I manoscritti inediti di Alessandro Verri, Protettore dei carcerati (1763-1765)

Résumés

L'ufficio di « Protettore dei carcerati » svolto da Alessandro Verri a Milano, negli anni del « Caffè », appare come uno degli aspetti meno studiati della sua carriera al servizio dell'illuminismo lombardo. Questa carica, che gli permise di acquistare una conoscenza pratica del sistema carcerario nello stato milanese, viene documentata nel presente saggio attraverso quattro testi inediti (tre ricorsi in grazia e la difesa di un condannato per omicidio), portati alla luce da un'indagine metodica dei manoscritti dell'Archivio Verri, conservati a Milano dalla Fondazione Mattioli. Scritti tra il 1763 e il 1765, e quindi contemporanei della genesi e della diffusione del Dei delitti e delle pene, gettano una luce nuova sulla storia della riflessione collettiva dell'« Accademia dei Pugni in materia di diritto criminale e penale.

The office of « Protector of prisoners » performed by Alessandro Verri in Milan during the years of « Il Caffè », is the least studied aspect of his career at the service of Lombardy Enlightenment. The nature of this office, which enabled him to acquire a working knowledge of the prison system in the Milanese state, is explained in this essay including four previously unpublished texts (three petitions for mercy and a defence against a man convicted of murder) discovered thanks to a systematic study of the Verri Archives’ manuscripts, kept in Milan by the Mattioli Foundation. These texts, written between 1763-1765 and so contemporaneous with the essay On Crimes and Punishments by Beccaria, shed light on the story of the collective reflection of the « Accademia dei Pugni » (Academy of Fists) on criminal law.

Plan

Texte

Negli anni 1760, il governo austriaco promosse in Lombardia, con l’appoggio dei più alti funzionari di Stato1, un vasto programma di riforme istituzionali, intento a porre le basi di una « fondazione (o rifondazione) dello Stato moderno »2. La volontà politica di Vienna riscosse, a Milano, il favore di un gruppo di giovani nobili, formati con lo studio delle lettere francesi ed inglesi, e noto al pubblico sotto il nome d’« Accademia de’ Pugni ». Pietro Verri (1728-1797), suo fratello Alessandro (1741-1816) e Cesare Beccaria, autore del Dei delitti e delle pene (1764), figure di maggior spicco di questo circolo informale, fondarono nel 1764 il periodico « Il Caffè », allo scopo di difendere l’azione del governo viennese contro le resistenze locali e di sensibilizzare il lettorato milanese alla necessità di un mutamento profondo della società di antico regime. Si trattava, inoltre, per i redattori del « Caffè », di mettere in risalto, agli occhi del governo, le loro competenze di aspiranti amministratori di Stato.

Il più giovane fra i collaboratori dell’impresa editoriale del « Caffè », Alessandro Verri visse a Milano, a partire dal ritorno di suo fratello da Vienna nel 1761, cinque anni d’intenso impegno al servizio dell’illuminismo italiano, prima di stabilirsi definitivamente a Roma nel 1767 per dedicarsi ai soli piaceri letterari, ricusando progressivamente gli ideali della sua gioventù. Destinato da suo padre senatore alla magistratura, Verri era agli albori della sua carriera quando entrò a far parte, nel corso dell’anno 1762, della piccola cerchia di pensatori – economisti, giuristi, scienziati – attivamente costituita dal fratello. Associandosi ai loro lavori, trovò nella loro compagnia un’atmosfera propizia alla riflessione e allo studio.

Fu il diritto ad offrire al giovane giurisperito un primo punto d’intesa e di collaborazione con i suoi colleghi dei « Pugni ». Assumendo la responsabilità della polemica giuridica nel secondo tomo del « Caffè », Verri si schierò contro le teorie giusnaturalistiche, perorando la causa di un profondo rinnovamento della legislazione civile in Lombardia. Ma la sua attività si svolse anche nel campo del diritto penale, che si poteva pensare affidato, nel gruppo dei « Pugni », alla sola perizia di Cesare Beccaria. Le mie ricerche di dottorato, fondate su un’indagine metodica dei manoscritti inediti di Alessandro Verri conservati a Milano dalla Fondazione Mattioli, e raccolti in seno all’Archivio Verri3, mi hanno permesso di riportare alla luce, fra gli aspetti meno conosciuti del suo percorso intellettuale e biografico, la sua breve ma intensa carriera di avvocato criminale. Viene documentata da una cospicua seria di difese di condannati, scritte tra il 1763 e il 1765, mentre il Verri occupava la funzione di « Protettore de’ carcerati ». Questi testi, che non sono mai stati menzionati fra le opere di Alessandro Verri, sono contemporanei della genesi e della diffusione del Dei delitti e delle pene e gettano una luce nuova sulla storia della riflessione collettiva dei Pugni in materia di diritto penale.

Alessandro Verri giurista e « Protettore dei carcerati »

Laureato di diritto all’Università di Pavia nel 1762, quattro anni dopo Cesare Beccaria, Alessandro Verri si avviò sulla strada della magistratura, in parte per compiacere alla volontà paterna e conformarsi ad una tradizione familiare risalente al Cinquecento. Il 9 luglio 1763, fu ammesso nel Collegio dei Nobili Giurisperiti di Milano, dove seguì un insegnamento teorico, fondato per lo più sullo studio delle Instituzioni di Giustiniano4. Il Collegio offriva ai suoi membri, cooptati nell’aristocrazia, una formazione professionale « nobile », in opposizione con « la ‘viltà’ delle minori professioni forensi »5. Il giuris peritus, dotto nei testi giuridici ed esperto nell’interpretazione della legge6, poteva cumulare contemporaneamente le funzioni di avvocato, giudice, e docente, cioè attività esclusivamente intellettuali e teoriche, mentre l’istruttoria, la raccolta delle deposizioni, la ricerca delle prove e l’esame delle procedure erano assegnate al notaio, formato presso la propria corporazione. Verri criticava, nell’articolo Ragionamento sulle leggi civili, pubblicato nel 1765 nel « Caffè », l’arcaismo di un sistema di formazione che privava i giovani giuristi di una conoscenza pratica del funzionamento dei tribunali7 :

È forza il confessare che, studiando alle scuole ed alle università quella che chiamiamo erudita giurisprudenza e poi andando nel foro, bisogna disimpararla. I principii che ivi sono in vigore, la lingua legale, le questioni sono tutte cose nuove per il puro erudito, e molto più per chi venga dalle Instituzioni ; sicché tanto se ne avea a risparmiar tal fatica.8

Ma Alessandro Verri ebbe l’opportunità di supplire a tali lacune e di acquisire un’esperienza diretta del sistema penale lombardo nel corso della sua attività di « Protettore de’ carcerati ». Questa carica, assunta più di un decennio prima da Pietro Verri, nel biennio 1751-1752, offriva la possibilità ad alcuni giovani dottori usciti dal Collegio di familiarizzarsi con lo svolgimento dei processi e delle istanze giuridiche.

La Società dei Protettori dei carcerati (Protectores aut defensores captivorum vel carceratorum), istituita nel 1466 da Bianca Maria Visconti, vedova di Francesco I Sforza, era rappresentativa delle organizzazioni filantropiche che, a Milano, compensavano con la loro azione in favore dei carcerati più indigenti « l’enorme severità della Giustizia punitiva »9. L’istituzione, laica, era composta di circa quindici persone10, cooptate fra i ceti aristocratici, e « che si esibivano di assumere la tutela dei detenuti. A que’ cittadini veniva quindi affidato il compito di visitare i prigionieri, di studiare i loro processi e sollecitarne la definizione, prosciogliendoli dalla prigionia se ingiusta, e facendo rispettare i diritti, le ordinanze, gli statuti e le buone consuetudini. I Protettori sorvegliavano i direttori, i custodi, i fornitori delle carceri, l’interno andamento di queste, dovevano impedire che vi si commettessero estorsioni11 o sevizie e all’uopo punirle, finalmente d’accordo col Vicario di Provvisione e con quello arcivescovile, dovevano regolare la erogazione delle elemosine e dei lasciti devoluti ai carcerati »12. Certo, le prerogative dei Protettori si limitavano ai prigionieri di diritto comune e mai ai condannati politici o ai rei di lesa maestà. Non mancavano d’altronde gli ostacoli al compimento della loro azione, prevalentemente da parte dei giudici e dei notari, che contendevano i loro privilegi13. Tuttavia, la Società seppe sempre conciliarsi la protezione benevolente dei vari governi : furono investiti a partire dal ’600 di competenze estese, che li autorizzava a riesaminare i processi dei condannati a morte, a liberare i detenuti senza l’accordo del giudice, e trasferire nelle carceri della Malastalla quelli più poveri e derelitti.

La Malastalla, antica opera pia destinata all’accoglienza dei prigionieri indigenti, quasi sempre condannati per debiti, era la sede della Società dei Protettori. Arcaico ed insalubre, l’edificio situato nel centro di Milano, in via degli Orefici, dovette far fronte, sotto il dominio spagnolo, ad un afflusso crescente di nuovi prigionieri ad correctionnem, sicché la popolazione carceraria, inizialmente composta di una trentina d’individui, giunse alla metà del ’700 fino a più di 140. La configurazione dei luoghi impediva ogni sorta di separazione fra di essi : giovani e anziani, soldati, pazzi, rubagalline, ma anche prostitute vi convivevano, mentre solo i prigionieri più pericolosi venivano confinati in disparte. Ma le scarse risorse fondiarie della Malastalla non bastavano più a provvedere ai bisogni elementari dei detenuti, in modo che i Protettori dovettero organizzare nuove questue e lottare contro il progressivo esaurimento delle donazioni, per comprare cibo e medicine.

Le riforme delle istituzioni carcerarie adoperate nel ’700 dal governo austriaco14 – e segnate dalla decisione di integrare all’erario dello Stato il mantenimento dei detenuti indigenti poch’anzi abbandonato alla pubblica carità – rimediò in parte, e progressivamente, allo stato deplorevole delle carceri milanesi. Tuttavia, il luogo nel quale Alessandro Verri adempì il suo lavoro di Protettore, dal 1763 al 1765, era un relitto dei tempi passati, una vera e propria « Corte dei miracoli » nella quale si dispiegava lo spettacolo dell’umana miseria, e che venne definitivamente abolito due decenni dopo, nel 1787, sotto il governo di Giuseppe II.

La difficoltà delle condizioni di lavoro non scoraggiò Alessandro Verri che svolse la sua attività di Protettore con cuore ed alacrità. In una lettera al fratello del 1766, ricordava di aver scritto « in due anni […] trentaquattro pledoyers in difesa di processati »15, ventisei dei quali sono tuttora conservati nella cartella 481 dell’Archivio Verri (intitolata « Difese dei carcerati » e formata di tre fascicoli). Tutte le difese sono stese in latino, tranne quattro, scritte in italiano, che presentiamo in questa sede.

I primi testi, raccolti nella cartella 481.2 dell’Archivio Verri, intitolata « Difese di Carcerati di D. Alessandro Verri manoscritte », sono tre suppliche, cioè brevi domande di grazia inoltrate al Senato da vari condannati per il tramite del loro Protettore16. Quasi tutte, purtroppo, sono sprovviste di datazione, ma risalgono all’arco di tempo durante il quale Verri esercitò la sua carica di avvocato criminale. La prima supplica (infra, doc. 1) difende la causa di Giovanni d’Auregard, giovane figlio di famiglia insolvente, incarcerato su richiesta del suo creditore ; la seconda (infra, doc. 2) è destinata ad ottenere dal Senato l’alleggerimento della pena di Anna Perina, condannata per incesto ad un giornata di frusta in pubblico ; la terza ed ultima supplica (infra, doc. 3) propone l’annullamento della condanna di Antonio Gussone, messo agli arresti per ratto.

Il quarto manoscritto italiano qui trascritto (infra, doc. 4), conservato nella cartella 481.3 (« Ritagli e traduzione della Difesa di Andrea Casirago »), è la traduzione italiana di una difesa in latino presente in 481.1 (cc. 26-31, « Pro Andrea Casirago »). Verri vi prende la difesa un uomo accusato dell’omicidio di sua moglie, valendosi di argomenti di stampo medicale e psicologico. La presenza, accanto alla traduzione in volgare, di un complesso di appunti relativi a questo caso, sembra indicarne il valore, agli occhi stessi dell’autore.

Questi documenti svelano una parte sconosciuta, nonché decisiva, della carriera di Alessandro Verri, durante la quale il lavoro finora individuale del giurisperito, compiuto in un quadro istituzionale, confluì in una fase d’impegno attivo nel seno del collettivo de’ « Pugni ».

