Tipologia e funzionamento del sistema della dedica nell’Italia del Rinascimento

Résumés

Cercando di rispondere a tre semplici ma fondamentali domande (chi dedica, che cosa si dedica, a chi si dedica), l’articolo passa in rassegna e analizza le dediche di varie opere letterarie italiane pubblicate tra fine Quattro e Cinquecento, per illustrare la tipologia dell’atto di dedica e dei topoi che lo accompagnano, e per definire i ruoli che i diversi attori protagonisti di questa pratica (l’autore, l’editore, il dedicatario) svolgono in un momento storico critico per i mezzi di produzione letteraria e per l’evoluzione dei rapporti tra scrittori e potere.

Trying to answer three simple questions (who dedicates, what’s the object of the dedication, to whom one dedicates), the article selects and analyses some dedications of Italian literary works, published in Sixteenth Century, and defines a typology of the dedication as well as of the topoi which are involved in this act. It also tries to point out the roles that the main actors of this practice (the author, the editor, the dedicatee) play in a particularly critical moment of history, in which the means of literary production and the relationships between authors and power are deeply shaken.

Plan

Texte

Le questioni letterarie e sociologiche legate alla dedica delle opere letterarie italiane hanno suscitato, soprattutto nell’ultimo decennio, un ricco dibattito nel quale si distinguono interventi su casi, o su epoche, in particolare e studi complessivi, e talvolta sistematici, prodotti da agguerrite équipes di ricerca1. Grazie a questi strumenti, è ormai possibile orientarsi nel mare magnum di un paratesto che ha tutte le peculiarità di un vero e proprio sottogenere letterario e che, onnipresente e multiforme attraverso le epoche, sollecita una riflessione tanto sulle strategie retoriche e sui topoi che lo caratterizzano, quanto sulle implicazioni culturali e sociali del suo impiego.

La dedica può essere infatti considerata la punta dell’iceberg dei rapporti tra autore e dedicatario, tra letterato e patrono, la parte emersa e visibile di un universo profondo, da vari decenni al centro dell’attenzione degli studi e tuttavia ancora opaco e spesso difficile da sondare per insufficienza di elementi documentarî.

La ripetitività del campionario di formule che si succedono, non di rado nel medesimo ordine, nelle migliaia di dediche apposte alle opere letterarie italiane (ma il discorso può essere facilmente esteso ad un’area geografica ben più ampia)2 ha contribuito a indurre nel lettore un comprensibile riflesso pavloviano a saltare a pie’ pari le prime pagine dei volumi in cui compare una dedica. Ma proprio il carattere formulare di questi testi e la loro imperturbabile presenza nelle opere letterarie tra Quattro e Settecento è il segnale non di una banalità da relegare tra i rumori di sottofondo, ma di una necessità, di un bisogno collettivo e individuale di definire il rapporto che il dono dell’opera stabilisce tra l’autore che la offre e il dedicatario che la riceve.

La dedica è in questo senso un notevole documento dei rapporti tra intellettuali e potere, uno strumento di indagine insieme esplicito e codificato, che va interpretato secondo il suo linguaggio formulare e secondo le variazioni che le singole dediche apportano a un ipotetico modello normativo. La dedica è anzi il documento che stabilisce i termini di uno scambio di beni, materiali o immateriali, tra una parte in causa e l’altra. È una sorta di contratto, il cui valore giuridico non si fonda certo su un articolo di codice, ma su un diritto consuetudinario, una giurisprudenza che, benché non scritta, ha una sua codificazione e che, nella pratica, non ha meno valore di un articolo di legge3. Questo aspetto ‘giuridico’ della dedica, che gli studi storici più attenti alle questioni antropologiche e sociologiche hanno individuato già da tempo con chiarezza, resta uno degli aspetti più interessanti della questione.

Il periodo a cavallo tra Quattro e Cinquecento, in cui si manifesta, in Italia e altrove, una profonda crisi dei rapporti tra letterati e patroni in concomitanza con lo sviluppo dell’industria della stampa, è un’epoca-chiave in questa prospettiva. Il passaggio dalla pratica manoscritta a quella a stampa, l’esplosione del mercato del libro con la moltiplicazione e la diversificazione dei lettori, e l’irrompere sulla scena della figura cardinale dell’editore-tipografo, sono tutti fattori che contribuiscono a quella rivoluzione-evoluzione della stampa, su cui esiste ormai una bibliografia enorme, che non smette d’interrogarsi sulla rottura e sulla sopravvivenza delle diverse pratiche librarie4.

Anche la dedica registra, in questo periodo e nel corso di tutto il Cinquecento, novità eclatanti accanto ad abitudini persistenti, perché se da un lato la stampa modifica durevolmente il rapporto che gli autori, i dedicatari e tutti gli attori dell’editoria intrattengono con l’opera letteraria, dall’altro gli automatismi retorici e dialettici della dedica spesso avvolgono le pratiche innovative nel mantello della tradizione, per facilitare l’assorbimento di certi bruschi cambiamenti o perché, in fondo, il rimescolamento delle carte in tavola e l’aggiunta di nuovi giocatori non rimettono in causa la logica di base, che resta quella dello scambio di un’opera letteraria contro il favore del dedicatario, il cui potere di attrazione è solo marginalmente intaccato dai benefici economici generati dalla stampa.

Nel corso del XVI e XVII secolo, e fino allo straordinario Roman bourgeois di Antoine Furetière, compaiono molti testi polemici contro gli abusi che i diversi attori del sistema della dedica non dovrebbero compiere: questi ricorrenti richiami alla regola non fanno che confermare non solo che il sistema resiste nel corso dei secoli, ma che si fonda su regole strutturanti e condivise, anche se non sempre rispettate5.

Per chiarire questa logica di fondo, e per valutare in che modo la svolta della stampa modifichi o perpetui le abitudini legate alla dedica e in particolare il ruolo dei diversi attori coinvolti, vorrei passare in rassegna una serie di casi, la cui rilevanza statistica è senz’altro limitata, per quantità e per qualità, ma che mi pare abbastanza significativa e tipologicamente varia per poter contribuire a una riflessione sulle categorie coinvolte nell’‘atto della dedica’. Per seguire il processo di quest’atto, articolerò il mio discorso intorno a tre domande, la cui apparente semplicità è inversamente proporzionale alla complessità della risposta: chi dedica, che cosa dedica e a chi si dedica (domanda, quest’ultima, che implica anche un ‘perché e come si dedica’).

Chi dedica

L’autore

Il principio del diritto d’autore è oggi ampiamente condiviso e la funzione-autore è per noi quasi inscindibilmente legata al titolo dell’opera composta. Questa percezione diffusa non è sempre esistita e deriva in buona parte dalle riflessioni illuministiche sulla proprietà delle opere d’ingegno6. Tuttavia, anche se la nozione attuale di autore e dei diritti che questi può esercitare sulla sua opera sono ben diversi da quelli correnti nel XVI secolo, la stampa ha avuto un ruolo di primo piano nella stabilizzazione di una nozione forte di autore, cioè dell’individuo a cui è attribuita la paternità e la responsabilità di un testo. Non solo per necessità di catalogo, ma per l’evoluzione della nozione di originalità, legata a sua volta all’esplosione di una letteratura in volgare e al dibattito sul principio di imitazione degli antichi7.

L’autore dunque dedica perché è a lui che spetta la gestione della propria opera. L’onnipresente metafora dell’autore-padre e dell’opera-figlia è la vera spina dorsale, la chiave d’interpretazione di ogni discorso che evochi o rivendichi il rapporto viscerale che unisce autore e opera, ed è declinata con logica geometrica là dove vengono definiti i ruoli degli altri attori coinvolti nella gestione dell’opera stessa. Come un padre, l’autore detiene la ‘patria potestà’ della sua prole, ne è geloso, ne cura l’onore, la accresce amorevolmente, la difende da chi vuole storpiarla e offenderla, ed esercita il diritto di tenerla presso di sé o di offrirla. E come i figli erano impiegati a corte o tenuti a battestimo dai signori (prendendone talvolta il nome), così le opere erano dedicate, donate, intitolate ai potenti.

Ovviamente questo diritto dell’autore non è un diritto d’autore, nel senso che, come accennavo, nel Cinquecento non si può parlare dei diritti dell’autore se non in termini di diritto consuetudinario. Di diritti d’autore sanciti da leggi si inizia a parlare solo a partire all’inizio del Settecento, con lo Statute of Anne (1709)8. Tuttavia già all’inizio del Cinquecento sono attestate cause e provvedimenti giuridici concernenti i diversi attori dell’impresa letteraria perché, con la stampa, gli interessi dell’autore entrano immediatamente in conflitto con quelli economici di tipografi e finanziatori, e succede che le vertenze tra questi contendenti vengono regolate in tribunale9. Nei processi che ne nascono, l’autore è considerato come il primo gestore dell’opera da lui composta: lui può cederla, prestarla, venderla, ma è da lui che ogni delega deve partire. Anche gli stampatori che, nel corso del Cinque e del Seicento ingaggeranno lotte senza quartiere con gli autori, e le vinceranno, difenderanno le loro prerogative non contestando questo principio, ma affermando proprio che i diritti di un’opera possono essere ceduti dall’autore10.

Ai diritti sulla propria opera, però, di solito non si rinuncia gratis. L’opera vale, può trasformarsi in una fonte di reddito o attraverso la dedica o attraverso la cessione a un editore di una parte dei diritti detenuti dall’autore sulla sua opera; in un caso la ricompensa sarà intesa come una merces, nell’altro come un pretium11.

Esiste tuttavia anche la possibilità che l’autore rinunci ai suoi diritti, facendo circolare la propria opera anonima: un sistema pratico per sottrarsi alla propria responsabilità di fronte al controllo della censura, visto che un libro anonimo può essere messo all’indice, ma il suo autore non può essere perseguito prima che ne venga accertata l’identità. Man mano che, nel corso del Cinquecento, aumentano le preoccupazioni per la censura, al discorso sul diritto dell’autore si accompagna sempre più quello sulla responabilità dell’autore.

L’autore può infine essere non negato, ma moltiplicato, nel caso ad esempio in cui esista un ‘autore collettivo’, come le accademie, che si assumono la resposabilità collettiva dell’opera e che ripetono in altri termini la pratica delle confraternite dei joglars medievali. Ma si tratta di casi minoritari.

L’editore

La dedica dell’editore (e intendo questo termine in senso largo ed etimologico: può trattarsi dello stampatore, del finanziatore o del curatore) è sempre più frequente nel corso del Cinquecento via via che in particolare il ruolo dello stampatore diventa più ingombrante nella gestione dell’opera, ed è una delle cartine di tornasole della lotta tra l’autore e chi detiene i ‘mezzi di produzione’ e di finanziamento12. Le rappresentazioni dell’atto di offerta dell’opera al dedicatario, nei manoscritti e nelle stampe, forniscono molte informazioni sul ventaglio delle persone e delle funzioni che detengono, o che pretendono di detenere, in diritto di dedicare l’opera13.

La problematica definizione dei confini tra le competenze e i frequenti abusi perpetrati da chi occupa una posizione di forza sul piano tecnico ed economico è uno dei principali nodi del dibattito sulla dedica, che si infiamma nella seconda metà del Cinquecento. Nelle prime pagine del suo dialogo Della dedicatione de’ libri, Giovanni Fratta si sofferma sulla questione mettendo in guardia contro le prepotenze degli stampatori, ma affermando anche implicitamente che l’« intendimento del proprio autore » è un titolo valido per la cessione del diritto alla dedica14. Quanto ai motivi dichiarati, sottintesi o taciuti per cui è l’editore a firmare la dedica al posto dell’autore, la casistica è piuttosto varia.

