sua volta l’opera dalle critiche. Il bersaglio delle due dediche è completamente diverso, anche se l’avallo del principe è usato come argomento in favore della bontà dell’invenzione33.
Tuttavia, data la complessità e la particolarità di questo caso, preferisco rimandarne la trattazione ad altra sede e dedicarmi alla terza ed ultima questione proposta.
A chi (e come) si dedica un’opera
Gabriel Chappuys, che almeno quanto Doni può fregiarsi del titolo di grande esperto dei meccanismi del mercato editoriale e della dedica in particolare, scriveva nella premessa del suo Monde des Cornus che, « voyant le titre d’un livre, on tourne incontinent le feuillet pour voir à qui on se dédie, & si celuy que l’on honore tant est incogneu, on se demande incontinent, Qui est-il? Mérite-t-il ces honneurs? Est-il sçavant, aime-t-il les lettres? »34. Chappuys ribaltava così abilmente i termini del classico dibattito sul rapporto tra dedicatario, opera e autore, dando l’impressione che tocchi al dedicatario essere degno dell’opera, e non viceversa. Certo, la scelta del dedicatario era ben meditata dagli autori, che erano consapevoli di legare per sempre le sorti e la memoria della loro opera a quelle del dedicatario, e sapevano che il dono doveva essere conforme alle qualità del dedicatario35. Tuttavia, in primo luogo, la scelta del dedicatario era dettata da un calcolo strategico, in primo luogo finalizzato all’ottenimento di una ricompensa, a lungo o a breve termine che fosse.
La dedica è cioè il mezzo attraverso cui un’opera letteraria diventa oggetto di scambio, per ottenere (o almeno per chiedere) denaro, cariche, favori. Chiunque firmi la dedica si rivolge a un interlocutore che possa offrire questi controdoni, cioè, di solito, a un principe a cui è già affiliato o a un patrono che vorrebbe conquistare. Con l’affermazione della stampa, il sistema di scambio che fa perno sulla dedica si radica e si trasforma, come testimoniano l’incremento degli scritti polemici intorno agli abusi del sistema stesso, ma anche la comparsa, nelle rappresentazioni dell’offerta del libro al dedicatario, del controdono, della ricompensa desiderata dall’autore che, come un lapsus sfuggito ai freni inibitori dell’autore, si materializza là dove era a lungo rimasto sottinteso, sospeso all’allusione e alla speranza, rimosso dal bon ton36.
Tuttavia il principio del do ut des era pienamente condiviso dalle parti in causa ben prima dell’affermazione della stampa. Alcune vicende ben documentate illustrano nel dettaglio come la virtù della liberalità si declinasse nella routine dei rapporti tra letterati, che inviavano le loro opere, e signori, che dovevano soppesare la ricompensa tenendo conto del valore del dono, ma anche delle proprie disponibilità finanziarie, della condizione del letterato e, non ultimo, della propria fama. Molto di rado, però, la dedica conteneva una richiesta esplicita di controdono, che era riservata ad altre sedi: all’oralità o a una sottintesa ‘tabella di corrispondenze’37.
Nel suo libello sulla Intitolation gratiosa de’ libri, Ludovico Castelvetro critica aspramente le derive della dedica all’epoca della stampa, ritenendole degradanti per i letterati, che dichiarano così la loro servitù nei confronti dei dedicatari38 (e rischiano poi comunque di essere ripagati con le briciole o con il disprezzo, come lamentava Doni rivolgendosi, nei Fiori della Zucca, A coloro che dedicano opere per necessità et pigliano un granchio a secco39). La sua lucida analisi dei topoi con cui gli autori cercavano di abbellire l’atto di mercificazione della loro opera costituisce un ottimo punto di vista sull’ampio ventaglio delle forzature della dedica, e in particolare sul modo in cui il dedicante considerava e rappresentava il dedicatario.
In un’epoca che vede nascere una critica letteraria puntigliosa e spesso aggressiva, gli autori sentono sempre più spesso il bisogno di essere difesi, ora da un gruppo di letterati amici, ora dall’accademia a cui appartengono, e puntualmente dal dedicatario che invocano come scudo contro gli strali dei detrattori. Le critiche emesse possono essere rivolte contro la qualità letteraria del testo, ma sempre più, nel corso del Cinquecento, le opere corrono il rischio di subire degli attacchi sul piano della morale e dell’ortodossia religiosa; di conseguenza, il ruolo del dedicatario scivola rapidamente dalla posizione piuttosto confortevole di baluardo contro le invidie tra letterati di corte o tra universitari, a quella ben più rischiosa di garante del contenuto dell’opera. Per accettare questo ruolo delicato, il dedicatario pretende dunque sempre più perentoriamente di esaminare l’opera prima che gli sia dedicata e associata al suo nome al momento della pubblicazione. Questa procedura di ‘gradimento’ si formalizza progressivamente fino al XVIII secolo, e non mancano gli esempi di domande di modifiche da apportare alle opere stesse o alle lettere di dedica, e anche di netti rifiuti40.