Il primo indizio di questa convergenza è la presenza, in calce ai manoscritti delle difese, sin dal 1763, di diverse postille che testimoniano la partecipazione dell’entourage del Verri alla revisione dei suoi testi, anzi in certi casi alla loro elaborazione. Tre, tra le ventisei difese conservate dalla Fondazione Mattioli, sono autografe di Cesare Beccaria, e portano le correzioni di Alessandro Verri17 ; un altro foglio di mano di Alessandro presenta una serie di appunti di Pietro Verri18, e altri sette comportano numerose note di lettura di Alfonso Longo19, sempre prodigo di consigli20. Infine, la traduzione manoscritta in italiano della difesa di Andrea Casirago, inizialmente scritta in latino dal Verri, sarebbe autografa di Cesare Beccaria21. Viene così messa in luce l’organizzazione di un sistema di revisione collettiva degli scritti, nel quale il testo iniziale evolve verso la sua forma finale tramite il gioco delle successive contribuzioni, come sarà il caso per i manoscritti del Dei delitti e delle pene22 e per quelli degli articoli del « Caffè ».

D’altra parte, i manoscritti delle difese dei condannati confermano quella che era finora una semplice ipotesi, fondata su una serie di testimonianze concomitanti23 : quella della contribuzione di Alessandro Verri alla genesi del pensiero penale di Cesare Beccaria.

La riflessione penale di Alessandro Verri

Le difese di Alessandro Verri dispiegano una riflessione sulla giustizia penale che mette in evidenza, sebbene sotto una forma frammentaria e priva della coerenza complessiva di un trattato, le affinità del suo pensiero con le teorie contemporaneamente maturate dal gruppo dei « Pugni ». Le tre suppliche e la difesa di Andrea Casirago, qui presentate, sono esemplari dell’indirizzo generale dell’argomentazione giuridica di Alessandro Verri, fondata su due principi : l’utilità delle leggi e l’umanità delle pene.

Il principio utilitaristico percorre la totalità degli scritti dell’avvocato Verri. Si impernia su una distinzione iniziale tra delitto e peccato, che costituisce una delle affermazioni basilari dell’opera di Beccaria (§ VII, « Errori nella misura delle pene » : « Alcuni pensarono che la gravezza del peccato entrasse nella misura dei delitti. La fallacia di questa opinione risalterà agli occhi d’un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra uomini e uomini, e tra uomini e Dio »24). Nell’ambito di una giustizia secolarizzata, la pena non è concepita come il castigo di una colpa, ma come la riparazione di una danno arrecato alla società : il delitto non è più interpretato come l’indice di un’imperfezione morale, la cui purgazione implica una necessaria sofferenza, ma come un’infrazione puntuale alle regole della vita civile, che deve essere rimediata, più che espiata. In conseguenza, la pena non deve eccedere i limiti di quello che è utile e necessario25 per ristabilire l’ordine pubblico. « In vero non si puniscono i falli perchè commessi, ma perchè non se ne commettano in avvenire ; posciachè quel ch’è fatto, nè proibire si può, nè distruggere », ricorda Verri nella difesa di Casirago26, che echeggia il § XII del Dei Delitti, intitolato « Fine delle pene » : « Egli è evidente che il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso […] Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali »27.

Alessandro Verri sfrutta ugualmente il principio dell’utilità delle pene nella sua supplica in difesa di Anna Perina, per evitare all’imputata, rea di incesto sulla persona di sua figlia e già condannata a sette anni di carcere, la pubblica e infamante umiliazione della frusta. Anziché rimettere in questione, di fronte ai suoi pari, l’esistenza stessa di questa crudele pratica, l’avvocato consiglia di restringerne l’uso. Dimostra in specie l’assenza di giustificazione di un castigo che, lungi dall’essere esemplare, contribuirebbe ad esporre agli occhi di tutti l’esistenza di un vizio poco diffuso :

La pubblica fustigazione destinata a servir d’esempio, può ancora produrre qualche scandalo. Il delitto è da molti ignorato : lo sarebbe da nessuno dopo questa pubblicità. La rivelazione di simil sorta di fatti forse non servirebbe al fine a cui mira la pena cioè la correzion de’ costumi. (Doc. 2, c. 123v)

Verri reinterpreta abilmente in questo passo la nozione di esemplarità della pena nel senso di una più grande umanità della giustizia. Si tratta di sostituire alla « virtù dissuasiva dello spettacolo penale »28, caratteristica dell’antico regime, una nuova forma di dissuasione che non si fonda più sul terrore e l’esibizione del castigo, ma sulla certezza della pena e l’esattezza della sua misura. Difatti, Verri consiglia, nel caso della Perina, di alleviare la condanna e di conservare la sola pena d’imprigionamento, giudicata alquanto severa per non pregiudicare la preservazione di un rapporto di equità tra il delitto commesso e la punizione. Anzi, esorta i senatori a « diminuire, e mitigare la sentenza quallora ciò possa farsi senza che per questa diminuzione rimanga una sproporzione fra la colpa, ed il castigo » (c. 124r). L’avvocato si situa in questo modo in una prospettiva di razionalizzazione delle pene, che non devono più dipendere dell’arbitrio – spesso crudele – delle tradizioni giuridiche, ma rispondere a nuove esigenze logiche.

Fatto sta che Verri era confrontato, a Milano, ad una giustizia penale particolarmente arcaica ed arbitraria. L’uso della tortura rimaneva consueto durante la fase d’istruzione dei processi, e il sistema lombardo si dimostrava « sbrigativo, basato sul presupposto, ritenuto generalmente valido, che il reo abituale, anche se confesso, confessava solo una parte dei suoi misfatti »29. La permanenza della pratica legale dei supplizi costituiva ancora nel ’700, da questo punto di vista, « una caratteristica saliente del sistema processuale, e probatorio in particolare, del territorio lombardo. […] La colta ed aristocratica Milano vi faceva ancora ricorso, mostrando così il volto di una giustizia dove la severità sconfinava nella crudeltà e il rispetto della tradizione in cieca ottusità »30. In quest’ambito nel quale il ruolo degli avvocati della difesa era particolarmente limitato31, la figura del Protettore appariva come uno degli scarsi punti di sostegno del detenuto, inerme di fronte all’onnipotenza del giudice, e ad un sistema giudiziario di cui non capiva né la lingua, né i meccanismi.

La convinzione di una necessaria razionalizzazione della logica penale nel senso di un maggior rispetto delle persone umane traspare ancora nel ricorso di grazia rivolto dal Verri al Senato in favore di un condannato insolvente, Giovanni d’Auregard. L’avvocato denuncia l’inutilità, se non l’assurdità, di una sentenza che condanna all’imprigionamento, alle spese della persona lesa, un uomo ridotto alla più estrema miseria. Una tale decisione non può soddisfare nessuna delle parti opposte :

Non è una pena quella che impone la legge ai Debitori che vengono carcerati se non pagano. Una pena suppone un delitto, e delitto non è l’esser povero. Ella adunque è la carcerazione de’ Debitori un mezzo legale per ottenere il suo debito […]. V. A. S.ma si degni di considerare quanto inefficace, e tristo a un tempo sia il mezzo della carcerazione per ottennere un debito da chi ne lo può ne lo potrà mai pagare. La onde quello ch’è un rimedio che porge la legge ai creditori al solo fine di essere sodisfatti nel loro interesse, ora viene a risolversi in una mera attrocità, tanto più grave, quant’ella non è utile ad alcuno, e funestissima al supplicante nella fama, nell’onore, nella salute. (Doc. 1, cc. 119v-120v)

È interessante rilevare che il momento in cui il Verri tratta il caso d’Auregard – e forse di altri debitori insolventi fra i condannati della Malastalla – è quasi contemporaneo della decisione di Beccaria di riscrivere interamente, durante l’estate del 1765, il § xxxiv del Dei Delitti dedicato ai debitori. Difatti, Beccaria cambiava radicalmente l’approccio finora privilegiato sulla questione dei fallimenti nella « quinta » edizione dell’opera, stampata nel 1766 a Livorno dal Coltellini32. Mentre affermava nelle precedenti versioni del testo che « il fallito innocente devesse essere custodito come un pegno dei suoi debiti, o adoperato come schiavo al lavoro per i creditori »33, l’autore dei Delitti operava nell’edizione rivista una distinzione tra il « fallito doloso », colpevole per esempio di bancarotta fraudolente, e il « fallito innocente » vittima delle « vicende inevitabili della prudenza umana » (Dei delitti, pp. 84-85). In questa sua nuova forma, il testo del Beccaria presenta rilevanti affinità ideologiche e terminologiche con la supplica del Verri : l’uno e l’altro concordano per inflettere il corso della giustizia penale nel senso di una maggiore indulgenza verso i debitori sinceri. Per Alessandro Verri, la miseria del d’Auregard era « figlia della necessità » e della « sfortuna » (c. 119v) e il suo imprigionamento « una mera attrocità » (c. 120v) ; un « barbaro motivo », avrebbe affermato Beccaria, l’unico effetto del quale era « la disperazione della probità oppressa » (Dei delitti, p. 85). I due testi propongono inoltre una soluzione identica per il problema dei falliti innocenti, auspicando che la giustizia offra al debitore « i mezzi di ristabilirsi » (Delitti, p. 86), cioè permetta al condannato di risarcire progressivamente i creditori, grazie alla sua « industria » (Dei delitti, p. 85). Verri, in quanto a sé, propone che il suo cliente si arruoli nell’armata imperiale, e rimborsi con il soldo riscosso il suo creditore – un tale Corti –, unica maniera di compensare l’interesse leso del creditore e di rappacificare una relazione conflittuale :

Un onesto impiego fuori delle carceri è quel unico mezzo che rimane per pagare. Questo si presenta al supplicante col venirgli aperto l’adito d’impiegarsi al servigio di S. M. nel militare. Se il Corti lo ricusa ei non conosce il proprio utile ; s’ei non è ancor persuaso che la carcerazione è inutile, ei non conosce una verità dimostrata, s’ei la conosce eppure gli piace di prolongare a sue spese la misera vita ad un infelice senza nissuno suo utile V. A. S.ma si degni di considerare se ciò sia conforme alla umanità, ed alle leggi. (Ivi, c. 121v)

Risolvere con certezza la questione del contributo individuale dei membri dei « Pugni » al fermento d’idee che trovarono una forma organica nell’opera del Beccaria34 è un’impresa ardua, inasprita inoltre dalle dissensioni ulteriori tra l’autore ed i fratelli Verri. Tuttavia i documenti qui presentati permettono di capire che Alessandro seppe arricchire con la sua esperienza del sistema carcerario lombardo i principi e gli ideali che contraddistinsero dal 1763 al 1765 l’indirizzo del gruppo in materia di legislazione criminale e penale. Forse la necessità di esporre le sue idee a viso scoperto di fronte ai suoi pari, senatori e magistrati, cioè una frangia rappresentativa dell’aristocrazia conservatrice, spinse Verri ad attenuare l’audacia delle sue posizioni ; eppure non venne meno la sua volontà di mettere in pratica, nel quadro delle sue funzioni di avvocato criminale, un ideale di giustizia umana e moderata, sorretto da una conoscenza empirica delle condizioni di vita dei detenuti e della loro miseria. La messa in evidenza delle sofferenze fisiche e morali indotte dall’inadeguatezza delle pene caratterizza le sue difese : il lessico del dolore (« ignominia », c. 123r ; « attrocità », c 120v ; « infamia », c. 123v ; « infelicissima », 124r) dà corpo a una retorica della sensibilità, che sfocia in un appello alla compassione dei giudici verso i condannati. Quest’appello si fa in nome dell’« umanità » dei detenuti, vocabolo fondamentale in materia di diritto penale nella seconda metà del ’700, e del quale troviamo due occorrenze nella difesa di d’Auregard. Si tratta, ripete il Verri, di rendere ogni decisione di giustizia « conforme alla umanità » (c. 120r et c. 121v). Si può cogliere nell’uso dei quest’espressione un’eco attenuata dei « diritti degli uomini » o « diritti della umanità » evocati dal Beccaria (in particolare nel paragrafo sui debitori35) sul modello delle espressioni « droits de l’humanité » et « droits des hommes » diffuse nel 1762 dal Contrat social (I, 4 e IV, 8). In tal modo, l’indiscriminata nozione di « persona » tende a prevalere sulle considerazioni di classe o di rango sociale del detenuto, che sempre prevalevano nelle deliberazioni di giustizia.