Può accadere che l’autore sia morto prima che l’opera potesse essere pubblicata (a stampa o manoscritta, il principio non cambia). L’opera, orfana, non rimane però in balia del primo venuto dal momento che, come tutti i beni del defunto, anche essa viene trasmessa in eredità, benché siano rare le indicazioni esplicite nei testamenti. E gli eredi gestiscono i diritti del defunto autore come gestirebbero un terreno ricevuto in eredità. È celebre il caso delle opere ariostesche, che si trasformarono in un vero tesoro per i parenti che le ebbero tra le mani (prima il fratello Gabriele, poi il figlio Virginio) e che regolarono l’accesso dei curiosi e degli editori ai cassetti di Ariosto, in cui restavano, dopo la sua morte, ancora delle opere inedite.

Alla morte di Giovanni Della Casa, le sue opere rimasero al nipote Annibale Rucellai che, disobbedendo alla volontà dello zio, non bruciò le sue opere volgari o incompiute, ma le pubblicò una dopo l’altra. Il suo senso di colpa, o più probabilmente il bisogno di giustificare la propria posizione nei confronti dei lettori, lo portarono ad aggiungere alcune preziose prefazioni, che illustrano il tenore dell’operazione. Nella lettera dedicatoria dei Latina monimenta (Firenze, Giunti, 1564), Annibale (o chi per lui: quello che importa è la spartizione ufficiale dei ruoli nel gioco della dedica) spiega infatti di non aver rispettato la volontà dello zio a causa dalle insistenze degli amici e per rispetto del bene comune. Del resto, egli accetta di condividere questa colpa, se colpa si può chiamare, con altri illustri esempi, sia antichi, sia contemporanei. Poco tempo prima, avevano preso la stessa decisione anche gli eredi di Guicciardini, che avevano salvato la sua Storia, benché l’autore, interrogato dal notaio testante, avesse imposto che fosse bruciata15.

È quindi il Rucellai stesso che dedica l’opera al curatore, Pier Vettori, amico carissimo dello zio, cercando in questo modo un accordo a posteriori con la volontà dell’autore, poiché, continua a spiegare nella prefazione, Della Casa intendeva dedicare a Vettori una grande opera sulla lingua, ispirata al modello varroniano. Così, il nipote intende compensare il furto subito da Vettori a causa della morte dell’amico. «Remitto igitur ad te librum excusum et iam communem omnium publicumque factum qui prius tuus privatusque erat», risponde Vettori ad Annibale Rucellai, attestando così nel contempo la generosità dell’amico e la fondatezza dei diritti dell’erede nella gestione dell’opera16.

Che questo racconto sia vero o meno (lo ritroviamo in occasione della pubblicazione del Galateo: l’attrazione dell’esempio virgiliano è enorme), quello che importa è che la decisione spetta all’erede, senza il cui consenso non c’è legalità17. Naturalmente non mancano episodi di pirateria, ai danni degli autori come degli eredi, ma la logica della pirateria non è compatibile con quella della dedica. Gli stessi eredi del resto gestivano i loro diritti secondo una logica economica, e càpita che la pretesa pirateria non sia in realtà altro che una copertura per operazioni commerciali.

Un caso in cui pirateria e gestione del diritto ereditario si confondono è quello della pubblicazione della traduzione latina dei De dictis factisque memorabilibus collectanea di Battista Fregoso (Milano, Iacobus Ferrarius, 1509). Il traduttore, il giovane Camillo Gilino, dedica il suo lavoro al governatore francese di Milano. Ma l’opera era già stata dedicata dall’autore al figlio Pietro, ed era rimasta manoscritta presso l’erede. In qualche modo, però, il manoscritto era sfuggito al controllo di Pietro, ed era finito in mano al Gilino. A prima vista, si direbbe un caso di abuso da parte dell’editore. Ma il traduttore pone la questione diversamente: nella dedica si rivolge infatti a Pietro, invitandolo a non aversene a male se la dedica che gli era destinata è stata trasferita (« transfertur ») a un personaggio potente, ma a riconoscere che questo può tornargli addirittura utile (« sed in eo beneficium quoque esse agnosces »)18.

Secondo l’interpretazione dell’editore-pirata (che comunque, ed è fondamentale, è un traduttore che dedica in primo luogo il suo lavoro di traduzione, ma tornerò più avanti sulla questione), la dedica passa da uno statuto privato, familiare e manoscritto a uno statuto pubblico, ufficiale e a stampa. Ma è probabile che l’erede non fosse all’oscuro delle intenzioni del traduttore, ma che al contrario fosse consenziente e desideroso di approfittare di quella dedica che, se avesse voluto tenere per sé, non gli avrebbe fruttato nulla. Si può cioè pensare che l’erede abbia ceduto la dedica a un potenziale patrono, secondo una prassi non ignota nel Cinquecento (a riprova del fatto che la dedica era, nei fatti, trattata come un bene negoziabile), ma non unanimemente approvata, tanto che era consigliabile mascherare l’operazione.

Un altro motivo, tra i più diffusi, per cui l’editore si incarica della dedica, è che l’autore rifiuta di pubblicare la sua opera, che però merita di essere conosciuta da tutti. L’atto di pirateria dell’editore viene quindi presentato come un gesto di altruismo nei confronti della comunità letteraria.

Due sono di solito le ragioni che l’editore adduce per giustificare il suo atto di prevaricazione: il bene comune, appunto (come nel caso dei Latina monimenta casiani), e il diritto del dedicatario. Non è giusto, infatti, che il dedicatario sia privato di un onore che gli è dovuto, perché l’autore non vuole pubblicare la sua opera19. Tuttavia, alcune circostanze danno adito a dubbi sull’autenticità di questi furti dal cassetto degli autori e fanno sorgere il sospetto che, almeno in una certa percentuale, quelli confessati dagli editori non fossero veramente dei furti, ma, ancora una volta, degli stratagemmi organizzati, o quantomeno approvati dagli autori stessi per evitare certi fastidi legati alla pubblicazione di certe loro opere.

Questi fastidi potevano essere le critiche all’opera, sempre più frequenti e temibili in un’epoca in cui si sviluppa una critica letteraria agguerrita e una spietata concorrenza editoriale, soprattutto per certi generi letterari; oppure, in particolare nei primi anni del Cinquecento, quando ancora i dedicatari avevano un concetto forte dei loro diritti, potevano essere le pretese stesse dei dedicatari di tenere l’opera presso di sé in esclusiva, almeno per un certo tempo. Per liberarsi da qualsiasi responsabilità, l’autore poteva allora fingere un furto, come forse fece il Tebaldeo, le cui Rime furono pubblicate dal cugino Iacopo, ufficialmente contro la volontà dell’autore, nel 149820. Il fatto che, nella maggioranza di questi casi, gli editori cerchino un accordo ideale con le intenzioni dell’autore o che confermino la dedica che l’autore aveva apposto al manoscritto, non si oppone all’ipotesi di un furto mascherato, anzi la rafforza perché quello che l’autore voleva ottenere non era il cambio della dedica, ma la pubblicazione della propria opera.

Sempre più, però, nel corso del Cinquecento, la sete di novità, di cui molti autori si lamentano (primo fra tutti Castiglione nel Cortegiano), ma che alimenta l’industria della stampa, spinge a commettere furti reali21.

Non è certo il caso più frequente, visto il valore che poteva avere un’opera, ma è possibile che l’editore si incarichi della pubblicazione e della dedica di un testo perché l’autore se ne disinteressa. In effetti, questa categoria è talmente particolare che, come per il caso precedente, ci si può interrogare sulla sua reale consistenza.

È tuttavia quello che sembra accadere all’Arcadia di Sannazzaro, pubblicata da Pietro Summonte quando l’autore l’aveva accantonata per dedicarsi ad altre imprese letterarie22; o, in altre circostanze, alla Monarchie de France presentata da Claude de Seyssel a Francesco I nel 151523. L’umanista francese, ritiratosi in seguito in Savoia, non ebbe alcuna parte nell’edizione stampata nel 1519 da Regnauld Chaudière: per lui la questione della sua opera si era chiusa quattro anni prima, al momento dell’offerta del manoscritto di dedica.

Nel caso di Sannazzaro, l’autore abbandonò l’opera perché erano cambiati i suoi interessi letterari, per cause quindi interne all’evoluzione della sua poetica, mentre nel caso di Seyssel sembra emergere la differenza tra la logica di un autore, che mira a un riconoscimento e a una ricompensa da parte del solo dedicatario, e quella di chi cerca un riconoscimento e un guadagno vendendo le proprie opere a stampa.

Ma il caso di Seyssel, sempre che la storia editoriale della sua Monarchie de France si sia effettivamente svolta così, è minoritario, e non perché sia un esempio transalpino: proprio nel contesto francese, gli studi di Cynthia Brown hanno mostrato come, con l’affermazione della stampa, nel primo trentennio del Cinquecento, si siano avviate una rivoluzione delle aspettative degli autori nei confronti della loro opera e una modificazione dello statuto dell’autore verso una maggiore indipendenza, sociale e economica, dal signore. Anche gli autori che offrivano con successo le loro opere a corte si occuparono infatti da vicino della stampa dei loro libri e lottarono accanitamente per la difesa dei loro diritti di autori.

Un ultimo motivo che può essere invocato per giustificare la dedica dell’editore è che l’autore gli abbia offerto l’opera, come fece Laura Terracina con le sue Rime (Venezia, Giolito, 1548), dedicate dal curatore Ludovico Domenichi a Giovan Vincenzo Belprato, conte d’Aversa. Nella lettera di presentazione, Domenichi si dice certo di non « havere offeso la Signora Laura, publicando le fatiche sue sotto il nome vostro, perché io mi rendo certo che havendole io havute in mano per sua cortesia, io habbia anco potuto con tacita licenza di lei farne il voler mio. [...]. Prendetele dunque Signore come cosa degna et come dono di me, che desidero servirvi »24.

Come accennavo prima, oltre alle dediche degli autori e degli editori esistono poi le dediche dei traduttori, degli autori di apparati, delle illustrazioni. Ma, a ben vedere, queste offerte non si riferiscono all’opera in sé, ma alle aggiunte apportate o alle operazioni compiute sull’opera dell’autore. Sono dediche ‘accanto’ e non ‘al posto di’ quelle dell’autore. È importante infatti distinguere che cosa è oggetto della dedica.

Che cosa si dedica

Il testo, il corpus mysticum e l’esemplare, il corpus mechanicum

Si tratta di una distinzione fondamentale, pienamente riconosciuta nel diritto d’autore odierno, ma ben presente anche nella sensibilità rinascimentale e valida sia per le opere manoscritte sia per quelle a stampa. Il corpus mysticum, l’opera dell’ingegno, non può infatti circolare senza un supporto materiale, per cui se, in una gerarchia ideale, la forma prevale sulla materia, l’autore sullo stampatore, chi gestisce il corpus mechanicum può legittimamente reclamare alcuni diritti.

A un ‘grado zero’ della diffusione di un’opera, l’autore offre un manoscritto autografo al dedicatario, controllando così insieme il testo e il suo supporto. È il modello che vige prima della stampa, e che comunque, anche in quel contesto di produzione, ha un valore più ideale che reale, perché l’opera può sfuggire, e spesso sfugge, con o senza il loro consenso, al controllo dei due principali attori della diffusione, l’autore e il dedicatario.