Benché la dedica esprima solitamente l’offerta spontanea di un’opera, il dedicatario può essere tuttavia il committente dell’opera che gli è presentata, e per alcuni generi letterari in particolare, come la storiografia, le opere teatrali, le orazioni o le traduzioni, la pratica della commissione è più comune che per altri. In questi casi il dedicatario esercita dei diritti di gestione più diretti sull’opera, perché ha spesso pagato per ottenerla, soprattutto, come si è visto, nel caso delle traduzioni41.
Ma esiste anche un topos semi-paradossale, in base al quale il dedicatario è celebrato come l’autore potenziale del libro, come accade soprattutto per i testi di istruzione. L’autore non si permette infatti di affermare che il suo manuale educherà il principe, sulla politica, sulle buone maniere, sul modo in cui trattare i sottoposti, anche se è proprio questa la sua funzione e la sua ragione di essere. Al dedicatario è attribuita una gratificante onniscienza nella materia, che lo rende, più che il lettore e il beneficiario delle istruzioni indirizzategli, il modello a cui l’autore si è ispirato per raccoglierle, il maestro da cui lo scrittore ha appreso tutto. Per cui l’opera finisce per presentarsi come il ritratto del principe dedicatario: lo speculum principis è così ricondotto alla concretezza della metafora, come illustra in modo esemplare la memorabile dedica del De maiestate di Giuniano Maio, vero crogiolo delle figure retoriche associate al rapporto tra dedicatario, opera e autore42.
Se la dedica è il mezzo con cui l’opera letteraria diventa un bene di scambio, gli autori possono essere tentati di moltiplicare le occasioni di ricompensa dedicando la stessa opera a più persone. Non è un malcostume che nasce con la stampa, ma con essa questa tendenza si sviluppa significativamente, in primo luogo perché è possibile produrre a un costo limitato molti esemplari dell’opera, che possono essere facilmente personalizzati.
È questa una delle pratiche abusive più criticate dai censori. Fratta trova che snaturi la nobiltà del dono43, e in effetti la moltiplicazione dei dedicatari rompe il patto di esclusività della dedica e, con una logica declinazione della fondamentale metafora dell’autore-padre e opera-figlia, trasforma l’autore in un lenone che prostituisce la propria opera. Aretino era uno specialista in questo campo44, ma l’abitudine era diffusa: bastava sostituire un foglio nella stampa, avendo magari cura di modificare qualche dettaglio del testo per poterlo presentare come una novità, ed ecco che l’opera poteva essere dedicata a diverse persone, che si credevano talvolta le uniche dedicatarie dell’opera45.
A uno sguardo più ravvicinato la moltiplicazione delle dediche appare come la degenerazione di un’eccezione contemplata dal sistema, anche se non universalmente condivisa, e invocabile nel caso in cui il dedicatario non gradisca il dono, si dimostri poco generoso o muoia prima di poter ringraziare l’autore. Il consiglio che Doni rivolgeva agli autori, di «rifare le epistole» e di «volgere ad altri i vostri sudori» era certo provocatorio, ma mirava a tutelare gli interessi degli autori, spesso calpestati sia dai dedicatari sia dagli stampatori, e non a trasformare i letterati in mercenari, dal momento che egli giustificava il cambio, e non la moltiplicazione della dedica, nel caso in cui la speranza del dono fosse rimasta delusa e il contratto implicito con il dedicatario fosse stato rotto46.
Una buona parte dei casi in cui le dediche sembrano moltiplicarsi merita comunque di essere giudicato più benevolmente, se si tien conto della distinzione esistente tra testo e supporto materiale. Erasmo, che, pur senza la sfrontatezza aretiniana, gestiva però da professionista i propri diritti e sapeva trarre il massimo guadagno dalle sue dediche47, non sostituiva nessun fascicolo nelle sue opere, ma aggiungeva un foglio di dedica, che riguardava quindi solo quell’esemplare, non la dedica dell’opera48. Gli era così possibile, senza infrangere nessun principio del sistema, rendere omaggio all’uno senza rimettere in questione la dedica offerta all’altro49.
Un altro sistema, rispettoso per lo meno della lettera se non dello spirito della legge, per moltiplicare l’effetto della dedica consisteva nel dedicare parti o tomi diversi della stessa opera a dedicatari diversi. Il già citato duca di Gloucester si stupì una simile pratica in occasione della traduzione del Decembrio, ma si sentì rispondere che in Italia l’abitudine era corrente, quasi alla moda50. Con i Mondi, Doni toccò un vertice esecrato da molti contemporanei (e del resto tanto eccessivo da apparire come una critica della pratica stessa, o come una denuncia delle condizioni che spingevano gli autori verso simili eccessi)51, ma il ricorso alla lezione dei classici poteva offrire una pronta e onorevole giustificazione, come argomenta facilmente Ortensio Lando nei Paradossi52.