Ritroviamo lo stesso tipo di approccio nella « Difesa di Andrea Casirago », redatta in latino da Alessandro Verri durante la primavera 176536. Verri conclude la sua arringa con un appello alla « misericordia » e alla « pietà » dei giudici, sperando che siano commossi « da umanissimi interni moti » (doc. 4, c. 8r) e vedano nella persona del condannato un’immagine delle sofferenze inerenti alla condizione umana. Pur ammettendo che la tentazione del male predomina, in alcuni individui, su quella della virtù, Verri ricorda che « non pertanto ridotti poi sono all’abjezione di essere di una spezie del tutto bestiale » (c. 2r). Così, ricorrendo ad una patetica prosopopea finale, il Protettore dei carcerati fa risuonare nelle ultime righe della sua difesa la voce della figlia del condannato, che lo restituisce alla dignità delle sue funzioni paterne :

[…] molle tutta di lagrime, co’ più gravi affanni sul cuore, co’ sospiri sulle labbra in atto supplichevole stende le imbelle mani, ed esclama, che non vogliate a’ funerali accumular funerali, a morte aggiunger morte nè a distruggere concorriate un’intera Famiglia ! Perdetti, dolorosa dice l’innocente Fanciulla, la dolcissima madre perdetti, deh conservatemi un infelicissimo Padre vi priego. Ah se a me fosse permesso un testimonio prestarvi di tutto quello che io vidi operare dai furiosi moti di un animo dalla più barbara gelosia sconvolto, la vostra pietà riscuoterei, o giustissimi Padri, e non lo sdegno. Perdonate ad un Genitore il più infelice di tutti, a me del materno sangue aspersa ancora e tinta perdonate. (Ivi, c. 8v)

La difesa di Andrea Casirago si distingue dalla forma classica dell’arringa, tradizionalmente imperniata su una complessa casuistica giuridica, ricca di richiami di giurisprudenza e di riferimenti ai documenti del processo d’istruzione. Un posto prevalente viene qui attribuito alla personalità del colpevole, e soprattutto alla sua sofferenza. Verri tende così, nelle sue suppliche, a dissociarsi dalle pratiche della giustizia penale di antico regime, e dai suoi ordinamenti « tanto efferati nella contemplazione delle pene e disordinati nella mancanza di proporzione quanto inefficaci nel mettere a freno i comportamenti delinquenziali »37. Si sforza, al contrario, di indurre i magistrati a rinunciare alla severità delle pene propria dell’Europa feudale, quello che Foucault chiama « l’éclat des supplices »38, per prediligere, sulla scia dell’autore dei Delitti, la « dolcezza delle pene »39.

Il caso Casirago : un’interrogazione su follia e responsabilità penale

Il fascino di Alessandro Verri per le manifestazioni irrazionali della mente, la sua volontà di indagare l’origine delle pulsioni violenti, del furore micidiale che contaminano ogni gruppo sociale, erano già notevoli in alcuni suoi articoli del secondo tomo del « Caffè », quale il Comentariolo sulla ragione umana. La difesa di Andrea Casirago gli offrì l’occasione di tornare ad esplorare questo tema, secondo un’impostazione tuttavia diversa ed originale, cioè privilegiando l’aspetto medicale della questione della follia. Gli diede anche la possibilità di approfondire un problema finora solo sfiorato dal Beccaria nel Dei delitti e delle pene, quello della responsabilità penale del pazzo40.

Incaricato, nella primavera del 1765, della difesa di Andrea Casirago, Verri tenta di salvare l’imputato dalla pena di morte presentando la sua follia come una « circostanza attenuante » del delitto, per usare una terminologia moderna. Il proposito dell’avvocato non era certo di minimizzare la gravità dell’atto commesso, ma di attenuare la responsabilità penale del reo, affetto da un male che gli toglieva la consapevolezza del suo gesto : il delitto era stato perpetrato « involontariamente » da un uomo « privo della ragione dalle perturbate idee, e dalle furie della pazzia informato » (doc. 4, c. 4r). Aggiungeva il Verri :

Chi potrà mai dire darsi pena senza delitto, delitto senza dolosa colpa, nè dolosa colpa senza l’uso della ragione ? […] La mia difesa in ciò soltanto consiste, che non del fatto si tratti, ma sibbene se questo meriti punizione. (Ivi, c. 2r)

Il ricorso alla nozione di razionalità del delitto come criterio d’imputabilità si riallaccia alla tradizione del diritto romano classico : solo un individuo in pieno possesso delle sue facoltà mentali, e giunto ad un certo grado di maturità intellettuale poteva essere considerato come l’autore di un delitto. In tutti i casi esaminati dai giuristi classici, da Pegaso a Ulpiano, il concetto di culpa non viene mai applicato a persone appartenenti alle categorie del furiosus e dell’infans41. La non imputabilità dei furiosi si fondava su due principi : un rescritto d’ispirazione filantropica di Marco Aurelio che, pur ricordando l’inevitabilità delle misure di sicurezza pubblica – quale la reclusione – riteneva i pazzi già abbastanza puniti dalla disgrazia della loro condizione ; d’altra parte, un frammento del Digesto attribuito ad Ulpiano, che paragonava il danno causato dal demente a quello recato da un animale o da una tegola caduta da un tetto42. Fondando la sua difesa sull’idea della necessaria compassione43 della giustizia nei riguardi del pazzo, e sull’assenza di intenzionalità del suo gesto, Verri sfrutta dunque, per quanto riguarda lo statuto giuridico dell’individuo demente, uno schema argomentativo classico.

Conviene tuttavia osservare come Verri manifesti, nella sua difesa, la volontà di ripensare, a partire dai progressi medicali del suo tempo, una nozione – la demenza – che non era stata finora oggetto di una precisa definizione nei testi giuridici. Elaborando un’analisi circostanziata (« un’anatomia », c. 6v) dello stato di salute mentale, presente e passato, dell’imputato44, fondata su un serie di « medico-legali osservazioni » (ibid.), Verri enumera le manifestazioni episodiche di « furore », « pazzia » (c. 2v e passim) o di « frenesia » (c. 3r) che segnano la vita del suo cliente. Giovandosi del lessico medicale di suo tempo, Verri individua in Casirago la presenza di turbamenti psichici definiti con il vocabolo di « melanconia ». Il sintomo principale di questi turbamenti, l’ossessione, la fissità delle idee45, preannuncia quello che la medicina mentale del primo ’800 avrebbe chiamato con Esquirol monomania, per distaccarsi dalla teoria degli umori ereditata dall’antichità. Quest’incursione di Alessandro Verri sulle terre della psichiatria per capire l’origine del gesto criminale si compie sotto l’egida dei grandi precursori settecenteschi della neurologia, quali Gerhard Van Swieten (1700-1772)46, citato più volte (c. 3v, c. 6v, c. 7r), il clinico olandese Hermann Boerhaave (1668-1738) e il medico francese François Boissier de Sauvages (1706-1767) (c. 6v), che aveva individuato nella sua Nosologia metodica quattordici forme di « malinconie ». Lo scopo del Protettore è di dimostrare che la follia, insediata da più anni nello « sconvolto intelletto » di Casirago (c. 2v), non può derivare da una simulazione, e che, privando l’individuo del suo libero arbitrio, agisce come causa deresponsabilizzante. La constatazione medicale induce una conseguenza di carattere giuridico : involontario, il delitto di Casirago non merita la pena di morte, la cui finalità consiste nel distogliere le menti dalla tentazione del delitto47. Lungi dal provvedere un pubblico esempio, il castigo si risolverebbe in mera crudeltà (« il supplicio di un pazzo in ispettacolo solo si volgerebbe di tristezza, e mestizia », c. 8v) senza adempiere una funzione preventiva contro fatti analoghi, che sfuggono ad ogni logica razionale :

[…] chi in istato di senno alle scelleragini dà mano, porge al peccare un funestissimo invito ; chi delirante, e stolto ne’ delitti incorre, non divien egli di delitto, ma un esempio di pazzia, che non mai alla pubblica disciplina potrà recar nocumento. (c. 8v)

L’approccio medicale, quanto giuridico, della questione della follia, fonda l’originalità, se non la modernità, della posizione verriana : ricordiamo che Alessandro aveva già dedicato un intero capitolo del suo Saggio sulla storia d’Italia, redatto negli anni 1764-1765, alla descrizione commossa e violentemente polemica di un autodafé perpetrato dall’Inquisizione palermitana nel 1724 contro alcuni pazzi, atto moderno di giudiziaria barbarie che spingeva il giovane storico ad evidenziare la necessità di affidare la custodia dei malati mentali ai medici, e non ai giudici o ai carnefici48.

La distinzione proposta da Verri tra la volontà deliberata di nuocere (gesto « di senno ») e l’atto involontario (gesto « delirante ») poggia sull’esame spregiudicato delle condizioni psicologiche dell’imputato nel momento del delitto. Il Protettore appare perciò come un precursore, che accompagna l’evoluzione della legislazione criminale verso una presa in considerazione più acuta dell’elemento intenzionale. Affermando la necessità di ricostituire la storia del delinquente, di esaminare la sua interiorità e i suoi antecedenti, Verri segna una profonda rottura con la logica penale di antico regime, che indagava le sole circostanze materiali del delitto. Anzi, la sua posizione sembra preannunciare l’articolo 64 del Codice penale napoleonico del 1810 che formalizzava per la prima volta nel diritto moderno l’irresponsabilità penale degli alienati49, e obbligava i tribunali a prendere in considerazione la personalità degli imputati, i loro motivi eventuali, e l’insieme delle condizioni soggettive dell’atto50. Certo, Verri rimane tributario delle pratiche del suo tempo : ricorre solo in modo indiretto e mediato alla scienza medicale, tramite citazioni di trattati specializzati, mentre il medico, al quale tende a sostituirsi sebbene non sia la sua area di competenza, rimane sempre escluso dallo svolgimento della procedura penale51. Ma la sua arringa è esemplare del modo in cui lo studio delle patologie mentali fece, a partire dalla fine del 700 e soprattutto nel corso dell’800, il suo ingresso sulla scena giudiziaria.

La posizione del Verri spicca anche nel gruppo dei Pugni. La sua volontà di dare maggior rilievo all’elemento intenzionale lo spinge ad andare oltre il quadro abbozzato dal Beccaria. Mentre l’autore dei Delitti, mosso da un intento polemico contro l’arbitrario dei giudici e di laicizzazione della giustizia, tende a restringere al solo « danno fatto alla nazione » il calcolo delle pene52, includendo, senza precisarlo esplicitamente, l’intenzione nella nozione di « danno »53, Verri, sciolto in quanto a sé da ogni necessità sintetica – e non avendo come proposito di stabilire principi costanti del diritto –, sfrutta il caso Casirago per interrogarsi liberamente sulla correlazione tra « intenzionalità » e responsabilità, ed inquisire le implicazioni della volontà nella perpetrazione dell’atto delittuoso. L’esame della personalità del Casirago gli diede così l’occasione d’inoltrarsi in un campo ancora incolto, al punto d’incontro tra la medicina e il diritto penale. Ma il testo appare anche come una preziosa testimonianza del progressivo emergere, nel secondo ’700, della nozione di soggettività, non solo nei campi del diritto e della scienza, ma anche in letteratura, con la nuova generazione degli scrittori preromantici, della quale il Verri stesso entrerà a far parte : il romanziere inaugurerà sulla scena romanzesca italiana, attraverso i personaggi della Saffo e di Erostrato, il tema del soggetto colpevole, tormentato e punito, contribuendo ad offrire alle manifestazioni della coscienza umana nuove possibilità espressive.

La carriera giuridica di Alessandro Verri, lungi dall’essere un mero obbligo professionale imposto dalla volontà coercitiva del padre, appare, alla luce delle difese dei condannati, come una tappa decisiva dell’iniziazione del Verri ai principi dell’illuminismo lombardo, e al suo impegno crescente nella battaglia editoriale degli anni 1764-1766, a Milano. Questi scritti inediti tendono a dimostrare che il giurista adempì con fervore la sua carica di Protettore, che gli valse una prima forma di considerazione pubblica54 e segnò l’inizio della sua collaborazione con i colleghi dei « Pugni ». Dimostrano soprattutto la precocità del suo schieramento in favore di ideali umanisti e progressisti, che il suo ulteriore « trinceramento » romano rischiava di fare apparire superficiale. Confermano, infine, il ruolo svolto dal Verri nelle discussioni sul diritto penale, e offrono in questo senso una pregevole documentazione per la conoscenza del contesto intellettuale nel quale nacque il libro del Beccaria.
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Documento 1. Supplica in difesa di Giovanni d’Auregard detenuto nelle carceri della Malastalla – Archivio Verri, cartella 481.2, cc. 119-122, due bifogli manoscritti autografi.