Con la stampa, la questione si complica in maniera sostanziale, perché il corpus mechanicum diventa il frutto di una produzione ‘industriale’, la cui gestione è sottratta all’autore e affidata a dei professionisti che hanno delle competenze tecniche, che investono grandi capitali negli strumenti di lavoro e nella manodopera, e che, assumendo gli alti rischi commerciali dell’impresa, pretendono in cambio dei benefici e dei diritti, se non sul corpus mysticum, che resta sempre patrimonio dell’autore, sul corpus mechanicum, che è quello poi si cui si giocano tutte le questioni giudiziarie.

Le dediche non d’autore, che fioriscono sempre più rigogliose nelle stampe cinquecentesche, riguardano quindi l’opera di stampa o di edizione, o i paratesti dell’opera, e si aggiungono, senza rimpiazzarle, alle dediche d’autore, che hanno anzi una vitalità spesso insperata in un quadro di giurisprudenza selvaggia e di concorrenza serrata tra stampatori. Queste dediche sono spesso il luogo in cui stampatori e editori difendono la propria linea editoriale e i loro orientamenti religiosi, politici, culturali. La concorrenza, all’inizio degli anni ’30, tra Blado e Giunti per la pubblicazione delle opere machiavelliane ancora inedite si condensa in un duello di dediche esemplare, in cui gli stampatori chiamano a sostegno delle rispettive imprese di edizione due influenti clan della politica tra Firenze e Roma. Ma, per quanto cariche di significato, queste dediche degli editori non interferiscono con la dedica di Machiavelli, anzi, cercano con essa un accordo ideale, perché le due offerte non appaiano giustapposte, ma si sostengano l’una con l’altra25.

Nonostante che fossero nei fatti in posizione di forza per imporre il proprio intervento ai margini dell’opera, molto spesso gli stampatori cercarono inoltre una legittimazione del loro ruolo e dei loro diritti, inserendosi nel topos della metafora filiale che lega l’autore e la sua opera, quasi che si trattasse di un albero genealogico in cui era necessario comparire per giustificare la propria familiarità con l’uno e con l’altra. Se dunque il dedicatario è il padrino dell’opera, l’editore si attribuisce una funzione più ‘meccanica’, ma se possibile ancora più importante: quella della levatrice, della nutrice o della madre adottiva. Nell’Hypnerotomachia Poliphili, che appare a stampa preceduta da diversi paratesti, il carme latino di Giovan Battista Scita celebra eloquentemente la doppia nascita dell’opera, « bis genita » dall’autore e dall’editore, Leonardo Crasso:

Vitam Poliphilus dedit; dedisti

Vitam tu quoque se<u> necem repellis.

Nam cum conditus in situ iaceret

Lethen iam metuens sibi propinquam,

Das hunc gentibus omnibus legendum,

Nec tu sumptibus aut tuo labori

Parcis, sed, melior parente, natum

Proiectum gremio tuo levasti26.

Lo stesso principio giustifica le dediche dei traduttori: la traduzione anzi è una delle operazioni letterarie più riconosciute e remunerate fin dall’epoca della produzione manoscritta. Le traduzioni sono spesso commissionate e pagate in moneta sonante, talvolta con un accordo che non si discosta molto da quello con cui una bottega d’artista si impegnava a fornire un’opera a un signore.

Per la sua traduzione della Repubblica di Platone, Pier Candido Decembrio ricevette ad esempio dal duca di Gloucester la promessa di una pensione, poi di una tenuta nel Milanese27. Il traduttore era l’intermediario che facilitava la fruizione della cultura classica, e in particolare greca, rendendola disponibile in latino. Per i patroni le traduzioni erano un mezzo insieme per accedere alle opere e per propagandare la loro immagine di mecenati. Il traduttore era dunque a pieno titolo un autore, e la dedica della propria opera era un suo diritto indiscusso, ma, beninteso, sempre che si tratti di traduzioni in latino: i volgarizzamenti, almeno fino alla metà del Cinquecento, non avranno una dignità letteraria paragonabile, e saranno considerati, salvo poche eccezioni, opere di divulgazione28.

Anche il lavoro filologico sui testi antichi e la loro stessa riscoperta generano dei diritti, e su questo argomento le dediche di Aldo Manuzio sono una vera enciclopedia. Nella dedica della raccolta di testi sull’astronomia a Guidoubaldo da Montefeltro, Aldo spiega ad esempio su quale base si fonda il suo diritto di dedica: « vorrei che il fatto non venisse ascritto a mia presunzione; perché penso che in tanto mi sia concesso di dedicare a questo o a quello i libri altrui stampati per nostra cura, in quanto tali autori, oggetto delle nostre più attente ricerche, li richiamiamo quasi da morte a vita ». È questo suo sforzo per resuscitare i libri maltrattati dalla storia a valergli il diritto di dedicarli (« mi sembra che far ciò sia mio diritto », conclude infatti)29.

Spicca, nel discorso di Aldo, la metafora del ‘far rivivere’, che aggiunge un nuovo anello alla metafora genealogica di cui è protagonista l’opera: se l’autore è il padre, l’editore è o la levatrice nel caso in cui l’autore sia vivo (per cui l’editore aiuta a far venire il luce l’opera generata dall’autore ma che, senza il suo intervento, resterebbe al buio, non partorita), o è addirittura colui che rianima e resuscita un’opera morta, quando si tratta dell’opera di un autore antico, la cui opera giace negletta e frammentata.

Tutta questa tipologia di dediche editoriali si riflette significativamente, come nella già evocata iconografia dell’atto di offerta del libro, nella tipologia delle richieste di privilegi. Questi diritti di stampa in esclusiva erano infatti di norma concessi per opere nuove. Nelle richieste di privilegio e nelle risposte delle autorità si trovano quindi definiti gli elementi che caratterizzavano la novità dell’opera: perché composta di recente, o perché riscoperta di recente, o perché erano nuovi gli apparati, o le traduzioni, o il testo stesso era nuovo, perché migliorato dagli editori30. E come ha mostrato Elizabeth Armstrong, chi poteva ottenere i privilegi avendo apportato delle novità all’opera, poteva anche reclamare diritti, oggi diremmo intellettuali o commerciali, su di essa31.

Un’ultima tipologia del ‘che cosa si dedica’ risulta in realtà sensibilmente asimmetrica rispetto alle categorie di corpus mysticum e corpus mechanicum usate fin qui. A imporla è la produzione teatrale che, per sua natura, scardina questa logica binaria introducendo almeno un’altra dimensione al discorso, e sollevando in certi casi una questione di fondo sulla pertinenza del concetto di autore32. Gli stessi autori teatrali danno spesso indicazioni plurali sulla dedica della loro opera, dedicando magari la rappresentazione al principe che aveva commissionato o incoraggiato l’opera, o che aveva fatto organizzare la messa in scena in occasione di una delle sue feste, e a un’altra persona il testo. In questo caso la distinzione riguarda piuttosto performance e testo, e si basa sulla doppia vita dell’opera teatrale, in particolare in un momento storico in cui la rinascita dei generi teatrali antichi inagura un agone per i letterati italiani, e in cui, di conseguenza, la pubblicazione di ogni testo diventa l’occasione per discussioni sulla rinascita della tradizione dei generi drammatici.

Il Giraldi Cinzio, ad esempio, appone all’Egle due dediche, una al duca di Ferrara, che ha fatto rappresentare l’opera, e una all’amico Bartolomeo Cavalcanti, presso cui l’autore difende la sua ‘invenzione’ della favola pastorale e a cui chiede di difendere a sua volta l’opera dalle critiche. Il bersaglio delle due dediche è completamente diverso, anche se l’avallo del principe è usato come argomento in favore della bontà dell’invenzione33.

Tuttavia, data la complessità e la particolarità di questo caso, preferisco rimandarne la trattazione ad altra sede e dedicarmi alla terza ed ultima questione proposta.

A chi (e come) si dedica un’opera

Gabriel Chappuys, che almeno quanto Doni può fregiarsi del titolo di grande esperto dei meccanismi del mercato editoriale e della dedica in particolare, scriveva nella premessa del suo Monde des Cornus che, « voyant le titre d’un livre, on tourne incontinent le feuillet pour voir à qui on se dédie, & si celuy que l’on honore tant est incogneu, on se demande incontinent, Qui est-il? Mérite-t-il ces honneurs? Est-il sçavant, aime-t-il les lettres? »34. Chappuys ribaltava così abilmente i termini del classico dibattito sul rapporto tra dedicatario, opera e autore, dando l’impressione che tocchi al dedicatario essere degno dell’opera, e non viceversa. Certo, la scelta del dedicatario era ben meditata dagli autori, che erano consapevoli di legare per sempre le sorti e la memoria della loro opera a quelle del dedicatario, e sapevano che il dono doveva essere conforme alle qualità del dedicatario35. Tuttavia, in primo luogo, la scelta del dedicatario era dettata da un calcolo strategico, in primo luogo finalizzato all’ottenimento di una ricompensa, a lungo o a breve termine che fosse.

La dedica è cioè il mezzo attraverso cui un’opera letteraria diventa oggetto di scambio, per ottenere (o almeno per chiedere) denaro, cariche, favori. Chiunque firmi la dedica si rivolge a un interlocutore che possa offrire questi controdoni, cioè, di solito, a un principe a cui è già affiliato o a un patrono che vorrebbe conquistare. Con l’affermazione della stampa, il sistema di scambio che fa perno sulla dedica si radica e si trasforma, come testimoniano l’incremento degli scritti polemici intorno agli abusi del sistema stesso, ma anche la comparsa, nelle rappresentazioni dell’offerta del libro al dedicatario, del controdono, della ricompensa desiderata dall’autore che, come un lapsus sfuggito ai freni inibitori dell’autore, si materializza là dove era a lungo rimasto sottinteso, sospeso all’allusione e alla speranza, rimosso dal bon ton36.

Tuttavia il principio del do ut des era pienamente condiviso dalle parti in causa ben prima dell’affermazione della stampa. Alcune vicende ben documentate illustrano nel dettaglio come la virtù della liberalità si declinasse nella routine dei rapporti tra letterati, che inviavano le loro opere, e signori, che dovevano soppesare la ricompensa tenendo conto del valore del dono, ma anche delle proprie disponibilità finanziarie, della condizione del letterato e, non ultimo, della propria fama. Molto di rado, però, la dedica conteneva una richiesta esplicita di controdono, che era riservata ad altre sedi: all’oralità o a una sottintesa ‘tabella di corrispondenze’37.

Nel suo libello sulla Intitolation gratiosa de’ libri, Ludovico Castelvetro critica aspramente le derive della dedica all’epoca della stampa, ritenendole degradanti per i letterati, che dichiarano così la loro servitù nei confronti dei dedicatari38 (e rischiano poi comunque di essere ripagati con le briciole o con il disprezzo, come lamentava Doni rivolgendosi, nei Fiori della Zucca, A coloro che dedicano opere per necessità et pigliano un granchio a secco39). La sua lucida analisi dei topoi con cui gli autori cercavano di abbellire l’atto di mercificazione della loro opera costituisce un ottimo punto di vista sull’ampio ventaglio delle forzature della dedica, e in particolare sul modo in cui il dedicante considerava e rappresentava il dedicatario.