Non possono essere trattati propriamente come cambi di dedica i casi in cui, pur se la dedica migra verso nuovi dedicatari, rimane consacrata alla stessa carica o funzione, secondo il principio dei ‘due corpi del re’: ad esempio, Sannazzaro, che dedica il De partu virginis al papa pensando prima a Leone X, poi a Clemente VII, resta fedele alla sua idea di offrire il suo poema sacro al papa, qualunque sia la sua incarnazione momentanea.
Per lo stesso motivo, malgrado il cambiamento della persona del dedicatario, sono ‘fedeli’ le dediche che potremmo definire ‘ereditarie’ perché, in linea di principio, come l’autore lascia in eredità i suoi diritti sull’opera, allo stesso modo i diritti del dedicatario possono passare ai suoi eredi. In pratica, quando questo accade, è perché colui che dedica è interessato al passaggio di questi diritti. Il Giron Cortese, commissionato a Luigi Alamanni da Francesco I, è dedicato ad esempio a Enrico II53; oppure le Metamorfosi ovidiane vengono tradotte in italiano da Dolce e dedicate a Carlo V, che però muore prima di aver ricompensato il traduttore. Nella stampa dell’opera, Ruscelli si incarica di ricordare a Filippo II i suoi diritti e i suoi doveri di erede: « et si ha da sperar fermamente che Vostra Maestà Catolica, non solamente come erede de’ regni, delle facoltà, de’ crediti e de’ debiti di suo padre, ma ancora come diligentissima imitatrice d’ogni nobilissima virtù sua, non sia per mancar ancor questa degna operazione »54.
Benché la dedica ai patroni in atto o in potenza sia largamente preponderante nelle statistiche, esiste ed è rilevante, per quanto minoritaria, la tipologia della dedica agli amici, di solito ai collaboratori55. Aldo dedica spesso le sue edizioni agli studiosi che hanno ritrovato i manoscritti in Francia o in Germania, che hanno curato il testo o la traduzione. Analizzando la lunga lista di queste dediche è possibile ricostruire non solo la fitta rete di contatti grazie ai quali funzionava l’impresa aldina, ma anche valutare le simpatie personali e le strategie di alleanza tra intellettuali uniti dagli stessi interessi o impegnati in progetti culturali affini56.
Le dediche erano cioè uno strumento per creare e delimitare un campo comune, e per indicare indirettamente un controcampo57. L’impresa aldina non è del resto l’unica che si presti a questo esercizio. Studiando il circolo di Perotti e Campano e la sua rivalità con quello di Bussi, Paola Farenga ha sottilmente rilevato i legami di solidarietà e di concorrenza instauratisi nella Roma dei prototipografi e ricostruibili tramite le dediche dei libri stampati in quegli anni. Quella scoppiata tra Bussi e Perotti è anzi una delle prime polemiche sullo stile, ma soprattutto sulla natura venale di certe dediche, segno che fin dai primordi della stampa in Italia la dedica è stata considerata come uno strumento di promozione ma anche come una potenziale via di degenerazione del rapporto tra autore, dedicatario e pubblico58.
Tra le persone a cui un editore poteva dedicare l’opera c’è, benché possa sembrare paradossale, anche l’autore. Il paradosso apparente si spiega spesso con la storia editoriale movimentata dell’opera in questione: Aldo, ad esempio, dedica a Sannazzaro la sua edizione dell’Arcadia (1514) e coglie l’occasione per spiegare che cosa, a suo avviso, lo autorizza a dedicare l’opera di un autore ancora vivente: « quando taluno invia qualcosa in dono a colui cui il dono appartiene, appare colpevole di temerità e presunzione; perché si debbono inviare in dono le cose proprie, non le altrui, e tanto meno ai loro stessi proprietari. Ma io, nel far ciò, penso di potermene attribuire in certo qual modo il diritto: infatti, sebbene una volta tu abbia composto l’Arcadia in prosa e in versi toscani in modo dotto ed elegante, ed essa sia – come certo è – tua, tuttavia, così pubblicata come ora è da me, non so come, essa è divenuta anche mia. E quindi, quanto in questo libro vi è di mio, te lo dono e te lo dedico »59.
Lo stesso bisogno di giustificarsi prova Alessandro Paganino al momento di dedicare i ‘suoi’ Asolani a Bembo (1515): stampando la sua opera, chiarisce il tipografo proseguendo lo sviluppo della consueta metafora, egli non intende sfruttare la figlia dell’autore, ma la vuole invece ornare degli abiti più belli prima di restituirla al padre60.