[c. 119r]

Altezza Serenissima

Già da più mesi Giovanni d’Auregard Brusellese, ed umilissimo servitore di V. A. S.ma ritrovasi nelle carceri della Mala Stalla di questa città di Milano, come debitore di Giuseppe Corti Locandiere per alimenti prestatigli nel tempo che fu da lui allogiato.

Il supplicante qui non intraprenderà di rispondere a quanto il Corti espose in suo memoriale abbassato a V. A. S.ma. Ivi si ritrovano imputazioni che denigrerebbero quell’onore, e quella fama a cui le azioni, e la nascita del supplicante danno diritto, se bastasse a ciò una semplice, ed appassionata accusa senza che se adducano prove convincenti.

Per ora adunque, quantunque gravi ad ogni onesta persona sieno quelle accuse, se ne tralascia la diffesa perchè non provate lasciano per lo [119v] meno in dubbio a chi più facciano torto, se a chi le fa, o a chi le soffre, e perdona.

Quello che forma il soggetto delle presenti umilissime suppliche del Detenuto sono le seguenti considerazioni che alla Al. V. S.ma si sottopongono.

Non è una pena quella che impone la legge ai Debitori che vengono carcerati se non pagano. Una pena suppone un delitto, e delitto non è l’esser povero. Ella adunque è la carcerazione de’ Debitori un mezzo legale per ottenere il suo debito ; e ciò od assicurandoli se sospetti di fuga, o costrignendoli se contumaci con tale molestia a far gli ultimi sforzi.

Nissuno di tai casi è quello del supplicante. Non è doloso il suo debito, ma è figlio della necessità ; non glielo fece contrarre la spensieratezza, ma la sfortuna ; non ricusa di pagarlo perchè non vuole, ma perchè non può.

Lungi dall’esser stato indolente il Detenuto [120r] per soddisfare il proprio debito tanto prima, quanto dopo la sua carcerazione non tralasciò d’interporre i mezzi più efficaci per sodisfare in uno alla propria onoratezza ed all’interesse del suo creditore. Il supplicante Figlio di Famiglia, forestiero, senza nessun soccorso, lontano dalla sua Patria, senza patrimonio alcuno è troppo palese essere da se un debitore affatto insolubile. Ricorse adunque egli a suo Padre, vale a dire a quel uomo solo che puoteva trarlo dalla miseria. Ma le replicate preghiere appoggiate anche dalla più rispettevole protezione ad altro non servirono che a provare esser il Padre inflessibile alle preci, ed alla miseria del figlio, e talmente inflessibile che è spenta ogni speranza di mutazione in lui. Il Documento B. potrà far prova di sì funesta verità. [120v]

Le cose essendo ridotte a tale stato V. A. S.ma si degni di considerare quanto inefficace, e tristo a un tempo sia il mezzo della carcerazione per ottennere un debito da chi ne lo può ne lo potrà mai pagare. La onde quello ch’è un rimedio che porge la legge ai creditori al solo fine di essere sodisfatti nel loro interesse, ora viene a risolversi in una mera attrocità, tanto più grave, quant’ella non è utile ad alcuno, e funestissima al supplicante nella fama, nell’onore, nella salute.

Egli è un principio conforme non che alla umanità, ancora alla più rigorosa giustizia, che non sia punito di perpetua carcere, pena eguale alla morte, un Debitore ; e molto più s’ei fa gli ultimi sforzi per pagare, e che per non altra ragione no’l possa, se non se perchè miserabilissimo.

Perciò ritrovasi che anche in via di pura Giurisprudenza privata, ed ordinaria il Senato [121r] di questa Città ne’ casi, ne’ quali riconobbe la insolubilità del Debitore, usò di concedergli la cessione de’ beni, ed il successivo rilascio, coll’obbligo di pagare venendo in migliore stato di fortuna. Così fecesi l’anno 1588 a favore di Paolo Castello debitore di Fabricio Casato, così l’istesso anno a favore di Marco Cercio, creditore di Domenico Vicedomini, stabilendosi di più dal Senato istesso per massima che in simili casi altrettanto praticare si dovesse, come attesta nelle pratiche questioni Giulio Cesare Ruginello al capo 39. num : 16.

Tali massime se sono conformi alla gius[ti]zia, sono ancora conformi all’interesse dello stesso Creditore. Le di lui pretensioni diventano sempre più inutili più che con le molestie di una lunga carcerazione mette il suo Debitore nell’ultima ruina. Al che aggiungesi [121v] la spesa degli alimenti che è un aggravio d’esso creditore, e che in puro aggravio si risolve quando non mai conseguir potrà il suo credito.

Un onesto impiego fuori delle carceri è quel unico mezzo che rimane per pagare. Questo si presenta al supplicante col venirgli aperto l’adito d’impiegarsi al servigio di S. M. nel militare. Se il Corti lo ricusa ei non conosce il proprio utile ; s’ei non è ancor persuaso che la carcerazione è inutile, ei non conosce una verità dimostrata ; s’ei la conosce eppure gli piace di prolongare a sue spese la misera vita ad un infelice senza nissuno suo utile V. A. S.ma si degni di considerare se ciò sia conforme alla umanità, ed alle leggi.

Adunque confidato nella benignità di V. A. S.ma il Detenuto si fa coraggio di umilmente supplicarla che si degni [122r] concedere la liberazione dalla Carcere, e la permissione di abbracciare la milizia, eccitando, se così le piaccia, il Senato a dire le sue occorenze e parere intorno a che in tale affare determini la giurisprudenza e la equità.
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Documento 2. Supplica in difesa di Anna Perina – Archivio Verri, cartella 481.2, cc. 123-24, un bifoglio manoscritto di copista.

[123r]

Eccellenza,

Ella è certo ben infelice la sorte di Anna Perina Umilissima Servitora di V. E. Fu condannata la supplicante a sette anni di stretta carcere, ed a un giorno di frusta, dal Senato Eccellentissimo come rea d’incesto. Fu parimenti constituita Rea dello stesso delitto la misera sua Figlia nubile Maria, e condannata a carcere finchè così piacerà allo stesso supremo Tribunale.

I sette anni di carcerazione sono meno gravi alla misera madre che la pubblica fustigazione. Questo è un obbrobrio la di cui sola idea l’opprime : questa è una ignominia che ricade sulla infelice figlia alla quale sarà in tal guisa interclusa l’occasione di collocarsi in matrimonio.

V’è chi si offre presentemente a sposarla, e che fino prima della sentenza definitiva era pronto a ciò fare, ma protesta ancora di ritirarsi da tale impegno quallora si passi alla esecuzione della pena della frusta. Non può credersi un capriccio questa perorrescenza della fustigazione. Trovasi difficilmente chi non abborisca aver per suocera una che fu dal carnefice pubblicamente frustata. Nè chi è pronto a sposare una incestuosa, deve presumersi che avrà ancora il coraggio di sposare la figlia di una frustata. Queste due macchie son ben diverse. Non è nella pubblica opinione cotanto infame una figlia che sia caduta in simili trascorsi, quanto s’ella oltra ciò abbia per madre una Donna la quale per le pubbliche vie fu soggetto di scherno, e d’ignominia al volgo, e passò per le mani del Carnefice. Sono troppo diversi i giudizj degli uomini su di tal conto, ed altra cosa è agli occhi loro uno stupro, altro la pubblica fustigazione.

Queste sono quelle tristi riflessioni che fanno pur troppo prevedere alla infelice [123v] Supplicante che la figlia sua quallora soffra la madre cotanta infamia, verrà ad esser per sempre inabilitata a rimediare in quella sola maniera che restava le passata vicende.

Questa massimamente fu la cagione per la quale umiliò a S. A. S. il ricorso di grazia, e questo massimamente è quel motivo di equità per cui spera di ottenere favorevole consulta.

Dopo la condanna sarebbero intempestive le Difese. Altro non rimane che di soffrir sommessamente la pena. Dove si ricorre alla clemenza non devesi scusare il delitto, ma chiederne perdono. Questi sono i sentimenti che stanno impressi altamente nell’animo della Supplicante ; pure quegl’istessi motivi che servirebbono a mitigar la pena nel condannare, possono ancora servire a mitigarla dopo la sentenza ; onde umilmente si adducono.

La pubblica fustigazione destinata a servir d’esempio, può ancora produrre qualche scandalo. Il delitto è da molti ignorato : lo sarebbe da nessuno dopo questa pubblicità. La rivelazione di simil sorta di fatti forse non servirebbe al fine a cui mira la pena cioè la correzion de’ costumi. Occorrere può che per tal via s’insegni il delitto più che non si corregga. Si tratta di una colpa che per non esser frequente sembra ancora meno bisognevole di un così solenne esempio. Codeste riflessioni umilmente si abbandonano, e sottomettono all’alta considerazione di V. E.

La ignoranza della gravità della colpa che fu pienamente nella Supplicante può meritare qualche riflessione. Quantunque sieno di parere alcuni fra i Giuristi che quando datur operam rei illicitae l’ignoranza non iscusi, pure altri molti in maggior numero in materia d’incesto opinano ch’ella generalmente scusi perchè non si deve punire alcuno di un delitto ch’egli non sapeva di commettere, benchè sapesse di commetterne un’altro al quale acconsentiva, secondo ciò che commentarono i Giuristi nella Legge Ia C. de Summa Trinitate dove Giasone n. 31 ed altri suoi seguaci. Che se nel presente caso è controversia grandissima fra i criminalisti se incesto sia, o non sia il presente, ed è plausibilmente sostenibile l’opinione che non lo sia, come potrassi supporre in una povera, ed incolta Donna tal cognizione di Giurisprudenza che saper dovesse a qual delitto ella s’abbandonasse ?

[124r] Finalmente egli è degno di quella equità che sempre mai guida i Giudizii del Senato Eccellentissimo il diminuire, e mitigare la sentenza quallora ciò possa farsi senza che per questa diminuzione rimanga una sproporzione fra la colpa, ed il castigo. Giulio Ilario attesta al § Incestus che cotal delitto talora suolsi punire di sola pena pecuniaria. Nella L. Si quis viduam […] de questionibus l’incesto congiunto ancora collo stupro non è di maggior pena creduto meritevole che della deportazione. E per fine il Senato di Granata in caso d’incesto unito con adulterio avuta la remission del marito quanto a quest’ultimo titolo, non condannò il Reo che al esilio, ed a pena pecuniaria come fa testimonio il Larrea nelle sue Decisioni Granatesi par. 1. Disp. 50. n. 21.

Sono adunque queste umilissime considerazioni, e molto più la fiducia nella equità del Senato Eccellentissimo che fan coraggio alla desolata Madre, ed alla infelicissima Figlia d’implorare favorevole consulta per la ricercata diminuzione di pena la quale spera, e supplichevolmente prega che della grazia ecc.
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Documento 3. Supplica in difesa di Antonio Gussone – Archivio Verri, cartella 481.2, cc. 125-128, due bifogli manoscritti autografi.

[125r]

Eccellenza

Il fallo in cui è caduto Antonio Gussone umilissimo Servitore di V. E. quantunque considerato in se stesso sembri degno della pubblica vendetta, pure se abbiasi riguardo a suoi aggiunti viene a risultare meritevole non che di equità, anche di perdono.

Il supplicante è processato per la fuga da lui presa da questa città seco abducendo Antonia Tedesca moglie di Pietro Novarra.

Se per constituire il Ratto nel suo senso rigoroso vi si ricchiede violenza ; se per punirlo di pena ordinaria è d’uopo che <testo cancellato> onestà della rapita ; se per procedere, querela del marito se la rapita è maritata ; mancando tutte [125v] e tre queste circostanze nel caso presente giova sperare al supplicante che sarà posto fine alle molestie criminali.

Osservano comunemente i DD. come la parola Ratto suoni un atto fatto con violenza : e perciò quantunque sia ricevuto che il Ratto fatto con male arti come l’esprime il § vi aute nelle Instituzioni al titolo De publicis Iudiciis benché una positiva violenza non v’intervenga sia punibile di pena ordinaria ; ciò nonostante ella è ancora comunemente adottata la dichiarazione di quel § vale a dire una certa violenza dovervi sempre intervenir se non altro nella importunità degli adescamenti, nelle frodi, nelle insidie, persuasioni, imposture e simili ; per modo che non mai procede il detto § se v’è uno [126r] totale, e spontaneo consenso della rapita. Laonde riflette il Bossio De raptu mulieris n. 6 che il Ratto in tal caso non si punisce di pena corporale, e tale esser la pratica di decidere in Milano. Nel caso presente ella è una manifesta verità che nissuna propria, od impropria violenza intervenne, sichè è difficile di ravvisare quale dei due promovesse questa fuga.