In un’epoca che vede nascere una critica letteraria puntigliosa e spesso aggressiva, gli autori sentono sempre più spesso il bisogno di essere difesi, ora da un gruppo di letterati amici, ora dall’accademia a cui appartengono, e puntualmente dal dedicatario che invocano come scudo contro gli strali dei detrattori. Le critiche emesse possono essere rivolte contro la qualità letteraria del testo, ma sempre più, nel corso del Cinquecento, le opere corrono il rischio di subire degli attacchi sul piano della morale e dell’ortodossia religiosa; di conseguenza, il ruolo del dedicatario scivola rapidamente dalla posizione piuttosto confortevole di baluardo contro le invidie tra letterati di corte o tra universitari, a quella ben più rischiosa di garante del contenuto dell’opera. Per accettare questo ruolo delicato, il dedicatario pretende dunque sempre più perentoriamente di esaminare l’opera prima che gli sia dedicata e associata al suo nome al momento della pubblicazione. Questa procedura di ‘gradimento’ si formalizza progressivamente fino al XVIII secolo, e non mancano gli esempi di domande di modifiche da apportare alle opere stesse o alle lettere di dedica, e anche di netti rifiuti40.

Benché la dedica esprima solitamente l’offerta spontanea di un’opera, il dedicatario può essere tuttavia il committente dell’opera che gli è presentata, e per alcuni generi letterari in particolare, come la storiografia, le opere teatrali, le orazioni o le traduzioni, la pratica della commissione è più comune che per altri. In questi casi il dedicatario esercita dei diritti di gestione più diretti sull’opera, perché ha spesso pagato per ottenerla, soprattutto, come si è visto, nel caso delle traduzioni41.

Ma esiste anche un topos semi-paradossale, in base al quale il dedicatario è celebrato come l’autore potenziale del libro, come accade soprattutto per i testi di istruzione. L’autore non si permette infatti di affermare che il suo manuale educherà il principe, sulla politica, sulle buone maniere, sul modo in cui trattare i sottoposti, anche se è proprio questa la sua funzione e la sua ragione di essere. Al dedicatario è attribuita una gratificante onniscienza nella materia, che lo rende, più che il lettore e il beneficiario delle istruzioni indirizzategli, il modello a cui l’autore si è ispirato per raccoglierle, il maestro da cui lo scrittore ha appreso tutto. Per cui l’opera finisce per presentarsi come il ritratto del principe dedicatario: lo speculum principis è così ricondotto alla concretezza della metafora, come illustra in modo esemplare la memorabile dedica del De maiestate di Giuniano Maio, vero crogiolo delle figure retoriche associate al rapporto tra dedicatario, opera e autore42.

Se la dedica è il mezzo con cui l’opera letteraria diventa un bene di scambio, gli autori possono essere tentati di moltiplicare le occasioni di ricompensa dedicando la stessa opera a più persone. Non è un malcostume che nasce con la stampa, ma con essa questa tendenza si sviluppa significativamente, in primo luogo perché è possibile produrre a un costo limitato molti esemplari dell’opera, che possono essere facilmente personalizzati.

È questa una delle pratiche abusive più criticate dai censori. Fratta trova che snaturi la nobiltà del dono43, e in effetti la moltiplicazione dei dedicatari rompe il patto di esclusività della dedica e, con una logica declinazione della fondamentale metafora dell’autore-padre e opera-figlia, trasforma l’autore in un lenone che prostituisce la propria opera. Aretino era uno specialista in questo campo44, ma l’abitudine era diffusa: bastava sostituire un foglio nella stampa, avendo magari cura di modificare qualche dettaglio del testo per poterlo presentare come una novità, ed ecco che l’opera poteva essere dedicata a diverse persone, che si credevano talvolta le uniche dedicatarie dell’opera45.

A uno sguardo più ravvicinato la moltiplicazione delle dediche appare come la degenerazione di un’eccezione contemplata dal sistema, anche se non universalmente condivisa, e invocabile nel caso in cui il dedicatario non gradisca il dono, si dimostri poco generoso o muoia prima di poter ringraziare l’autore. Il consiglio che Doni rivolgeva agli autori, di «rifare le epistole» e di «volgere ad altri i vostri sudori» era certo provocatorio, ma mirava a tutelare gli interessi degli autori, spesso calpestati sia dai dedicatari sia dagli stampatori, e non a trasformare i letterati in mercenari, dal momento che egli giustificava il cambio, e non la moltiplicazione della dedica, nel caso in cui la speranza del dono fosse rimasta delusa e il contratto implicito con il dedicatario fosse stato rotto46.

Una buona parte dei casi in cui le dediche sembrano moltiplicarsi merita comunque di essere giudicato più benevolmente, se si tien conto della distinzione esistente tra testo e supporto materiale. Erasmo, che, pur senza la sfrontatezza aretiniana, gestiva però da professionista i propri diritti e sapeva trarre il massimo guadagno dalle sue dediche47, non sostituiva nessun fascicolo nelle sue opere, ma aggiungeva un foglio di dedica, che riguardava quindi solo quell’esemplare, non la dedica dell’opera48. Gli era così possibile, senza infrangere nessun principio del sistema, rendere omaggio all’uno senza rimettere in questione la dedica offerta all’altro49.

Un altro sistema, rispettoso per lo meno della lettera se non dello spirito della legge, per moltiplicare l’effetto della dedica consisteva nel dedicare parti o tomi diversi della stessa opera a dedicatari diversi. Il già citato duca di Gloucester si stupì una simile pratica in occasione della traduzione del Decembrio, ma si sentì rispondere che in Italia l’abitudine era corrente, quasi alla moda50. Con i Mondi, Doni toccò un vertice esecrato da molti contemporanei (e del resto tanto eccessivo da apparire come una critica della pratica stessa, o come una denuncia delle condizioni che spingevano gli autori verso simili eccessi)51, ma il ricorso alla lezione dei classici poteva offrire una pronta e onorevole giustificazione, come argomenta facilmente Ortensio Lando nei Paradossi52.

Non possono essere trattati propriamente come cambi di dedica i casi in cui, pur se la dedica migra verso nuovi dedicatari, rimane consacrata alla stessa carica o funzione, secondo il principio dei ‘due corpi del re’: ad esempio, Sannazzaro, che dedica il De partu virginis al papa pensando prima a Leone X, poi a Clemente VII, resta fedele alla sua idea di offrire il suo poema sacro al papa, qualunque sia la sua incarnazione momentanea.

Per lo stesso motivo, malgrado il cambiamento della persona del dedicatario, sono ‘fedeli’ le dediche che potremmo definire ‘ereditarie’ perché, in linea di principio, come l’autore lascia in eredità i suoi diritti sull’opera, allo stesso modo i diritti del dedicatario possono passare ai suoi eredi. In pratica, quando questo accade, è perché colui che dedica è interessato al passaggio di questi diritti. Il Giron Cortese, commissionato a Luigi Alamanni da Francesco I, è dedicato ad esempio a Enrico II53; oppure le Metamorfosi ovidiane vengono tradotte in italiano da Dolce e dedicate a Carlo V, che però muore prima di aver ricompensato il traduttore. Nella stampa dell’opera, Ruscelli si incarica di ricordare a Filippo II i suoi diritti e i suoi doveri di erede: « et si ha da sperar fermamente che Vostra Maestà Catolica, non solamente come erede de’ regni, delle facoltà, de’ crediti e de’ debiti di suo padre, ma ancora come diligentissima imitatrice d’ogni nobilissima virtù sua, non sia per mancar ancor questa degna operazione »54.

Benché la dedica ai patroni in atto o in potenza sia largamente preponderante nelle statistiche, esiste ed è rilevante, per quanto minoritaria, la tipologia della dedica agli amici, di solito ai collaboratori55. Aldo dedica spesso le sue edizioni agli studiosi che hanno ritrovato i manoscritti in Francia o in Germania, che hanno curato il testo o la traduzione. Analizzando la lunga lista di queste dediche è possibile ricostruire non solo la fitta rete di contatti grazie ai quali funzionava l’impresa aldina, ma anche valutare le simpatie personali e le strategie di alleanza tra intellettuali uniti dagli stessi interessi o impegnati in progetti culturali affini56.

Le dediche erano cioè uno strumento per creare e delimitare un campo comune, e per indicare indirettamente un controcampo57. L’impresa aldina non è del resto l’unica che si presti a questo esercizio. Studiando il circolo di Perotti e Campano e la sua rivalità con quello di Bussi, Paola Farenga ha sottilmente rilevato i legami di solidarietà e di concorrenza instauratisi nella Roma dei prototipografi e ricostruibili tramite le dediche dei libri stampati in quegli anni. Quella scoppiata tra Bussi e Perotti è anzi una delle prime polemiche sullo stile, ma soprattutto sulla natura venale di certe dediche, segno che fin dai primordi della stampa in Italia la dedica è stata considerata come uno strumento di promozione ma anche come una potenziale via di degenerazione del rapporto tra autore, dedicatario e pubblico58.

Tra le persone a cui un editore poteva dedicare l’opera c’è, benché possa sembrare paradossale, anche l’autore. Il paradosso apparente si spiega spesso con la storia editoriale movimentata dell’opera in questione: Aldo, ad esempio, dedica a Sannazzaro la sua edizione dell’Arcadia (1514) e coglie l’occasione per spiegare che cosa, a suo avviso, lo autorizza a dedicare l’opera di un autore ancora vivente: « quando taluno invia qualcosa in dono a colui cui il dono appartiene, appare colpevole di temerità e presunzione; perché si debbono inviare in dono le cose proprie, non le altrui, e tanto meno ai loro stessi proprietari. Ma io, nel far ciò, penso di potermene attribuire in certo qual modo il diritto: infatti, sebbene una volta tu abbia composto l’Arcadia in prosa e in versi toscani in modo dotto ed elegante, ed essa sia – come certo è – tua, tuttavia, così pubblicata come ora è da me, non so come, essa è divenuta anche mia. E quindi, quanto in questo libro vi è di mio, te lo dono e te lo dedico »59.

Lo stesso bisogno di giustificarsi prova Alessandro Paganino al momento di dedicare i ‘suoi’ Asolani a Bembo (1515): stampando la sua opera, chiarisce il tipografo proseguendo lo sviluppo della consueta metafora, egli non intende sfruttare la figlia dell’autore, ma la vuole invece ornare degli abiti più belli prima di restituirla al padre60.

Infine, e vorrei concludere con questa categoria veramente paradossale, che però ha pienamente diritto di figurare in questa rassegna, perché impone una riflessione radicale sul fondamento stesso della dedica, un’opera può non essere dedicata a nessuno. Non nel senso che manca la dedica, ma che la dedica è rivolta a nessuno: l’opera, cioè, è di tutti i lettori61.

Dietro questa tendenza, senz’altro marginale ma non ignota neanche nel mondo iper-commerciale e concorrenziale della stampa, c’è un’idea antichissima e al contempo molto moderna, intorno alla quale risorge oggi, nella galassia internet, un dibattito generato dal conflitto tra contenuti e funzioni a pagamento da un lato e applicazioni open source e comunicazione di dati peer to peer dall’altro. Nel suo saggio sul dono, Natalie Zemon Davis spiega infatti che esiste, nella cultura europea, l’idea che la conoscenza è un dono di Dio e che, in effetti, un autore non possiede ciò che scrive, ma trasmette delle conoscenze che appartengono a tutti. Volersene appropriare rappresenta un peccato contro Dio e contro gli uomini. Quest’idea ha delle ripercussioni importanti sul concetto di autore e di originalità, ma anche sul ruolo della dedica, perché se un autore non possiede l’opera che ha scritto, non può neanche donarla.

Certamente non tutte le opere che non hanno una dedica vanno considerate come opere ‘francescane’, ma diversi autori, rinunciando ai loro ‘diritti’, hanno affermato quest’idea, protestando così contro il mercato delle opere a stampa e contro la mercificazione delle lettere. Teofilo Folengo, presentando La Umanità del Figliuolo di Dio, (Venezia, Pincio, 1533), dichiarava di essere stato « importunamente solecitato di dovere a ricchi e poderosi uomini, sì come a grossi pesci, gittar l’amo di questi miei semplicissimi ragionamenti per adescarne, oltra il favore, eziandio qualche cosetta delli datti a loro beni di fortuna. Io che, la mercé di Dio, con meco mi godo di non aver terreno più di quello si m’appiccia in andando sotto le piante, me ne sono liberamente riso ». Di conseguenza, « a voi, poveri di spirito e copiosi di divine grazie, mando quel tutto poco di pane da me fra questi nudi sassi per spazio di tre anni raccolto »62.