Infine, e vorrei concludere con questa categoria veramente paradossale, che però ha pienamente diritto di figurare in questa rassegna, perché impone una riflessione radicale sul fondamento stesso della dedica, un’opera può non essere dedicata a nessuno. Non nel senso che manca la dedica, ma che la dedica è rivolta a nessuno: l’opera, cioè, è di tutti i lettori61.
Dietro questa tendenza, senz’altro marginale ma non ignota neanche nel mondo iper-commerciale e concorrenziale della stampa, c’è un’idea antichissima e al contempo molto moderna, intorno alla quale risorge oggi, nella galassia internet, un dibattito generato dal conflitto tra contenuti e funzioni a pagamento da un lato e applicazioni open source e comunicazione di dati peer to peer dall’altro. Nel suo saggio sul dono, Natalie Zemon Davis spiega infatti che esiste, nella cultura europea, l’idea che la conoscenza è un dono di Dio e che, in effetti, un autore non possiede ciò che scrive, ma trasmette delle conoscenze che appartengono a tutti. Volersene appropriare rappresenta un peccato contro Dio e contro gli uomini. Quest’idea ha delle ripercussioni importanti sul concetto di autore e di originalità, ma anche sul ruolo della dedica, perché se un autore non possiede l’opera che ha scritto, non può neanche donarla.
Certamente non tutte le opere che non hanno una dedica vanno considerate come opere ‘francescane’, ma diversi autori, rinunciando ai loro ‘diritti’, hanno affermato quest’idea, protestando così contro il mercato delle opere a stampa e contro la mercificazione delle lettere. Teofilo Folengo, presentando La Umanità del Figliuolo di Dio, (Venezia, Pincio, 1533), dichiarava di essere stato « importunamente solecitato di dovere a ricchi e poderosi uomini, sì come a grossi pesci, gittar l’amo di questi miei semplicissimi ragionamenti per adescarne, oltra il favore, eziandio qualche cosetta delli datti a loro beni di fortuna. Io che, la mercé di Dio, con meco mi godo di non aver terreno più di quello si m’appiccia in andando sotto le piante, me ne sono liberamente riso ». Di conseguenza, « a voi, poveri di spirito e copiosi di divine grazie, mando quel tutto poco di pane da me fra questi nudi sassi per spazio di tre anni raccolto »62.
Questo di Folengo è forse un caso un po’ radicale, anche se non è un caso unico63, ma quest’idea era ben presente anche nella mente di coloro che accettavano e sfruttavano le regole della dedica e del sistema commerciale delle opere intellettuali: Erasmo o Aldo si congratulavano ad esempio con i dedicatari delle loro opere che, con il loro sostegno finanziario, arricchivano la respublica litterarum, e si lamentavano invece dei patroni che trascuravano la vera cultura, cioè i loro progetti64.
Nelle domande di privilegio, per esempio in quella per l’Elogio della follia, vengono spesso avanzate motivazioni riguardanti l’utilità pubblica dell’opera, un argomento evidentemente considerato come pertinente e convincente. Può accadere che l’autorità che concede il privilegio imponga o suggerisca un prezzo ‘giusto’ per l’opera, pratica già nota nel Medio Evo, soprattutto per i testi giuridici e in generale per quelli universitari, che erano prodotti dai cartolai in regime di monopolio, e i cui prezzi erano controllati perché si trattava di testi necessari per il funzionamento dell’università e per la trasmissione delle conoscenze. Ma nell’epoca della stampa, ci sono esempi di prezzi ‘consigliati’ anche per certe opere di lusso65.
L’imposizione di un calmiere per i libri, manoscritti o a stampa che siano, afferma implicitamente l’idea che la produzione e la distribuzione delle opere a stampa debbano certo essere ricompensate, ma che esiste anche una necessità della circolazione della scienza nella comunità cristiana perché se, secondo il proverbio, Scientia donum Dei est, unde vendi non potest, nel Vangelo si legge che Dignus est operarius mercede sua66.
Tuttavia, nell’universo letterario rinascimentale, non c’è incompatibilità tra queste due mentalità, malgrado le denunce degli abusi. La sfera della ‘gratuità’ e quella della giusta ricompensa sono entrambe autorizzate da Dio e sono, benché in apparenza inconciliabili, ugualmente ancorate nella Weltanschauung di tutti gli attori che agiscono intorno alla pubblicazione dell’opera letteraria: la questione è piuttosto di definire i confini tra le loro sfere d’influenza, costantemente in movimento a seconda dei rispettivi rapporti personali e sociali, dello sviluppo della tecnologia e della giurisprudenza in materia.