Che se la violenza non fosse esclusa dal fatto, ella lo sarebbe dalla qualità della rapita, la quale niente v’è di più palese, quanto esser ella donna pubblica ; come dal processo construito e pubblicato contro di Anna Bernascena può abbondantemente ricavarsi. Questa circostanza non solo serve ad escludere la pena ordinaria giusta le n. C ; ma eziandio a rendere affatto [126v] inverisimile ogni pretesa violenza. Avvegnachè in tal razza di gente non mai si presume, secondo l’originale, e comunemente applaudita dottrina di Paolo di Castro cons. 303 ; ed a tal segno vengono disprezzate le querele di violenza in simili persone che molti opinarono la violenza di una meretrice dovere essere impunita fra i quali Cler. § fornicatio n. 2.

Per lo che altro titolo rimanere non può per cui si sostenga la processura che la ingiuria recata al marito. Alla donna nessuna se ne fece perchè il di lei consenso intervenne. S’ella fosse libera non vi sarebbe luogo non solo a pena, ma tampoco ad inquisizione alcuna. Intanto adunque egli è delitto tal fuga, in quanto recò ingiuria al marito chi acconsentì, ed ajutò la fuga della [127r] moglie.

Egli è comunemente ricevuto il principio, che in tutte le violazioni della fede conjugale competa al solo marito il diritto di Accusare, o non accusare. L’officio del Giudice tace in tai casi, poichè se il marito ha per buona sua moglie altri non deve lui quiescente turbare il matrimonio come ad una voce parlano tutti criminalisti. Nel caso presente ben lungi che il marito della rapita si serva di codesto diritto, ci protesta essergli di sommo dolore che si proceda, o che si renda clamoroso e pubblico il misfatto di sua moglie ch’ei stima prudenza di mettere in silenzio, e prega perciò che ogni ulterior processura si annulli, intendendo di riunirsi colla moglie, e perdonarle ogni suo trascorso, come dal docum. A. V.E può ravvisare.

[127v] Gl’istessi lodevoli sentimenti nutre la moglie dell’Inquisito supplicante Giovanna Ternati, la quale impetra che non si proceda più oltre in tal causa, e perdona alla rapita l’ingiuria che ha recato al suo foro maritale come dal docum. B.

Ecco adunque Eccellentissimo Signore ridonata la pace, e la concordia a due sventurati matrimonii che un vicendevole trasporto avea turbati. Quanto non sarebbe strano per avventura, che mentre si procede per vendicare la fede conjugale violata, l’officio del Giudice ne impedisse la riconciliazione, e ne turbasse la pace ?

Adunque confidato il supplicante nelle adotte osservazioni che umilmente sottopone alla superiore considerazione di V. E. alla sua equità fa umilissimo ricorso [128r] perché vengano ascoltate benignemente sì le proprie suppliche come quella del marito della pretesa rapita, e della propria moglie annullandosi ogni processura, ed imponendo ad essa un perpetuo silenzio. Che della grazia ecc.
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Documento 4. Difesa di Andrea Casirago – Archivio Verri, cartella 481.3, fascicolo di otto carte rilegato. Le note alfabetiche tra parentesi sono dell’Autore.

[2r]

Difesa in favore di Andrea Casirago

Innorridì Milano al primo udire che dal proprio Marito fosse stata un’innocente Moglie tolta in un punto da vita : ma dacchè in seguito intese ch’ella non fu con barbaro ed empio attentato uccisa, formò un più retto giudizio, e compassionò egualmente la morte della Moglie, che la stoltezza del Marito. Chi potrà mai dire darsi pena senza delitto, delitto senza dolosa colpa, nè dolosa colpa senza l’uso della ragione ? Quindi è ch’io non una causa intraprendo a patrocinare declamata, e compianta, ma una causa tutta degna, o Padri Conscritti, del vostro giudizio, della vostra equità, e della sapienza vostra. Imperciocchè fundatamente ricercato l’affare, scorgerete un delirante marito per una crudele gelosia, un uomo ubriaco, anzi che di supplicio, di compassione, e misericordia certamente degnissimo.

Io quì non m’arresterò, P. C. co’ Testimonj stessi, e cogli indicj dal Fisco prodotti a confutare le giuridiche eccezioni, e quell’obice lor porre, ch’io di leggieri potrei fare, e a voi medesimi avverrà di osservare. La mia difesa in ciò soltanto consiste, che non del fatto si tratti, ma sibbene se questo meriti punizione. Ecco l’unica meta, a cui tenderanno le mie investigazioni. Pel rimanente nè di affermarlo ho in pensiero, nè di rigettarlo.

Qualora si tratta di un insigne delitto è di consueto il ricercarsi quale sia stata la cagion del delitto, e con tanta maggior diligenza in ciò si procede, quanta meno è la di lui frequenza. Posciacchè sebbene così sieno gli uomini dalla corrutela della natura guasti, e sospinti, che sembrino piuttosto alli vizj inclinati, e proclivi, che alle virtù, non pertanto ridotti poi sono all’abjezione di essere di una spezie del tutto bestiale, onde sia comune, e frequente a’ Mortali il commettere ferocissime scelleragini.

Qual dunque vi fu cagione, per cui il difeso da inumano [2v] furore acciecato la sua onestissima Donna traffiggesse ? Per verità che non fa egli duopo con lunghi ricercamenti quelle cose investigare che notissime a tutti sono : ed appena io dubito che incontrisi alcuno del volgo di codesta Città, cui non sia palese essere sempre stato il nostro Difeso un solenne geloso, e da molt’anni a questa parte per tal cagione trasportato al furore. Qual’altra, se non questa, essere potrà mai del suo errore la cagione ? che li delitti più attroci, e fuor di modo eccessivi abbino l’origin loro da qualche delirio, e la ragione, e l’esperienza ancora lo insegnano.

Ora a dir vero se le contingenze prendiamo a considerare di questo luttuoso matrimonio, di leggieri verrà in chiaro che altri appena sia stato più dai gelosi sintomi agitato. Era la moglie del Casirago più che ad onestà si convenga deforme, e vecchia, onestissima pure, e preparata ad ogni atto di pietà, e di Religione, come dal Processo si comprova : ciò non pertanto non si potè mai contenere ch’egli non la sgridasse di bruttissima meretrice, di mezzana, e di strega ancora. Rimangono tuttavia sin dall’anno 1760 i rilievi de’ Processi contro il difeso formati, allorchè pure dalle furie agitato con un coltello ebbe la propria moglie percosso. Quì li delirj, quì dello sconvolto intelletto i fantasmi, quivi i ridicoli sogni (se egli è di così parlare in gravi cose permesso) di un animo impazzito, quì alla perfine i segni pure si possono facilmente rinvenire di una ferocissima gelosia(a). Tante deposizioni da’ stessissimi Testimonj Fiscali quì si producono a dar prova di sua pazzìa, che se ora tutte si dovessero di bel nuovo riferire, nulla meno sarebbe duopo che di rescriverne tutti per intiero i Processi. Rilasciato allora però dalle carceri il Difeso, attesa la remission della Parte, tantosto ritornò agli antichi delirj. Con insanissime querele così stancò gli Parochi sopra il bruttissimo vivere della moglie, che fu loro facile il comprenderne in lui un [3r] uomo pazzo(b). Nè la stoltezza del povero Difeso era incognita molto. Dieci testimonj degni di fede confermano col loro giuramento, che Andrea Casirago era pazzo di gelosia, avendo sempre dati tutti i segni di frenesia(c). Sin dagli anni 1761, e 63 crebbe ragionevolmente questa fama ; posciacchè a tal segno fu portato dalla gelosia il Difeso, che nell’anno parimenti 1763 tentò da se stesso con un laccio d’appiccarsi, siccome moltissimi Testimonj affermano, e giurano, e quegli medesimo attesta, il quale colle proprie mani trasselo da morto a vita, sciogliendo dal collo il laccio al Casirago vicino a morire(d). E chi non chiamerà un tal’uomo delirante, e furioso ?

Fra i tanti esempli di sua pazzia quest’altro ancora egli è noto. Altamente fissato teneva nell’animo uno stoltissimo supposto il Difeso, cioè che un certo Monaco, degno per altro d’ogni laude, il quale nè cotestui, nè sua Moglie non mai veduto aveva, macchinasse insidie al suo letto, ed al suo onore. Preso da questo delirio un certo giorno investì sulla pubblica strada quel Monaco, e sguainata la spada contro di quegli avventavasi, se non fosse stato gagliardamente trattenuto(e). Da chi si richiederanno più chiare dimostrazioni di furore in un pazzo ?

Le quali cose mentre così sono, non vi sarà certamente alcuno che con ragione dubitar possa, che già da molt’anni da quel genere di delirio fosse il nostro Difeso travagliato, il quale chiamano i Medici Melanconia, cioè tenacissimo delirio in qualche idea fissato, la quale perpetua, e insanabile finalmente si rende. Ciò siccom’egli è veramente con sufficiente chiarezza provato, rimane fuor d’ogni dubbio a carico del Fisco il provarne la guarigione. Avvegnacchè se fosse questione di un uomo stato finora di mente sana, e da quel poco tempo in quà divenuto pazzo, sarebbe debito allora del Protettore l’addurne le prove : ora parlandosi di colui che da molti, e successivi anni mostrò infiniti segni di pazzia, e la di cui perturbata fantasia è nota assai, restaci [3v] per ora solo a dimostrare se debba dirsi risanato, giusta il fondamento dell’intenzione del Fisco, come solidamente conferma il Mascardi(f). Imperciocchè la stoltezza di già fissa nel cervello appellar si deve lo stato naturale del Difeso. Egli è mestieri adunque dare a dividere ch’egli poco fa sia da tale stato sortito. Colui però che per sì lungo tempo fu dalla pazzia travagliato, principalmente dalla Melanconia, di cui il celeberrimo Van-Swieten così ragiona : Quanto sia male difficile la melanconia, tutta la sua storia il dimostra(g). Colui, dico, che da molt’anni fu dalla pazzia miseramente tormentato, si presume da’ Dottori che in essa piuttosto egli tuttora vi persista, e duri, anzi che risani(h). E questa certissima conclusione non si limita, se non quando di quella pazzia si parli, che è momentanea di sua natura, per esempio, del delirio della febbre(i). Se questa limitazione abbia luogo nel caso nostro, sufficientemente ad evidenza finora lo dimostrammo.

Questa presunzione da Medico-legali osservazioni fortificata darebbe giusta ragione al Protettore, quando tant’altre prove gli mancassero, di stabilire, che il delitto, di cui si tratta, attribuire del tutto si debba all’antica e tuttora durabile stoltezza. Se dovesse o abbracciare cotesta presunzione il Fisco, o provarne il contrario, che ora si dirà, che dal Processo, come chiamassi offensivo, in abbondanza scaturiscono gl’indizi della pazzia, anzi di questi pienamente ogni qualunque sua pagina ne sovrabbunda ? Fingimenti, favole, delirj qui ci si fanno avvanti per ogni dove talchè dubitare ragionevolmente non puossi di una manifesta stoltezza.

Conosciutosi per tanto dalle cose addotte finora qual fosse prima del delitto lo stato della mente del difeso, null’altro rimane, che per una direi liberalità di difesa, si comprenda quale ora egli sia. E perchè a questo giungere una più facile strada ci si prepari, fa di mestieri un po’ più d’alto la serie del fatto riandare : imperocchè dalla maniera, con cui fu commessa la morte [4r] della moglie, e dalle altre circostanze che accompagnano il fatto, si produrrano per ogni parte e si schiuderanno l’evidenze del furore.

Il Casirago nel giorno 4 del mese di Marzo dell’andante anno 1765 circa il mezzodì dalla Bottega, ove l’arte di tessitore esercitava, ritornossi a casa. Con piè veloce, quasi uomo dalle furie agitato fu veduto entrar nella Porta(k). Colà appena giunto, gettato il mantello, improvvisamente contro la moglie s’avventa, sguaina il coltello, la uccide. Furibondo quindi s’en fugge. Tutto questo è da lui fatto in un momento senza proferir parola, e come muto. Si reca poi nella chiesa di santo Steffano, in cui da’ Fanti è circondato colà dalla già divulgata fama del fatto accorsi, e da dove poscia in nome della Chiesa è levato. La guaina del funestissimo coltello nel bissaccino delle brache ancora teneva. Chi l’avrebbe mai conservata se non se un pazzo, e furioso ? Ivi interpellato da uno de’ Fanti con queste parole : disim un po’, com’ela stada d’ammazzà la vostra Dona ? Il difeso sul gusto di chi delira risponde : Per abbreviarla è meglio lasciarla lì(l) ; e questa insipida cantilena a chi che sia ripeteva che a lui interrogandolo s’apprestasse(m). Chi non vedrebbe in costui un uomo privo della ragione dalle perturbate idee, e dalle furie della pazzia informato ?