Questo di Folengo è forse un caso un po’ radicale, anche se non è un caso unico63, ma quest’idea era ben presente anche nella mente di coloro che accettavano e sfruttavano le regole della dedica e del sistema commerciale delle opere intellettuali: Erasmo o Aldo si congratulavano ad esempio con i dedicatari delle loro opere che, con il loro sostegno finanziario, arricchivano la respublica litterarum, e si lamentavano invece dei patroni che trascuravano la vera cultura, cioè i loro progetti64.

Nelle domande di privilegio, per esempio in quella per l’Elogio della follia, vengono spesso avanzate motivazioni riguardanti l’utilità pubblica dell’opera, un argomento evidentemente considerato come pertinente e convincente. Può accadere che l’autorità che concede il privilegio imponga o suggerisca un prezzo ‘giusto’ per l’opera, pratica già nota nel Medio Evo, soprattutto per i testi giuridici e in generale per quelli universitari, che erano prodotti dai cartolai in regime di monopolio, e i cui prezzi erano controllati perché si trattava di testi necessari per il funzionamento dell’università e per la trasmissione delle conoscenze. Ma nell’epoca della stampa, ci sono esempi di prezzi ‘consigliati’ anche per certe opere di lusso65.

L’imposizione di un calmiere per i libri, manoscritti o a stampa che siano, afferma implicitamente l’idea che la produzione e la distribuzione delle opere a stampa debbano certo essere ricompensate, ma che esiste anche una necessità della circolazione della scienza nella comunità cristiana perché se, secondo il proverbio, Scientia donum Dei est, unde vendi non potest, nel Vangelo si legge che Dignus est operarius mercede sua66.

Tuttavia, nell’universo letterario rinascimentale, non c’è incompatibilità tra queste due mentalità, malgrado le denunce degli abusi. La sfera della ‘gratuità’ e quella della giusta ricompensa sono entrambe autorizzate da Dio e sono, benché in apparenza inconciliabili, ugualmente ancorate nella Weltanschauung di tutti gli attori che agiscono intorno alla pubblicazione dell’opera letteraria: la questione è piuttosto di definire i confini tra le loro sfere d’influenza, costantemente in movimento a seconda dei rispettivi rapporti personali e sociali, dello sviluppo della tecnologia e della giurisprudenza in materia.

Note de fin

1 Tra i risultati di maggiore spicco in una bibliografia in costante progressione, ricordo il progetto baseileense dell’AIDI (Archivio Informatico della Dedica Italiana) diretto da Maria Antonietta Terzoli (http://www.margini.unibas.ch/web/it/index.html). Oltre all’archivio informatico, M. A. Terzoli ha portato alla pubblicazione I margini del libro. Indagine teorica e storica sui testi di dedica. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Basilea, 21-23 novembre 2002, Roma-Padova, Anternore, 2004 e alla fondazione della rivista Margini (consultabile al medesimo indirizzo dellArchivio); Marco SANTORO e Maria Gioia TAVONI, I dintorni del testo. Approcci alle periferie del libro. (Atti del convegno internazionale, Roma, 15-17 novembre 2004, Bologna 18-19 novembre 2004), Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2005, 2 vol.; Marco SANTORO, Storia del libro italiano. Libro e società in Italia dal Quattrocento al nuovo millennio, nuova edizione riveduta e ampliata, Milano, Editrice Bibliografica, 2008 (prima ed. 1994); e Marco PAOLI, La dedica. Storia di una strategia editoriale, Lucca, Pacini Fazzi, 2009.

2 Cfr. Wolfgang LEINER, Die Widmungsbriefe in der Französischen Litteratur (1580-1715), Heidelberg, Winter, 1965.

3 Cfr. Raffaele MANICA, « Il sistema della dedica » in Giorgio CERBONI BAIARDI, Giorgio CHITTOLINI e Piero FLORIANI, Federico di Montefeltro. Lo stato, le arti, la cultura, Roma, Bolzoni, 1986, vol. III La cultura, p. 441-464, che nota opportunamente che, nel diritto romano, « obligatio est iuris vinculum, quo necessitate astringimur alicuius solvendae rei secundum nostrae civitatis iura», mentre il sistema del dono-controdono non è inscritto nei «nostrae civitatis iura », ma è regolato dall’uso corrente, da una «obligatio naturalis» (p. 460-461).

4 Tra gli studi più importanti successivi a La galassia Gutenberg di Marshall Mac Luhan (1962), cfr. Elisabeth EISENSTEIN, Le rivoluzioni del libro. L’invenzione della stampa e la nascita dell’età moderna, Bologna, Il Mulino, 1995 (The printing revolution in early modern Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 1993), Roger CHARTIER, Cultura scritta e società, Milano, Sylvestre Bonnard, 1999 (Culture écrite et société : l'ordre des livres (XIVe-XVIIIe siècle), Paris, Albin Michel, 1996); Brian RICHARDSON, Stampatori, autori e lettori nell’Italia del Rinascimento, Milano, Sylvestre Bonnard, 2004 (Printing, writers and readers in Renaissance Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 1999), e Carla BOZZOLO-Ezio ORNATO, Les bibliothèques entre le manuscrit et imprimé, in La face cachée du livre médiéval. L’histoire du livre vue par Ezio Ornato, avec une préface d’Armando Petrucci, Roma, Viella, 1997, p. 245-272. Sulla questione della continuità del sistema della dedica tra manoscritto e stampa, e per un’ampia riflessione sulla tipologia delle dediche, cfr. Furio BRUGNOLO-Roberto BENEDETTI, La dedica tra Medioevo e primo Rinascimento: testo e immagine, in Maria Antonietta TERZOLI, I margini del libro cit., p. 13-54.

5 Il testo più rilevante di questo dibattito è quello di Giovanni FRATTA, Della dedicatione de’libri (Venezia, Giorgio Angelieri, 1590), in cui vengono fatte interagire la posizione aristocratica, più arroccata sulle prerogative dei patroni, quella più vicina alle rivendicazioni degli autori e favorevole ai nuovi spiragli di libertà offerti dalla stampa, e quella degli stampatori. Tra i più importanti testi cinquecenteschi che affrontano, specificamente o tangenzialmente, la questione delle dediche, la lettera dedicatoria di Girolamo Ruscelli a Cristoforo Mandruzzo nel Tempio alla divina signora Giovanna d’Aragona (Venezia, Plinio Pietrasanta, 1554), Il segretario di Guarino Guarini, (Venezia, Roberto Megietti, 1594) e vari passi doniani, in particolare nella Zucca. Tutti questi testi sono analizzati in modo approfondito da Marco PAOLI, La dedica cit., 143-166).

6 Nel 1971, con Qu’est-ce qu’un auteur (trad. it. Cos'è un autore, in Scritti letterari, a c. di C. Milanese, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 1-21), Michel FOUCAULT lanciava un dibattito sui limiti storici del concetto di autore che ha da allora impegnato storici, letterati, storici della cultura. Il concetto di mouvance, elaborato da Paul ZUMTHOR (« Intertextualité et mouvance », Littérature, 41 (1981), p. 8-16) a proposito del testo medievale, ed estensibile all’autore medievale, resiste anche nell’era della stampa. Basta constatare l’utilità di un incipitario della poesia rinascimentale per verificare che la categoria ‘autore’ poteva passare in secondo piano di fronte al criterio talvolta preponderante di ‘genere’ (a proposito delle raccolte manoscritte di sonetti e strambotti adespoti in Italia all’inizio del secolo, cfr. Antonia TISSONI BENVENUTI, La tipologia del libro di rime manoscritto e a stampa nel Quattrocento, in Marco SANTAGATA e Amedeo QUONDAM, Il libro di poesia dal copista al tipografo, Modena, Panini, 1989. p. 25-33).

7 Molti problemi di attribuzione sono piuttosto problemi di restituzione di un testo a un autore invece che a un altro. E, alla base di questi errori, c’è talvolta il desiderio degli editori di aumentare il valore di un testo attribuendolo a un autore famoso o più famoso rispetto all’autore reale. La stampa amplifica questo fenomeno, stimolata dal fatto che certi autori vendono meglio di altri (per il caso ben studiato di Antoine Vérard, cfr. Mary Beth WINN, Antoine Vérard parisian publisher 1485-1512. Prologues, Poems and Presentations, Genève, Droz, 1997). Ma esiste anche il caso contrario: a volte il nome dell’autore impedirebbe il successo della pubblicazione o la pubblicazione stessa. Nel 1575 Paolo Manuzio stampa ad esempio gli Adagia erasmiani (messi all’indice nel 1559) espurgati e adespoti: in questa forma l’opera conosce una nuova giovinezza e un nuovo successo, che non avrebbe avuto se fosse circolata ancora con il nome del suo autore (cfr. Paolo CHERCHI, Polimatia di riuso. Mezzo secolo di plagio (1539-1589), Roma, Bulzoni, 1998, p. 59 e passim). Sulla nozione di autorialità tra Medioevo e Rinascimento, cfr. anche Margaret J. M. EZELL, Social Authorship and the Advent of Print, Baltimore-London, The Johns Hopkins University Press, 1999.

8 Cfr. soprattutto Mark ROSE, « The Author as Proprietor », Representation, 23 (1988), p. 51-85, ID., Authors and Owners. The invention of copyright, Cambridge, Cambridge University Press, 1993 e David SAUNDERS, Authorship and Copyright, London-New York, Routledge, 1992.

9 Cfr. Cynthia J. BROWN, Poets, Patrons and Printers. Crisis of Authority in the late medieval France, Ithaca-London, Cornell University Press, 1995. Anche prima del trionfo della stampa, tuttavia, la questione dei ‘diritti’ esiste: Isabella d’Este (un caso che si pone tra cultura del manoscritto e cultura della stampa) parla esplicitamente dei diritti sull’opera ottenuti dal dedicatario attraverso la dedica (cfr. Alessanda VILLA, « Le partage des ‘droits’ sur l’œuvre littéraire à la Renaissance. Les cas d’Isabella d’Este », Italique, VIII (2005), p. 45-71). Tuttavia, se il dedicatario può vantare dei diritti, è appunto solo perché gli sono stati ceduti dall’autore. Fratta usa e discute continuamente nel suo dialogo una precisa terminologia giuridica, come anche Guarini nel suo Segretario (cfr. Marco PAOLI, La dedica cit., p. 162-163). Sul ruolo invece dei finanziatori nei contratti per la stampa e sulla loro presenza nei paratesti editoriali, cfr. Armando PETRUCCI, « Pouvoir de l’écriture, pouvoir sur l’écriture dans la Renaissance italienne », Annales ESC, 43, (1988), 4, p. 823-847 e Luigi BALSAMO, « Tecnologia e capitali della storia del libro », in Berta Maracchi Biagiarelli e Dennis E. Rhodes, Studi offerti a R. Ridolfi direttore de “La Bibliofilia”, Firenze, Olschki, 1973, p. 77-94.