Ma oramai a’ di lui, come s’appellano, constituti facciam passaggio. Qual fosse l’ordine delle idee, quale il modo di ragionare, per quali gradi, e d’onde nasca la pazzia, cresca, e scoppj è di mestieri considerare.

Finoacchè sopra le generali cose, siccome è in uso, fu alla bella prima interrogato, accompagnò le interrogazioni con risposte non del tutto prive di buon senso, sebbene d’inutili ed importune digressioni tessute ed imbrogliate. Ma qualora si venne a qualche speciale circostanza, allora sì che cominciarono in un subito i fantasmi ad eccitarsi dei delirj, allora comparve in lui nunzia della prossima stoltezza, una tenace e lunga taciturnità. Il che è una costante prova addivenire ne’ stolti, i quali in tutte le altre cose agiscono e [4v] ragionatamente rispondono, e laddove delle questioni interrogati sono attinenti alla causa della loro stoltezza, sogliono immantinentemente alquanto ammutire, coprir la fronte e gli occhi di una tetra perturbazione, e presto presto cadere in delirio. E che così avvenuto sia egli è di fatto. Fu il Difeso richiesto sopra la di lui Moglie, e rispose, che mentre portato erasi in camera da letto la ritrovasse che malignemente insultava al suo onore : che faceva così (indicando egli colla man destra, elevato il secondo e quinto dito) mi faceva così le corna(n). Quindi incomincia apertamente a manifestare la di lui pazzia ; quindi sensibilmente schiundosi li semi della gelosia quanto più si tratta della di lui Moglie. Così è prodotta la confusione delle idee, così dai fantasmi l’intelletto si oscura, posciachè allora l’organo della pazzia è toccato e percosso. Chi non comprenderà qui appunto della stoltezza la cagione, e della uccisione della Donna in colui, che siccome per molt’anni di gelosia delirando, allora sorpreso da un impeto più feroce e grave di pazzia, parvegli la sua moglie aver ritrovata con ingiuriosi gesti disonorantelo, sogno capriccioso e falso ? Eccitato dappoi con nuove interrogazioni, non vi fu mai caso che siasi potuto indurre, sebbene da frequentissime redarguzioni sollecitato, ch’egli rettamente desse risposte, ed a un cert’ordine si riducesse il suo quà e la vagante raziocinio. Alla perfine dopo moltissimi delirj, da nessuna interrogazione smosso, e posto sul buono, in questi sensi prorrompe : Bisogna esaminare li vicini per li guai(o). Era questo discorso di un genere tale da non così intendersi facilmente. Esigendosi adunque da lui, che volesse con simili parole significare, ed istandosi perchè egli più chiaramente si spiegasse : I guai sono, che la mia donna si è tratta via, che mi ha fatto perdere l’onore. Bisogna cominciar da capo(p). Quindi a narrar proseguisce una favoletta degli amori di sua Moglie con un tal Giorgio : favoletta dico, dove nè piè, nè capo di discorso si può rinvenire.

Dopo che in simili inezie andò delirando, interrotto l’ordine de’ [5r] periodi, turbata e disgiunta la serie delle idee, soggiunse, ch’egli un giorno in compagnia di sua moglie al Tempio si trasferì dedicato alla Vergine presso S. Celso di codesta Città a pregar Dio, che a miglior costume di vita la disonestissima sua Donna riconducesse, e che ivi a lui medesimo così la consorte dicesse : Che si era confessata ; ma che il suo confessore gli aveva detto, che dimandasse licenza a me di fare la santissima ; ma mì ho risposto a mia Moglie, che mì non volevo fare questa cosa, perchè potevo fare un sacrilegio(q).

Non aspetti alcuno da me sopra cotali deliramenti un commento. Abbastanza essi fanno prova d’un uomo privo di senno. Continuamente dappoi impazzendo, delle laidezze della Moglie di bel nuovo si querela, ed asserisce, che avvicinandosi la Pasqua dal Paroco si portasse, e così a lui parlasse : Che veniva la Pasqua, e che non avrei fatta la santissima comunione, se non avesse trovato rimedio per mia Moglie(r). E che il vero sia che con queste fantastiche veleità i Parochi importunasse, vi sarà persuaso abbastanza, o P. C., qualora abbiate sott’occhio i di loro attestati, di mano propria di ciaschedun loro soscritti(s). Quanto poi altrove ne’ Processi trovasi scritto(t), egli è cotanto contro l’onesto decoro da lui proferito, che il qui riferirlo non sarebbe di convenienza, se l’ommetterlo non lo vietasse la necessità, siccome quella prova, che sempre più serve a dinotare un uomo impazzito. Dappoichè il misero Difeso l’impudenti favole ebbe narrato, acremente persiste a far querela della infedeltà di sua Moglie, che è il capo di sua pazzia, nè soffre ch’altri il distorni, e in diversa materia il conduca, onde dice : Che mi lasci finire quello che voglio dire(u). Tanto concessogli, i suoi stoltissimi sogni prosiegue : Volevo dire alla Giustizia, che detta mia Moglie m’incantava in letto, e così fosse la bugìa com’è la verità ; e quando la mi discantava, mi dava con una mano a traverso il collo, che mi faceva male, ed in quella stanza, dove stavamo di casa, vi era una camera dove si faveca magazzeno di donne per far male, e mia Moglie si trava via con della gente a far male, e mì era curato [5v] dapertutto, che non sapeva da qual parte voltarmi, ed ero svergognato da tutti(x). Quai sogni per verità, quai delirj a tutto ciò non aggiunse ? Quante poscia di cotesti imaginarj scandali, e oscenità querele a querele non accoppiò ? Di già la sua mente ribolle, ed in altissimo delirio è rapito, nè so chi possa quì esitare essere un uomo stoltissimo egualmente costui e infelicissimo. Trasportato quindi in diverse digressioni, non fu mai dato che la sua mente s’arrestasse, che tralasciasse i suoi vaneggianti discorsi ; nè redarguzione alcuna potè al proposito ridurlo ; ma già di nuovo si duole : Che mi lascino finire quello che voglio dire, altrimenti non rispondo più niente(y) ; e poco dopo : Bisogna lasciarmi seguitare quello che voglio dire. Egli è pertanto segno particolare della Melanconia lo star fisso, e perseverante con pertinacia in una fra tutte l’altre prescelta idea siccome il Ceto universale de’ Medici ne insegna. Quindi è che più fortemente pel tumulto de’ fantasmi ribollendo il cervello oltre modo pazzo rende il Casirago, che a raccontare s’avvanza essergli state da un cotal uomo un giorno ordite insidie, e tentato alla vita(z) ; e che fosse stato in una notte con arti magiche, e sortilegj dalla sua Moglie affascinato, e aver udita una sommessa voce all’orecchio dicentegli : Che aveva da essere ammazzato. Il cui mal augurio, soggiunse, ch’egli fu presso ad incontrare : e per la strada incontrai tre persone, che mi volevano ammazzare, ma però mi stavano lontane circa un mezzo miglio, che non è seguito niente(aa) ; il che facilmente crederà ciascheduno. Or quì per certo chi un uomo stoltissimo non ascolta ? Ecco però dove la sua melanconia consiste : credeva egli sua Moglie una laidissima Messalina, credevala una strega ; favoleggiava perciò essere stato con cento sortilegi e malie sorpreso, ed oppresso ; opinava finalmente che gli amanti di sua Moglie, de’ quali sognavasi una numerosa truppa tanto gli fossero offensivi, e persecutori, perché alla follia era geloso, che luogo più non gli rimanesse, ove dalle loro insidie scampare. Segue da frenetico a narrare i di lui pelegrinaggi, quando errante quà, e là per timore de’ sicarj, e [6r] degli Insidiatori fuggiva, e dice alla perfine, che trasferissi in Como, dove egualmente che in Milano era in pericolo di morte : Sono andato a Como, dove ho trovato gente, che mi curava, come facevano quì in Milano(bb). Non più, quant’esse fossero le redarguzioni, poterono sul retto sentiere rimettere il delirante. Non ode, non intende, ma fermissimo nella sua idea vaneggiando fissato, quì persiste, quì perpetuamente delira.

Molti altri delirj, fuori ancora della gelosa melanconia nell’accessione di sua stoltezza talvolta espone. Sceglierò fra i tanti questo solo esemplo. Se gli ricerca d’onde avesse avuta la guaina del coltello presso lui ritrovata, risponde che da uno de’ Figli del suo Padrone insiem col coltello l’avea comprata. Il Padrone è Gio. Brambilla, nella cui bottega finora l’arte fece di Tessitore. Ma in questo punto ancora dal suo delirio rapito soggiunge che il Padrone era già morto, e che fosse Gio. Gariboldi, ivi : Che siccome che un Figlio del mio Padrone, qual Figlio era Frate, che è morto suo Padre, che si chiamava Gianbattista Gariboldi(cc). Tralascio i parecchi altri esempli, per non divenir più prolisso : tanti delirj sono quante parole in queste tre Constituti, co’ quali vien terminato il Processo. Che se alcuno attentamente si farà a leggerli, gli sembrerà in verità di udire un uomo pazzissimo che parla. Io m’imagino, P. C. che dopo tutto ciò, non rimarrà più in Voi Sapientissimi ombra alcuna di dubbiezza intorno la pazzia del Casirago. E se giammai (il che credere appena lice) si presuma celarsi in costui qualche tratto d’astuzia, o di malizia : questo sospetto svanirà nell’istante che giunti siate a quelle pagine del Processo, dove il Difeso il coltello riconosce di sangue ancora lordo. Postogli sotto gli occhi quel coltello, tanto è lungi ch’egli nol riconosca, che anzi tosto soggiunge : adesso che vedo anche la lama (era prima questa stata tenuta sotto la carta coperta, e soltanto datogli il manico a vedere) attaccata al manico, lo vedo benissimo, ch’è quel coltello, che ho comperato… ed è quel coltello senz’altro(dd). Questo di buon grado confessa, quasi allegrandosi di aver la sua perduta cosa ritrovato. Se adunque vogliam dire quest’uomo così scaltrito [6v] che tanto sappi ingegnosamente simulare stoltezza, perchè tutto ad un punto così fatuo, così sciocco diviene, che giunge a confessare per suo con tanta alacrità di animo quel coltello rosseggiante di sangue ? Questo era il luogo di negare e negare costantemente, e di fingersi pazzo.

Ma posciacchè quasi un’anatomia, come chiamansi, de’ Constituti s’è fatta, e da cotesta segni apertissimi risultarono di pazzia, rimane adesso che del tutto si tolga, se alcun altra dubbiezza per avventura vi fosse.

Potrebbe forse darsi, che taluno in primo luogo l’objezione ci facesse, dal Processo ricavarsi, che pel lungo tempo, in cui l’arte di Tessitore esercitò il Difeso, giammai non abbi nella bottega, ove lavorava, dati segni di stoltezza(ee). Ma di quale rimarco sieno questi rilievi facilmente si possono comprendere, se richiamisi alla memoria quello che detto abbiamo dell’antica notorietà di sua pazzia. Veggiamo ciò che su questa materia stabiliscono i Professori di Medicina.

Fra tutti i generi dei delirj dissopra dimostrammo, P. C., esser notissimo l’annoverarsi quello ancora quando taluno in una sola spezie d’idee fantastico vaneggi, e in tutte l’altre ciò non pertanto appaja, anzi fornito sia di un’intera ragione(ff). Egli è a sufficienza provato che dalla gelosia questo male si produca, e però fra i delirj della mente annoverano i Medici la gelosa Melanconia(gg). Non così presto mi spedirei, se volessi tutti quanti produrre gli esempli, che sovra di tale argomento trovansi accennati. Il celebre Van Swieten ne’ suoi commentarj agli afforismi di Boerhaave così si spiega(hh) : Egli è un prognostico della melanconia che tali infermi in una sola ed istessissima idea pertinacemente fissati, circa questa, o quella opinione quasi sempre delirino soltanto, nelle altre cose tutte poi dimostrinsi di sana mente, e spessissimo di un acutissimo ingegno ; ed altrove(ii) : In tutto ciò poi, che non s’appartiene a quell’unico objetto, intorno a cui vanno pazzi, ragionano soventi volte con saviezza. L’autorità aggiungerò di Franscesco Boissier de’ Selvaggi Regio Professore nell’Università di Mompellier : Melanconici [7r] s’appellan coloro, che in un pensiere più che in altri rigardo a se stessi, o allo stato loro costantemente fissati, vaneggiano, di ogn’altra cosa favellano a proposito(kk). Parecchj furono però que’ che sorpresi, e afflitti dalla melanconia, deliranti s’imaginavano di aver le gambe di paglia, o la testa di ghiaccio, o di vetro formata, altri in vece di naso di avere una proposcide di elefante, altri credendosi di essere un vaso di terra temeano che i loro vicini li facessero in pezzi, e chi figurandosi divenuti un Gallo il canto, e il batter dell’ali tentavano d’imitare, ed altrettanti esempli, che da Galeno, Boerhaave, Van Swieten e Sauvages, dove trattano della melanconia, sono raccolti(ll) ; i quali pazzi in tutt’altro poi ottimamente ragionavano. Siami lecito un altro solo esempio riferire da Arateo cavato(mm). Eravi un Falegname, che in propria casa l’arte sua prudentemente esercitava, ivi gli operaj del suo mestiere patteggiava, ivi chiedeva con savio, e retto profitto la sua mercede ; ma non sì tosto sortiva da casa, che a sospirar cominciava, e ad affannarsi, e se più lontano recavasi, impazziva del tutto : se poi di volo alla sua bottega faceva ritorno, riacquistava il suo senno. Nulla pertanto farà meraviglia se tali sintomi accadessero ancora all’infelice Difeso.