10 È in occasione di quelle vertenze tra stampatori e autori che si definiranno i concetti di property e propriety, che dipendono dalla doppia natura morale/patrimoniale del diritto d’autore. Cfr. il caso delle Opere di Seneca pubblicate a Roma nel 1585 con le annotazioni di Marc Antoine Muret. Un editore parigino avrebbe voluto ripubblicarla approfittando del fatto che l’opera era comparsa senza alcun privilegio del re di Francia, ma fu denunciato da due altri editori, che protestarono perché se l’autore, avendola pubblicata senza privilegio, ne aveva dato la proprietà a tutti, non era quindi più possibile chiedere un privilegio. L’avvocato dei due querelanti sosteneva infatti che «l’autore di un libro è il padrone assoluto di esso, e in quanto tale ne può disporre liberamente : può tenerlo presso di sé, come uno schiavo, o emanciparlo concedendogli la comune libertà, e può accordargliela o pura e semplice, senza tener nulla per sé, oppure sotto riserva, con una specie di tutela, vietando ad altri di pubblicarlo prima di una certa scadenza» (cfr. Nathalie ZEMON DAVIS, Il dono. Vita familiare e relazioni pubbliche nella Francia del Cinquecento, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 65).

11 Cfr. Roger CHARTIER, Mecenatismo e dedica in Cultura scritta e società cit., p. 41-42 e Elizabeth ARMSTRONG, Before Copyright. The French Book-Privilege System 1498-1526, Cambridge, Cambridge University Press, 1990, p. 78-99.

12 Cfr. Mary Beth WINN, Antoine Vérard cit. e Cynthia BROWN, Poets, Patrons and Printers cit., sulla lotta senza quartiere ingaggiata tra autore e editore per l’occupazione dello spazio del frontespizio.

13 Per quanto riguarda le stampe, cfr. Giuseppina ZAPPELLA, Il ritratto nel libro italiano del Cinquecento, Milano, Editrice Bibliografica, 1988, vol. I, p. 16-18, 31 e segg., e vol. II tavole associate).

14 Marco Santoro, Uso e abuso delle dediche. A proposito del Della dedicatione de’ libri di Giovanni Fratta, Roma, Edizioni dell’ateneo, 2006, p. 43.

15 « Cum tamen socios multos habeam huius culpae, si culpa illa appellanda est, extiterinque omnibus temporibus alii, qui hac in re ultimae voluntati mortuorum non obtemperarint, sed potius communi bono consuluerint [...] facilius (ut opinor) crimen hoc sustinebo et a manibus ipsius mortui veniam impetrabo. Nuper certe idem factum est ab heredibus summi ac singularis viri Francisci Guicciardini, qui cum historiam illam suam, tantopere nunc omnibus probatam, imperfectam ac minime expolitam relinqueret, mandaverat diligenter ut occultaretur, vel potius, interrogatus a scriba, dum testamentum componeret, quid de illa statueret, magno et constanti animo respondit, comburatur » (Giovanni DELLA CASA, Rime e prose. Latina monimenta , a c. di Stefano Carrai, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2006, p. [191]). Cfr. anche Claudio SCARPATI, « Osservazioni intorno al “Frammento sulle lingue” », in Gennaro BARBARISI e Claudia BERRA, Per Giovanni Della Casa. Ricerche e contributi. Atti del Convegno di Gargnano del Garda (3-5 ottobre 1996), Milano, Cisalpino, 1997, p. 241-251.

16 Cfr. Giovanni DELLA CASA, Rime e prose cit., p. [195]. Sui rapporti tra il Rucellai e Pier Vettori a proposito di questa prefazione, cfr. Michele MARI, « Le lettere di Giovanni Della Casa ad Annibale Rucellai », in Per Giovanni Della Casa cit., p. 376-379.

17 Tra i molti altri esempi della gestione dell’opera da parte degli eredi, sono interessanti quello delle opere di Lodovico Martelli, che l’editore chiese al padre dell’autore prematuramente scomparso e che gli furono concesse perché la stampa celebrasse degnamente il giovane, divenendo così il suo mausoleo, e quello delle Rime di Gaspara Stampa, dedicate dall’autrice a Della Casa e pubblicate dalla sorella Cassandra. Questa fece stampare l’opera introducendola con una lunga prefazione in cui spiegava di aver avuto in un primo tempo l’intenzione di bruciare tutte le opere della sorella, ma di essere stata ammonita dagli amici che non sarebbe stato giusto privare così la sorella della gloria che l’opera le avrebbe fruttato, sebbene post mortem. Così, contovoglia, Cassandra dedicò le opere della sorella a Della Casa. L’operazione, che probabilmente nasce da interessi meno nobili di quelli invocati nella spiegazione, fu criticata perché esibiva la dedica di un canzoniere d’amore (e di un amore non solo letterario) a un prelato.

18 « Tu quoque, Petre Fulgose, cui Baptista parens vir inter raros virtute insignes annumerandus, ad minuendos in morum tuorum formatione labores hoc opus edidit, non modo non moleste feres si designati tibi operis dicatio ad regium praesidem Iafredum Carolum transfertur, sed in eo beneficium quoque esse agnosces. Quis enim non videat non solum hanc rem in te magni esse viri amorem aucturam, verum inde hoc quoque secuturum quod amplissimi viri dignitas et honor efficiet ut patris tui nominis atque virtutis fama patriae regionis limitibus non contenta ad exteras quoque nationes ac gentes perferatur » (Baptista Fulgosi De dictis factisque memorabilibus collectanea a Camillo Gilino latina facta, Milano, apud Iacobum Ferrarium, Mediolani, X Kal. Iulias, MDVIIII, impresso regnante Ludovico XII, dedica, cc. Ai,v-Aii,r).

19 Ovviamente questa giustificazione è plausibile e applicabile solo in un contesto culturale in cui ormai la stampa non è più vista dai dedicatari come un concorrente al loro diritto di fruizione esclusiva dell’opera che è stata loro dedicata, ma come una cassa di risonanza grazie alla quale la gloria dell’intitolazione viene trasmessa. Che fosse una consolazione forzata dei dedicatari, che non potevano più opporsi alla stampa o che fosse un gradito cambiamento delle proprie prerogative in termini di politica culturale, la stampa era ormai, all’altezza di queste giustificazioni, il mezzo di diffusione principale delle opere. Del resto, ben dopo che la stampa aveva preso piede, gli autori continuarono a inviare le opere prima ai dedicatari, manoscritte, e poi a stamparle. Cfr. gli esempi di contratti conclusi a questo proposito tra autore e stampatore, in Roger CHARTIER, Mecenatismo e dedica cit., p. 42.

20 Cfr. Antonio TEBALDEO, Rime a c. di Tania Basile e Jean-Jacques Marchand, vol. II, t. 1 Rime della vulgata. Testi, a c. di Tania Basile, Modena, Panini, 1992, p. 11-12. Caso diverso è quello dell’Hypnerotomachia. L’opera è pubblicata anonima, con una dedica in cui l’editore afferma, con la consueta metafora, di non volere lasciar uscire l’opera priva di padre: il dedicatario ne sarà quindi il padrino e tutore. L’autore però non solo è vivente, ma si firma con l’acrostico e dedica la sua opera a Polia, in un gioco di finzione letteraria e di codici segreti.

21 Un caso divertente (sempre che non si tratti di un furto mascherato), perché deliziosamente antifemminista, nella forma se non nella sostanza, è quello dell’edizione delle Rime di Vittoria Colonna dedicata da Filippo Pirogallo a Alessandro Vercellesi (Parma, Antonio Viotti, 1538). L’editore spiega di aver raccolto con fatica le rime sparse della marchesa di Pescara e di averle stampate sotto la pressione della richiesta di moltissimi: « ho preso ardire di mettergli in istampa, anchora che contradicessi al volere d’una sì gran signora, stimando meno errore dispiacere a una sola donna (benché rara e grande) che a tanti huomini desiderosi di ciò ».

22 Anche in questo caso, Summonte cerca di accordare la dedica con le intenzioni dell’autore, intitolando l’opera a Luigi d’Aragona. Le incompiute Stanze per la giostra di Poliziano, edite a Bologna da Plato de’ Benedicti nel 1494, sono dedicate dal curatore Alessandro Sartio «allo Illustre et reverendissimo Antonio Galeatio Bentivogli, protonotario apostolico e arcidiacono di Bologna». L’opera in realtà inizia con una lode di Lorenzo il Magnifico, ma il curatore giustifica la sua scelta affermando che « se alquanto al Politiano dispiacerà che queste sue stanze da lui già disprezate si stampino, pur all’incontro li piacerà che, havendosi una volta a divulgare, sotto il titulo e nome di tua Signoria si divulghino, alla quale lui (come sono io bon testimone) è deditissimo ».

23 Cfr. Elizabeth ARMSTRONG, Before Copyright cit., p. 84.

24 Similmente, le Rime del Minturno dedicate a Girolamo Pignatelli dal Ruscelli (Venezia, Rampazetto, 1559) che spiega di aver chiesto l’opera all’autore e di averla ricevuta insieme al permesso di gestirla a suo piacimento.

25 Nel gennaio 1532, Blado fa uscire il Principe, la Vita di Castruccio Castracani e la Descrittione del modo tenuto dal Duca Valentino e, nella sua dedica a Filippo Strozzi, principe « imaginativo » di Firenze, ricorda che Machiavelli offrì Il principe a Lorenzo, in quel momento principe « effettuale » della città. Nella dedica del suo Principe, il Giunti loda invece il Gaddi come il vero Mecenate dell’epoca, « favorevole amico », « amicissimo fautore e prontissimo donatore » e ricorda che « quanto a la memoria del Machiavelli s’appartiene, egli vi è non meno obbligato per questa opera sola che per l’altre due » (i Discorsi e le Istorie). Per le due dediche editoriali, cfr. Niccolò MACHIAVELLI, Opere vol. I, t. 1 De principatobus, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (libri I-II), a c. di Rinaldo Rinaldi, Torino, UTET, 1999, p. 403-409. Allo stesso modo, càpita che le traduzioni o i paratesti innovativi del Furioso siano dedicati a parenti del primo dedicatario: per esempio la traduzione francese del 1571 (Paris, C. Gautier) è intitolata a Ippolito II d’Este, ma il poema resta naturalmente dedicato a Ippolito I.

26 Ioannis Baptistae Scythae carmen ad clarissimim Leonardum Crassum, artium ac iuris pontificii consultum, in Francesco COLONNA, Hypnerotomachia Poliphili, ediz. critica e commento a c. di Giovanni Pozzi e Lucia A. Ciapponi, Padova, Antenore, 1980, vol. I, p. X.

27 Mario BORSA, «The correspondence of Humphrey Duke of Gloucester and Pier Candido Decembrio», English Historical Review, 19 (1904), p. 509-526. La posizione privilegiata dei traduttori si perpetua nell’era della stampa: le due sole categorie di autori che potevano aspirare ad essere pagati in denaro sonante per la propria opera da uno stampatore erano appunto i traduttori e gli autori che avevano ottenuto a proprie spese il privilegio di stampa dalle autorità competenti (cfr. Roger CHARTIER, Mecenatismo e dedica cit., p. 42).

28 Pone un problema più complesso la prima traduzione del De mulieribus claris di Boccaccio (Venezia, Giovanni da Trino, 1506). Nella lettera dedicatoria, il traduttore narra che Boccaccio stesso, apparsogli in sogno, gli avrebbe intimato di dedicare la sua opera (di Boccaccio) a una contemporanea (del traduttore): « voglio che quella opera De claris mulieribus, da me composta, è intitulata a madona Giovanna » (cfr. Stephen KOLSKY, Boccaccio’s De mulierubus claris and the Emergence of a Tradition, in The Ghost of Boccaccio. Writings on Famous Women in Renaissance Italy, Turnhout, Brepols, 2005, p. 1). Nella fictio, l’autore sembra così voler attualizzare la propria dedica originale (ad Andrea Acciaiuoli, contessa d’Altavilla): ma si tratta della dedica del De mulieribus o della sua traduzione? Per la diversa sensibilità post-umanisica circa il volgarizzamento e la traduzione, cfr. naturalmente Gianfranco FOLENA, Volgarizzare e tradurre, Torino, Einaudi, 1991.