Tanto è distante adunque, che questi particolari delirj in un fissato oggetto soltanto, siano sufficienti a indur sospetto di qualche dissimulazione, o di sotterfugio, che anzi egli è questa proprietà della melanconia, ed il suo evidentissimo segno ; il che bastantemente dimostrato, non più d’una cosa cotanto chiara farò parola.

Non intenderà forse ancor ben taluno ciò che le moltissime volte confessa il difeso intorno la debolezza di sua reminiscenza. Posto dalle interrogazioni alle strette, perchè egli dica in quale stato, e come la sua moglie lasciasse quando da lei fuggisse, sempre persiste di non saperne punto, di non sel ricordare. Abbiamo di già osservato, che di leggieri i Melanconici cadono in furore. Giova quì l’autorità riportare del celebre Offmanno : I Melanconici, dic’egli, tanto più se in essi il male siasi invecchiato, facilmente sono trasportati al furore, cessato il quale, di nuovo la melanconia comparisce, sebben dappoi ritorni per certi periodi [7v] il furore(nn). Quando però la mente da simile furore viene occupata, è da inevitabile necessità rapita, e spogliansi allora di tutta la ragione i Melanconici ; quindi addiviene, che neppure di quelle cose la memoria conservino, che operarono durante il loro delirio qualora acquistano il senno. Farebbe adunque meraviglia sorprendente se il Difeso si rammentasse di tutto quello che involontariamente fece, e privo della ragione, e ne conservasse chiara e distinta l’idea. Perturbato e confuso lo stato del cervello, se non sanno i furiosi che si faccino, ne segue che dappoi che ritornan sani possano sibbene intender dagli altri i lor fatti, e non saperli da se stessi, o se li sanno, una confusissima ne abbino, e come nelle tenebre involta ricordanza. Se qualche specie però ritengon eglino del loro operato, quella può essere solamente degli atti più prossimi al furore, non di quelli che operarono nell’accessione, e nella durazion del furore. Perlochè Elmonzio(oo) afferma d’aver egli esaminati i Furiosi, che ritornati in senno, ricordevoli erano dappoi abbastanza di tutto quello che loro accadde in que’ momenti, ne’ quali incominciavano ad infuriare : attestavano, che spogliavansi da prima di ogni raziocinio, e rimanevansi in una istantanea totale immersione di un sol concetto, fuori di cui aveano di nient’altro pensamento. Eccovi adunque quale specie di memoria si conservi da Furiosi, o nessuna, o confusissima affatto.

Aggiungasi al finora addotto, esser egli costante, che il Difeso soleva col vino i suoi tormenti e la sua tristezza assopire. Veniva a casa, dice uno de’ Testimonj Fiscali, quasi sempre ubriaco, perchè beveva assai alla bottega(pp). Onde non devesi non far conto di quanto spessissime volte egli afferma, che in quel giorno fosse ubriaco. Se pertanto già dal vino sopraffatto e confuso accendesi di geloso furore un uomo, quale potrà pur essere mai in lui l’uso della ragione, e quale degli atti voluntarj la libertà ? Alla vinolenza, scrive Seneca(qq) viene in seguito la crudeltà, avvegnacchè si danneggia, e s’inasprisce quindi la sanità della mente.

Potrebbe darsi che un altro rilievo qui taluno proponesse : cioè, che il Difeso qualche volta confessi esser egli tratto fuori dei limiti della ragione, come se realmente i pazzi cogli attuali segni questo loro infortunio possano dimostrare, ma non lo dire. Questa obiezione a dir vero non farà caso a quelli che sanno esservi moltissimi pazzi, che da se stessi conosconsi tali, e che sono stati, e che sono in furore rapiti. Dei Maniaci, ossiano Furiosi così discorre il mentovato Federico Offmanno(rr) : Quando il [8r] male è inclinato rimangon eglino stupidi, quieti, e mesti, e venuti pure in cognizione della malattia, s’attristano della loro calamità, e misera condizione.

Ma già m’avveggo, che in un affare tanto chiaro dubito a torto di tali Giudici, e della loro sapienza, e che ho preso a dimostrare con penosa fatica un fatto da per se stesso apertissimo ed evidente. Conciossiachè si è provato che da molt’anni in quà fosse solito il Difeso lasciarsi trasportare dalle furie della gelosia : se però di presente ancora la di lui perturbata mente hanno chiaramente i Processi dimostrato, che di più ci abbisogna di ricercare ? La gelosia diconla a ragione Mattheu, e Sanz trattando delle cose criminali una potentissima perturbazione dell’animo, e simile all’ubriachezza, ed al furore(ss) : chiamala Valentino Ludovico Vives(tt) una barbara perturbazione ; malattia dell’animo Cicerone(uu) ; veemente perturbazione e furore dell’animo Tiraquello(xx) ; e dal consenso universale de’ Filosofi s’insegna che la gelosia trasporta la volontà fuor dell’imperio della ragione. Or dunque di già s’è provato, e col fatto stesso di presente ad evvidenza si conferma che siasi un giudizio instituito sopra una involontaria, e materiale uccisione della Moglie.

Che se a Voi, Padri Sapientissimi, non un uomo delinquente e reo proponessi da giudicare, ma sibbene un infelice melanconico, e furibondo, qual crederete che ad esser abbia la pubblica tristezza, se questo misero Inquisito sarà condannato alla pena ? O qual esempio dappoi, quale riverenza alle leggi i Cittadini ricaveranno, se si punisca di morte uno stolto ? Qualora addiviene che un attroce delitto ascoltiamo, o veggiamo, in verità che a ragione siam nello sdegno, malediciamo il reo, la pubblica vendetta colle nostre imprecazioni, e le punitrici leggi affrettiamo : ma se alcun pazzo, se alcuno dà in gravi eccessi, e da furiose agitazioni sia sconvolto, e guidato, così siam lungi d’insorgere contro lui, e di accusarlo di reo, che anzi piuttosto da umanissimi interni moti commossi, per lui tutta ne rissentiamo la misericordia e la pietà. Se poi nell’imporre i castighi, e le pene a’ delinquenti devesi massimamente avere per fine il pubblico esemplo, e [8v] questo attendersi più che ogn’altra cosa(yy) ; in verità che il supplicio di un pazzo in ispettacolo solo si volgerebbe di tristezza, e mestizia, anzi che in un terrore proficuo, e salutare. Imperciocchè chi in istato di senno alle scelleragini dà mano, porge al peccare un funestissimo invito ; chi delirante, e stolto ne’ delitti incorre, non divien egli di delitto, ma un esempio di pazzia, che non mai alla pubblica disciplina potrà recar nocumento. E in vero non si puniscono i falli perchè commessi, ma perchè non se ne commettano in avvenire ; posciachè quel ch’è fatto, nè proibire si può, nè distruggere(zz).

Se certamente in questa causa, in cui alla giustizia vostra soltanto, P. C., si ricorre, duopo fosse la vostra misericordia, e la pietà vostra implorare, quanto mai questi teneri affetti dell’animo eccitar potrebbero i pianti, e le preghiere dell’innocente Figlia del mio Difeso ! È d’essa che a Voi molle tutta di lagrime, co’ più gravi affanni sul cuore, co’ sospiri sulle labbra in atto supplichevole stende le imbelle mani, ed esclama, che non vogliate a’ funerali accumular funerali, a morte aggiunger morte nè a distruggere concorriate un’intera Famiglia ! Perdetti, dolorosa dice l’innocente Fanciulla, la dolcissima madre perdetti, deh conservatemi un infelicissimo Padre vi priego. Ah se a me fosse permesso un testimonio prestarvi di tutto quello che io vidi operare dai furiosi moti di un animo dalla più barbara gelosia sconvolto, la vostra pietà riscuoterei, o giustissimi Padri, e non lo sdegno. Perdonate ad un Genitore il più infelice di tutti, a me del materno sangue aspersa ancora e tinta perdonate. Che più di tristo, che più di funesto mi potrebbe accadere giammai o quanto l’essere con perpetuo dolore a piangere costretta d’ambo i miei Genitori il mestissimo fato ! E così ecc.

Note de fin

1 Tra quelli figuravano Luigi Giusti, protettore di Pietro Verri, il Cancelliere Kaunitz, ed il ministro plenipotenziario Firmian.

2 Carlo Capra, « Riforme finanziarie e mutamento istituzionale nello Stato di Milano : gli anni sessanta del secolo XVIII », Rivista storica italiana, XCI, 1979, pp. 313-368.

3 L’Archivio Verri è conservato dalla Fondazione Mattioli per la storia del pensiero economico, oggi ospitata dall’Università degli Studi di Milano. Giorgio Panizza, Barbara Costa, L’Archivio Verri, Milano, Fondazione Raffaele Mattioli, 1997, 2 vol. ; Pierre Musitelli, « L’Archivio Verri. Réorganisation récente et perspectives éditoriales », Laboratoire italien, Lyon, ENS Éditions, n. 8, 2008, pp. 231-246.

4 Concepite al fine di formare lo spirito giuridico degli aspiranti giurisperiti, le Instituzioni (Institutes) compilavano una serie di definizioni e nozioni generali, accompagnate dalla menzione di antiche controversie. Alessandro Verri spiegava : « sono l’unico vero codice che noi abbiamo. Esse sono […] gli elementi del diritto preso per regole generali e senza far casi particolari. Vi si spiegano in massima e vi si danno in istile legislativo i principii onde decidere le questioni » (« Ragionamento sulle leggi civili », Il Caffè 1764-1766, Gianni Francioni e Sergio Romagnoli, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, vol. II, p. 573).

5 Elena Brambilla, « Il ‘sistema letterario’ di Milano : professioni nobili e professioni borghesi dall’età spagnola alle riforme teresiane », in Aldo de Maddalena, Ettore Rotelli e Gennaro Barbarisi, Economia, istituzioni, cultura in Lombardia nell’età di Maria Teresa, vol. III, Bologna, Il Mulino, 1982, p. 112.

6 Ivi, p. 113 : « Il giurisperito, dunque, si distingueva dal causidico perché affrontava e scioglieva quaestiones de jure e non de facto – teoriche e non pratiche – in qualsiasi veste professionale lo facesse : nella scuola o nel foro, come giudice o come avvocato ; e al causidico, come veniva vietato di stilare allegationes de jure per i clienti che rappresentava in giudizio, così era percluso l’accesso al collegio di rango superiore ».

7 Prima delle riforme avviate dal governo viennese negli anni 1760, la funzione di giurisperito era diventata una carica onorifica che concorreva soprattutto al prestigio aristocratico delle famiglie. Elena Brambilla, art. cit., p. 145 : « Come già, e più precocemente, i collegi dei fisici si erano in gran parte distaccati dall’esercizio professionale, per difendere solo i privilegi di abilitazione, così anche quelli dei giurisperiti perdevano sempre più la fisionomia di corpi di legali e giudici delle appellazioni, per assumere quella di mere sedi di concessioni dei titoli e di definizione del ceto patrizio di toga lunga – mentre la reale attività professionale si spostava ai ceti emergenti degli avvocati non collegiati e dei dottori causidici ».

8  Il Caffè 1764-1766, op. cit., t. II, p. 580.

9 Il ruolo dei Protettore e la storia della loro Società sono accuratamente documentati nello studio di Serafino Biffi, Sulle antiche carceri di Milano e del Ducato milanese, e sui sodalizj che vi assistevano i prigionieri ed i condannati a morte, Milano, Bernardoni, 1884, cap. III, pp. 121-251.