29 « Quod minime arroganter id a me fieri existimetur velim, quandoquidem alienos libros nostra cura impressos illi vel illi dedicare idcirco mihi licere arbitror, quod eos maximo quaesitos studio tanquam ab inferis ad superos revocemus. Nam, si potuere quidam latas ab aliis leges sub suo nomine promulgare, exolescente metu antiquiorum, quemadmodum olim de decem tabulis factum constat, quarum cum contemni antiquitas coepisset, eadem illa, quae iis legibus cavebantur, in alia legum latorum nomina transierunt, cur ipse non queam in alicuius clarissimi ac summi viri nomine eos edere libros, qui, cum tot secula squallidi et laceri iacuerint, summis meis laboribus reviviscunt? Id igitur meo iure facere mihi videor » (Aldo Manuzio editore. Dediche, prefazioni, note ai testi, introduzione di C. Dionisotti, testo latino con traduzione e note a c. di Giovanni Orlandi, Milano, Il Polifilo, 1975, vol. I, p. 27 e vol. II, p. 215).

30 Scaduti i termini cronologici del privilegio, l’opera poteva essere stampata da chiunque. Per questo esiste una vera e propria corsa all’innovazione di un’edizione e per questo si sviluppa quel criterio di novità che non aveva una particolare presa prima dell’affermazione del mercato della stampa (cfr. Carla BOZZOLO-Ezio ORNATO, Les bibliothèques entre le manuscrit et imprimé cit.).

31 Elizabeth ARMSTRONG, Before Copyright cit., p. 191-194.

32 Benché non sia un caso italiano e per quanto non sia che marginalmente paragonabile alle pratiche teatrali italiane, l’esempio shakespeariano si impone per una riflessione sull’argomento. Si sa che Shakespeare dedicò i suoi due poemi e la raccolta dei sonetti, ma che non solo non dedicò, ma che fino a poco prima della sua morte egli non era neanche menzionato come autore delle opere teatrali che oggi gli sono attribuite e che allora appartenevano alla compagnia dei King’s men. Per quanto potesse essere l’unico autore dei testi, Shakespeare era parte di una compagnia, il cui lavoro consisteva nella messa in scena di un’opera; la scrittura del testo non era che una parte di un’opera che andava realizzata coralmente. Per questo i diritti sulle opere, che pure furono spesso stampate, erano gestiti dall’intera compagnia. Solo quando Shakespeare divenne un nome celebre la sua presenza sui frontespizi si fece più evidente, fino all’apoteosi del first folio.

33 Cfr. Giovan Battista GIRALDI CINZIO, Egle. Lettera sovra il comporre le Satire atte alla scena. Favola pastorale, a c. di Carla Molinari, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1985, p. 3-6). Per contributo recente sulla questione delle molteplici ‘vite’ delle opere teatrali, cfr. Laura RICCÒ, « Su le carte e fra le scene ». Teatro in forma di libro nel Cinquecento italiano, Roma, Bulzoni, 2008.

34 Jean BALSAMO, « Les traducteurs français d’ouvrages italiens et leurs mécènes (1574-1589) », in Pierre Aquilon e Henri-Jean Martin, Le livre dans l’Europe de la Renaissance. Actes du XXVIIIe Colloque international d’Études humanistes de Tours, Promodis, Editions du Cercle de la Librairie, 1988, p. 123

35 Il caso delle dediche da parte di autrici merita una riflessione a parte, perché le donne tendevano a dedicare le loro opere ad altre donne. Più che una sorta di solidarietà femminile, questa tendenza rivela una coscienza comune della condizione femminile (cfr. le Rime di Maddalena Acciaiuoli offerte a Cristina di Lorena (Firenze, Tosi, 1590), in cui l’autrice afferma che è tanto più giusto che a lodare la dedicataria sia una donna, «per esser Vostra Altezza quella vera luce, che col suo gran lume rende chiarissimo e lucidissimo il pregio nostro»), e soprattutto la coscienza di una mancanza di autorevolezza. Cfr. Nathalie ZEMON DAVIS, Il dono cit., p. 102-7, che discute il caso di Madame de Gournay, la quale, introducendo gli Essais di Montaigne da lei curati (1595), scriveva che il più stupido degli uomini può rigettare l’opinione di una donna affermando semplicemente che «è una donna che parla» (p. 104). La tendenza è interiorizzata anche dagli editori: le Le rime spirituali di Vittoria Colonna (Venezia, Valgrisi, 1548) sono ad esempio dedicate da Apollonio Campano alla principessa di Salerno, che è legata all’autrice da una «stretta congiuntione e unione d’amore».

36 Sulla rappresentazione del controdono, cfr. Marco PAOLI, La dedica cit., 264-265. Guarino Guarini, nel suo trattato Il segretario, consacrato tra l’altro all’arte di comporre lettere e, tra queste, le lettere di dedica, prende posizione nella polemica contro gli abusi della dedica aperta poco prima da Fratta, si scaglia contro le dedicatorie « fatte quasi medicatorie », e dichiara che per il dedicatario ormai le dediche delle opere non sono altro che delle cambiali reclamate dagli autori: « sono niente meglio vedute di quel che soglian essere [...] le cedole, i libelli, o altre sì fatte noiose carte, et importune » (cfr. Marco PAOLI, La dedica cit., p. 163).

37 Il caso dei Ducenta problemata dedicati da Raffaele Regio a Ludovico il Moro nel 1491 è, da questo punto di vista, esemplare. Regio, che aveva da poco perso la cattedra padovana, cercò di ottenerne una a Pavia offrendo al Moro la dedica del suo commento a Quintiliano. « Per premio veramente de le vigilie soe », scriveva l’umanista nella lettera di supplica, « ha deliberato di non dimandar cosa alcuna perché essendo Vostra Excellentia liberalissima verso tuti quelli che di affatichano per celebrar et quanto è in lor far immortale il nome di Vostra Illustrissima Signoria, tene per certo che quella etiam verso di sé usarà in tal modo la solita soa liberalitade, che sempre si chiamarà contento non solamente d’haverli dedicato le primitie de li studii soi, ma etiamdio d’haver seguito già tre mesi et a Pavia et a Milano et a Vegeveno Vostra Excellentia ». La richiesta della condotta pavese, come si comprende dalle lettere del Moro, era stata dunque avanzata a voce. Prima di rispondere, il duca, « non havendo noi altra cognitione de luy », chiese consiglio a Bartolomeo Calco per dare un prezzo, in denaro o in natura, alla dedica dell’opera offertagli. I dettagli dello scambio tra il duca e il consigliere per determinare l’entità della ricompensa illustrano perfettamente come la retorica della merces si materializzasse poi nella pratica del pretium. Per i documenti relativi all’affare, cfr. Caterina MALTA, Il commento a Persio dell’umanista Raffaele Regio, Messina, Centro Interdipartimentale di Studi Umanistici, 1997, p. 125-134. Allo stesso modo, Isabella d’Este chiedeva al suo corrispondente a Ferrara Bernardino Prosperi un consiglio per ricompensare Gianfrancesco Gianninello, che le aveva donato il manoscritto magnificamente copiato e rilegato delle opere del Pistoia a lei dedicate anni prima dall’autore. Vista la nobiltà e la ricchezza del donatore, Prosperi consigliò alla marchesa di non donare vestiti o denaro (come era abituale fare con i letterati), ma un’opera d’arte. Gianninello ricevette infatti un ritratto di Isabella di mano del Francia, acquistato qualche tempo prima dalla marchesa per 30 ducati (cfr. Alessandro LUZIO, La galleria dei Gonzaga venduta all’Inghilterra nel 1627-28. Documenti degli Archivi di Mantova e Londra, Milano, Cogliati, 1913, p. 209-215).

38 Cfr. Monica BIANCO, « Lodovico Castelvetro e la “Intitolatione gratiosa de’ libri a spetial persona” », in Margini, 2 (2008), link: http://www.margini.unibas.ch/web/it/index.html.

39 Anton Francesco DONI, La Zucca, in Le novelle, a c. di Elena Pierazzo, Roma, Salerno, 2003, vol. II, t. 1, p. 229. Il passo è commentato da Marco PAOLI, La dedica cit., p. 257, ma è interessante tutto il capitolo (p. 251-265) in cui è analizzato l’atteggiamento multiforme ma sostanzialmente coerente di Doni nei confronti della dedica.

40 Cfr. Jochen SCHLOBACH, « Maître à penser ou courtisan: de l’évolution fonctionnelle de l’épître dédicatoire. L’Épître dédicatoire du Père de famille à la Princesse de Nassau-Saarbruck de Diderot », in Ulrike MICHALOWSKY, Sur la plume des vents. Mélanges de littérature épistolaire offerts à Bernard Bray, Paris, Klincksieck, 1996, p. 189-209, Maria Antonietta TERZOLI, Dediche alfieriane, in Ead., I margini del libro cit., p. 263-289, e Marco PAOLI, La dedica cit., p. 25-26.

41 Cfr. Amedeo QUONDAM, Il libro a corte, Roma, Bulzoni, 1994 (in particolare i saggi di Paola Farenga, Anna Giulia Cavagna e Luisa Avellini) per un panorama dettagliato dei rapporti di committenza possibili tra le corti, soprattutto italiane, e le stamperie impiantate sul territorio.

42 Nella dedicatoria, Maio chiama Ferdinando d’Aragona « lo mio auttore, lo mio duce e maistro »; « tua è la laude che con tuo divino aspetto me inflammasti a così alta impresa », mentre nel colophon gli offre l’opera, composta « sotto lo tuo felice auspizio et esempio », e lo invita a prendere « piacere con diletto de la tua pintata imagine, come da una figura de naturale tratta de mano de mediocre pintore », « perché tu sei lo mio auttore et io lo sequitatore: tu sei lo mio vivo esemplare et io lo scultore de tale simulacro; tu me hai appresentata sì magna figura et io con la mano a quella transferire lo audace stilo » (cfr. Iuniano MAIO, De maiestate, inedito del sec. XV, a c. di Franco Gaeta, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1956).

43 Cfr. Marco SANTORO, Uso e abuso cit., p. 53-54.

44 Per questo, e per molto altro, veniva criticato dall’Albicante nella pseudonima Vita aretiniana che gli è oggi attribuita (cfr. Giovanni Alberto ALBICANTE, Occasioni aretiniane (Vita di Pietro Aretino del Berna, Abbattimento, Nuova contentione), testi proposti da Paolo Procaccioli, Roma, Vecchiarelli, 1999, p. 86).

45 Cfr. Marco SANTORO, Uso e abuso cit., p. 72-73 sul cambio della dedica in occasione di raccolte, ristampe, riemissioni.

46 A coloro che dedicano opere per necessità e pigliano un granchio a secco, in Anton Francesco DONI, La Zucca cit., p. 231. Benché eccezionale e legato alla sistema della circolazione manoscritta, è tuttavia interessante, per la traduzione allegorica dell’esperienza di una dedica delusa, il caso del Complaint du livre du Champion des Dames à Maistre Martin le Franc. In questo poemetto, postposto dall’autore allo Champion des dames (ms. Bibliothèque Nationale de France fr. 12476, ex. suppl. fr. 632, 2), lo Champion de dames stesso si rivolge al suo autore per confidargli la fredda accoglienza ricevuta dal duca di Borgogna, a cui era stato dedicato e inviato. Il dedicatario lo aveva preso in mano, ma non aveva chiesto che gliene fosse fatta la lettura, come era d’uso quando un’opera era ben accetta al signore (cfr. la testimonianza di Froissart in Roger CHARTIER, Mecenatismo e dedica cit., p. 49-50). Colpa dei malevoli, continua il libro, che hanno messo in cattiva luce Martin presso il duca. Il Complaint dovette ottenere l’effetto voluto se davvero fu scritto tra una prima, sfortunata presentazione e una seconda più favorevole, come crede Gaston PARIS, «Un poème inédit de Martin le Franc» Romania, 16 (1887), p. 383-437.

47 Cfr. Jean HOYOUX, « Les moyens d’existence d’Érasme », Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance, V (1944), p. 7-59.

48 Cfr. Cecil H. CLOUGH, « A presentation volume for Henry VIII. The Charlecote Park copy of Erasmus’s Institutio Principis Christiani », Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, 44 (1981), p. 199-202, sulla copia di presentazione a Enrico VIII dell’Institutio, dedicata a Carlo V. Jean-Claude MARGOLIN (« Érasme, son public et sa publicité. À propos de quelques préfaces de ses traductions françaises et italiennes du XVIe siècle », in Charles A. Fiorato e Jean-Claude MARGOLIN, L’écrivain face à son public en France et en Italie à la Renaissance. Actes du Colloque International de Tours (4-6 Décembre 1986), Paris, Vrin, 1989, p. 15-37) ricorda che l’Institutio fu indirizzata anche a Francesco I e a una serie di altri principi che Erasmo pensava sarebbero stati e interessati all’argomento e a sostenere il suo programma culturale. Erasmo stesso rifletté lucidamente sugli usi e gli abusi della dedica in diverse lettere e prefazioni (cfr. Isabelle DIU, « Enjeux de pouvoir dans la République des lettres. Préfaces et dédicaces d’Érasme pour ses éditions et traductions d’œuvres classiques et patristiques », in Dominique DE COURCELLES, Le pouvoir des livres à la Renaissance. Actes de la Journée d’études organisée par l’École nationale des Chartes et le Centre de recherche sur l’Espagne des XVI et XVII siècles (Paris, 15 mai 1997), Paris, École des Chartes, 1998, p. 65-76).

49 I patroni stessi erano soliti gestire secondo questa distinzione tra testo ed esemplare le opere che erano in qualche modo in loro potere. Non è un caso isolato, ad esempio, quello dei Commentarii rerum gestarum Francisci Sphortiae dedicati da Giovanni Simonetta a Gian Galeazzo Sforza, e fatti stampare da Ludovico il Moro (che impose, contro la volontà dell’autore, una serie di modifiche ‘diplomatiche’ ai giudizi storici formulati) presso Antonio Zarotto nel 1486. Un esemplare splendidamente miniato di questa stampa fu donato dal Moro all’imperatore Massimiliano (Riccardiano Rara 428). Nell’antiporta del codice, Francesco Sforza è rappresentato a cavallo, incorniciato da un arco di trionfo ai cui lati sventolano i vessilli con l’aquila imperiale, omaggio al destinatario del dono, di cui compaiono iniziali e stemma nella pagina a fronte (cfr. Giovanna LAZZI, Immaginare l’autore. Il ritratto del letterato nella cultura umanistica. Ritratti riccardiani, Firenze, Polistampa, 1998, p. 133-135 e fig. 39).

50 Cfr. Mario BORSA, « The correspondence of Humphrey Duke of Gloucester » cit. e, per i casi erasmani, cfr. Isabelle DIU, « Enjeux de pouvoir » cit.

51 Cfr. Marco SANTORO, Uso e abuso cit., p. 62-63 e Marco PAOLI, La dedica cit., p. 31, 154, 251-265 sul Doni in particolare.

52 Lando dedicò a diversi patroni i diversi libri dei Paradossi invocando l’autorià e l’esempio degli Antichi: « Scrisse già Varrone dui libri dell’agricultura, et il primo dedica a Fundania et l’altro a Nigro Turannio ». Cfr. Marco PAOLI, La dedica cit., p. 7-8.

53 Iacopo Filippo Pellenegra dedica il suo libretto di preghiere rimate a Bona Sforza, spiegando di averlo composto da tempo per la zia di Bona, Giovanna d’Aragona « che di Troia tenea la monarchia »: « ma Dio non ha voluto, o donna Bona/perché queste mie rime dal principio/erano destinate ad tua corona » (Opereta volgare, Venezia, Nicolò Zoppino, 1524).

54 Lettere di principi le quali si scrivono da principi o a’ principi o ragionan di principi, libro I, nuovamente mandato in luce da Girolamo Ruscelli, all’illustrissimo e reverendissimo Cardinal Carlo Borromeo, Venetia, Giordano Ziletti, 1562, cc. 209r-v.

55 È possibile che al patrono-dedicatario l’autore si rivolga come ad un amico, con cui ha condiviso esperienze, guerre, gioie o sventure. Talvolta si tratta di un amico divenuto potente o di un ex-compagno di studi, a cui si ricordano gli anni passati insieme (come nella dedica delle Lettere di Girolamo MUZIO, per cui cfr. l’edizione curata da Anna Maria Negri, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000). Ma, nonostante la tentazione di interpretarle come un tributo ‘privato’, secondo una sensibilità che oggi ci è familiare, questo genere di dediche nasce spesso dalla volontà dei letterati di affermare una propria dignità professionale, oltre che individuale, e di proporsi non come dei subordinati, ma come dei buoni e degni consiglieri dei principi. A questa tendenza, di lungo corso, è legato un dibattito più specifico sull’eredità del modello di Mecenate, che è senza sosta invocato come esempio del corretto modo di considerare e trattare i clientes.

56 Oltre al fondamentale Aldo Manuzio editore cit., cfr. il classico Martin LOWRY, Il mondo di Aldo Manuzio. Affari e cultura nella Venezia del Rinascimento, Roma, Il Veltro, 1984 e Marino ZORZI, « Introduzione » a Susy MARCON e Marino ZORZI, Aldo Manuzio e l’ambiente veneziano (1494-1515), Venezia, Il Cardo, 1994, p. 13-50 per uno studio sintentico sull’evoluzione dell’impresa aldina e il parallelo sviluppo della rete dei finanziatori e dei collaboratori.

57 Che la dedica crei un legame di fedeltà tra i contraenti è suggerito, e contrario, da una celebre lettera del Giraldi Cinzio. Nel pieno della polemica sulla primogenitura della riflessione sul romanzo, il Cinzio cercava di suscitare il senso di colpa del Pigna stupendosi amaramente di essere stato tradito da « voi, che siete stato sì lungamente mio discepolo, e col quale io mi son sempre tanto amorevolmente portato, che oltre le domestiche dimostrazioni mi sono infino indotto a dedicarvi l’opere mie » (lettera al Pigna del 28 marzo 1554, per cui cfr. Giovan Battista GIRALDI CINZIO, L’uomo di corte. Discorso intorno a quello che si conviene a giovane nobile e ben creato nel servire un gran principe, con appendice di lettere, a c. di Walter Moretti, Modena, Mucchi, 1989, p. 94).

58 Paola FARENGA, « Il sistema delle dediche nella prima editoria romana del Quattrocento » in Amedeo QUONDAM, Il libro a corte cit., p. 57-87. Per le dediche di altri circoli culturali-editoriali, cfr. ad esempio, per il caso di Lefèvre d’Étaples, Eugene F. RICE, The prefatory Epistles of Jacques Lefèvre d’Étaples and related texts, New York-London, Columbia University Press, 1972, e per quello di Alessandro Paganino Angela NUOVO, Alessandro Paganino (1509-1538), Padova, Antenore, 1990. Per un inquadramento delle dediche di questo tipo, cfr. Marco PAOLI, La dedica cit., p. 248-9.

59 « Cum quis mittit aliquid muneri ei, cuius est munus, videtur temeritatis atque arrogantiae crimine accusandus: nostra enim, non aliena debemus dono mittere, praesertim ipsorum dominis. Ipse autem, id faciens, videor mihi meo iure quodammodo vendicare: nam, licet tu olim Arcadiam et prosa et Tuscis numeris docte et eleganter composueris, et sit illa, ut est, tua, tamen nescio quo modo sic edita facta est etiam mea. Quod igitur in hoc libro meum est, tibi et dono et dedico » (Aldo Manuzio editore cit., vol. I, p. 151, vol. II, p. 309).

60 Identica metafora è usata nella dedica della Venatio che Aldo indirizza all’autore, il cardinal Castellesi, nel 1505: « quia vero parentem filia desyderare impendio videbatur, remitto eam ad te qua potui ornatam veste. Tu tuam recognosces, in eaque Aldi tui era te animum » (cfr. Aldo Manuzio editore cit., vol. I, p. 91, vol. II, p. 263).

61 Caso diverso, più per le motivazioni che per la fenomenologia, è quello della dedica espunta, che di solito ha un’origine polemica (per la mala accoglienza o per la grettezza dei dedicatari), come nelle Foglie della Zucca, dove Doni giustifica la sua scelta spiegando che « quando io ho dedicato opere da me composte, o altri libri, sempre l’ho fatto per honorare i miei signori benefattori e coloro che meritano. Quando ho conosciuto che essi l’hanno per male, subito ho tolto via la epistola e ho dato fuori il volume senza dedicarlo ad alcun altro, com’ora faccio, acciòché ‘l mondo conosca ch’io lo fo per mio debito e non per mio utile ». Il passo (Anton Francesco DONI, La Zucca cit., t. 1, p. 373) è citato da Marco PAOLI, La dedica cit., p. 261, che rimanda a Elena PIERAZZO, «Le edizioni marcoliniane della Zucca del Doni (1551-1552) », in Italianistica, XXVIII (1999), 1, p. 49-71.

62 Teofilo FOLENGO, La Umanità del Figliuolo di Dio, a c. di Simona Gatti Ravedati, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000, p. 131.

63 Pur derogando alla sua abitudine di non dedicare le sue opere, Castelvetro precisava che la Poetica d’Aristotele volgarizzata e sposta, offerta all’imperatore, aveva un unico vero dedicatario: il lettore (cfr. Monica BIANCO, « Lodovico Castelvetro e la “Intitolatione gratiosa” » cit., p. 13-14).

64 Cfr. Isabelle DIU, « Enjeux de pouvoir » cit., p. 72-75 e Luigi BALSAMO, « Alberto Pio e Aldo Manuzio: editoria a Venezia e Carpi fra ‘400 e ‘500 », in Società, politica e cultura a Carpi ai tempi di Alberto III Pio. Atti del Convegno internazionale (Carpi, 19-21 maggio 1978), vol. I, Padova, 1981, p. 133-166.

65 Cfr. Elizabeth ARMSTRONG, Before Copyright cit., p. 73-75 e Teresa ROGLEDI MANNI, La tipografia a Milano nel XV secolo, Firenze, Olschki, 1980 per alcuni esempi di calmiere per le opere lussuose.

66 Luca 10, 7; cfr. Nathalie ZEMON DAVIS, Il dono cit., p. 64.

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Référence électronique

Alessandra Villa, « Tipologia e funzionamento del sistema della dedica nell’Italia del Rinascimento », Line@editoriale [En ligne], 2 | 2010, mis en ligne le 09 février 2017, consulté le 02 mai 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/202

Auteur

Alessandra Villa

alessandra.villa@univ-savoie.fr