10 La Società dei Protettori era formata da cinque giureconsulti togati, cinque causidici o procuratori eletti dal loro collegio, e cinque nobili scelti dal Vicario di Provvisione : « quella carica da principio durava a vita, ma essendo troppo onerosa, venne dal Senato ridotta biennale, e le nomine erano così disposte che un anno escivano due di officio ; l’anno susseguente tre, surrogati da altrettanti. » (ivi, p. 199)

11 Il dazio riscosso dai custodi costituiva una vera e propria tassa d’ingresso in prigione.

12 S. BIFFI, op. cit., pp. 134-135.

13 S. Biffi, op. cit., p. 24 : « non è da meravigliarsi, se nella stessa Milano i Protettori che pure erano circondati di tanta estimazione, ripetutamente rinunciarono al loro ufficio nel quale riesciva impossibile fare il bene sia per le deplorevoli condizioni delle carceri, sia per le incessanti opposizioni mosse loro dal personale adetto alle medesime ; e il Vicario e il Consiglio di Provvisione dovettero talora supplicare Sua Maestà perchè eccitasse i Protettori a riprendere la loro carica, della quale non volevano più saperne per le vessazioni dei Giudici e de’ Notaj criminali. »

14 Il decreto del 14 agosto 1723 dell’imperatore Carlo VI imponeva di fornire il pane ai prigionieri indigenti. Questa misura mirava a compensare la diminuzione continua delle donazioni alle istituzioni carcerarie. Nel maggio 1767, un nuovo decreto di Maria Teresa ordinava di provvedere gratuitamente medicine ai prigionieri della Malastalla per arginare la propagazione di gravi malattie.

15 Pietro e Alessandro Verri, Viaggio a Parigi e Londra (1766-1767), a cura di Gianmarco Gaspari, Milano, Adelphi, 1980, lettera del 7 novembre 1766, p. 75.

16 Loredana Garlati Giugni, Inseguendo la verità. Processo penale e giustizia nel Ristretto della prattica criminale per lo stato di Milano, Milano Giuffrè, 1999, p. 215 : « Il Senato, e solo quest’organo onnipotente, aveva quell’autorità somma che consentiva di rendere esecutiva la sentenza pronunciata, o di riprovarla e di modificarne il contenuto, senza nessun altro controllo e nessun altra guida se non quella di un arbitrio esercitato, come dice il Ristretto, nei limiti fissati dalla ‘buona coscienza del giudice’ ».

17 Archivio Verri, cartella 481.2 : « Pro Joseph Tadeo » (cc. 16-21), « Pro Simeono Colombo et Matroniano Pelino » (cc. 77-8), e « Pro Joseph Caronno » (cc. 107-114). I primi due manoscritti comportano correzioni di mano di Alessandro Verri, come segnalato nell’inventario dettagliato dei manoscritti dell’Archivio Verri disponibile presso la Fondazione Mattioli.

18 Ivi, « Pro Jacobo Cebraro » (cc. 59-62).

19 Alfonso Longo (1738-1804) fu invitato nel gruppo dei « Pugni » nel 1763, prima di recarsi a Roma nell’ottobre 1765 per studiare diritto. Due anni dopo, tornò a Milano dove ottenne la cattedra di diritto pubblico ecclesiastico e, nel 1773, quella di economia pubblica prima detenuta da Cesare Beccaria. Carlo Antonio Vianello, L’abate Longo successore del Beccaria nella cattedra di economia pubblica, Archivio Storico Lombardo, 1937, pp. 513-527.

20 Archivio Verri, cartella 481.2 : « Pro Philippo Valerano » (cc. 28-33), « Pro Gaspare Mora et Joanne Antonio Rottino » (cc. 34-37), « Pro Eugenio Sassi, Petro Antonio de Marchis, Carolo Francisco Pelizzari, Augustino de Blanchis et Francisco Corlatto » (cc. 55-56), « Pro Joseph Reina » (cc. 63-64), « Pro Antonio Comesso » (cc. 65-68), « Pro Joseph Caresana » (cc. 69-76), « Pro Carolo Joseph a S. Augustino, et Domenico Conti » (cc. 103-104). Longo dispensa i suoi consigli ed invita il suo giovane collega a consegnare le proprie annotazioni in calce ai manoscritti. Un cortese dialogo prende spunto da un’iniziale ringraziamento di Alessandro Verri (c. 69r) : « Al mio grande Amico pace e salute. Eccovi le diffese debolissime di un grandissimo delitto. […] Datele un occhiata, rimandatemele così tra la premura mia, ed il vostro comodo ragionevole, e crediatemi un uomo che vi da mille fastidij, mille ringraziamenti e mille abbracciamenti d’amicizia ».

21 Si veda l’inventario dettagliato dell’Archivio Verri, conservato dalla Fondazione, a p. 4 : « manoscritto calligrafico, – con alcune sovrascritture (soprattutto correzioni sul ductus, rare nell’interlinea) – di mano di Cesare Beccaria (da controllare) ».

22 Per quanto riguarda le correzioni dei manoscritti del Dei Delitti e delle pene, si veda Giorgio Francioni, « Nota al testo », in Edizione nazionale delle opere di Cesare Beccaria, Milano, Mediobanca, 1984, vol. I, pp. 247-305.

23 Pietro Verri scriveva, nelle sue Memorie sincere, in data del 1° novembre 1765 : « Alessandro ha per le mani la Storia d’Italia, io i miei lavori economici politici, altri legge, Beccaria si annojava e annojava gli altri. Per disperazione mi chiese un tema, io gli suggerii questo, conoscendo che per un uomo eloquente e di immagini vivacissime era adattato appunto. Ma egli nulla sapeva dei nostri metodi criminali. Alessandro che fu il protettore dei carcerati gli promise assistenza. Cominciò il Beccaria a scrivere su de’ pezzi di carta staccati delle idee, lo secondammo con entusiasmo, lo fomentammo tanto che scrisse una gran folla d’idee ; il dopo pranzo si andava al passeggio, si parlava degli orrori della giurisprudenza criminale, s’entrava in disputa, in questione, e la sera egli scriveva […] » (Edizione nazionale delle opere di Pietro Verri, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2003, vol. V : Scritti di argomento autobiografico e familiare, pp. 138-139). Quest’affermazione viene confermata da Alessandro Verri in una lettera a Isidoro Bianchi, da Roma, il 16 aprile 1803, nella quale riassumeva le tappe fondamentali della stesura del Dei delitti, offrendo un quadro preciso degli studi comuni e della collaborazione tra i giovani scrittori negli appartamenti di suo fratello : « [...] Il Marchese Beccaria allora giovane non era conosciuto quanto meritava. Mio fratello Pietro gli proponeva sempre di prodursi con qualche opera di lettere, predicendogli gloria in tal carriera. Infatti pubblicò primieramente un opuscolo sulle Monete in occasione che si trattava dal governo una riforma in tale materia. Successivamente essendo io nella carica allora detta Prottetori dei carcerati, la quale era un esperimento che si faceva nella gioventù inclinata agli studi forensi, avveniva spesso che ragionassi di materie criminali, e che ne rilevassi la barbarie in quanto a me pareva de’ scrittori di quelle, e dei metodi anche nel giudicare, e processare. Al conte Pietro sembrò questo argomento degno della penna del suo amico Beccaria e gli propose di trattarlo. Il marchese Beccaria in fatti vi si accinse, e siccome al pari di tanti altri illustri ingegni, quanto era capace dell’opera, altrettanto ripugnava alla assiduità di comporla, così per ridurvelo passava tutte le sere nelle stanze medesime allora abitate da mio fratello, dovve io pure rimaneva studiando. Il Conte Pietro usciva per le sue incombenze ed io col marchese Beccaria passavamo studiando la sera. » (Citato in Cesare Beccaria, Dei Delitti e delle pene, nuov. ed. di Franco Venturi, Torino, Einaudi, 1994, pp. 124-125).

24 Cesare Beccaria, Dei Delitti e delle pene, op. cit., § VII, p. 23.

25 Ivi, § XI « Della tranquillità pubblica », p. 30 : « […] une pena veramente utile e necessaria, per la sicurezza e per il buon ordine della società ».

26 Difesa di Andrea Casirago (doc. 4, c. 8v), databile della primavera 1765

27 Ivi, § XII, p. 31.

28 Jean-Marie Carbasse, Histoire du droit pénal et de la justice criminelle, 2a ed., Paris, PUF, 2006, p. 281.

29 Loredana Garlati Giugni, op. cit., pp. 156-157.

30 Ivi, pp. 169-170

31 Ivi, p. 205 : « Nel caso di rei confessi all’avvocato non restava che sostenere che la confessione era stata estorta o non era sufficientemente circostanziata. […] I rei negativi non potevano che sperare in un’assoluzione che escludesse, per sempre, la loro colpevolezza. Il compito del difensore legale si riduceva, quindi, ad individuare le nullità, i vizi processuali, i difetti di forma che inficiavano eventualmente il lavoro del giudice inquirente ».

32 Si tratta dell’edizione detta di « Harlem », l’ultima corretta dall’autore. Sulle variazioni tra il testo di quest’edizione e quello della « vulgata », rimando a Gianni Francioni, « Nota al testo » : « La ‘quinta’ edizione e le testimonianze autografe », op. cit., pp. 292-304 ; e Luigi FirpoLe edizioni italiane del « Dei delitti », 7, ivi, pp. 444-466, e « Appendice » IV, ivi, pp. 367.

33 « Ho vergogna di avere scritto così », aggiungeva Beccaria in nota all’edizione del 1766, sottolineando l’importanza delle modifiche fatte al testo (n. 12 p. 86).

34 L’assenza di datazione della maggior parte delle difese di Alessandro Verri conservate in Archivio rende ipotetica l’identificazione di precisi rapporti d’influenza nel gruppo dei « Pugni ». Ricordiamo tuttavia, come afferma il Francioni, che « un lavoro totalmente autonomo e ‘solitario’ di Beccaria nell’estate del ‘65 è difficile da immaginare » (Edizione Nazionale, I, op. cit., p. 297) e che una lettera di Gian Rinaldo Carli a Giuseppe Gravisi attesta la partecipazione collettiva dei « Pugni » alla « recapitolazione » del testo beccariano nello stesso periodo (ivi, p. 292). Inoltre, Verri aveva già concluso la sua carriera di Protettore quando fu pubblicata la « quinta » edizione dell’opera di Beccaria, nel marzo 1766.

35 Cesare Beccaria, Dei Delitti e delle pene, op. cit., § xi, p. 31 e § xxxiv p. 86 nota 12.

36 La datazione è qui resa possibile dalla menzione, nel corpo della difesa, della data del delitto : il 3 marzo 1765.

37 Italo Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, Giappichelli Editore, 2002, p. 453 n. Le istituzioni giuridiche dell’Europa feudale praticavano « il diritto ‘di categoria’ » (Adriano Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa. le fonti e il pensiero giuridico, Milano, Giuffrè, 1979, p 219), instaurando un’infinita diversità di statuti – a seconda dei territori, delle classi e dei gruppi sociali – che annullavano l’equità degli individui di fronte alla legge penale. La malleabilità del diritto nelle mani dei giudici rendeva di fatto impossibile l’esistenza di ogni forma di certezza legale.

38 Michel Foucault, Surveiller et punir, Paris, Gallimard, 1975, I, 2, pp. 41-83.

39 Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, op. cit., § XXVII « Dolcezza delle pene », pp. 59-61. Alla base dell’utilitarismo beccariano, il cui scopo era anche di conferire al sistema penale una maggiore efficienza, si trovavano i concetti di proporzione tra il delitto e la pena, di rapidità delle procedure penali e d’inflessibilità delle leggi in caso di condanna. Le riforme propugnate dal Dei Delitti miravano a por fine a pratiche e carenze caratteristiche della giustizia criminale di antico regime. Rinvio a quanto ne dice Italo BIROCCHI, op. cit., p. 453 n. : « Gli ordinamenti penali allora vigenti erano tanto efferati nella contemplazione delle pene e disordinati nella mancanza di proporzione quanto inefficaci nel mettere a freno i comportamenti delinquenziali : i meccanismi di quel sistema lasciavano, così, campo aperto alla speranza di impunita e di fatto toglievano efficacia ai profili dissuasivi insiti nella ferocia delle pene ».

40 Ricusando di fondare il calcolo delle pene sulla sola intenzionalità del delitto, Beccaria avea genericamente incluso la presa in conto della « disposizione della mente » del criminale nel calcolo complessivo del danno fatto alla società.

41 Rimando a Arlette Lebigre, Quelques aspects de la responsabilité pénale en droit romain classique, Paris, PUF, 1967, p. 32.

42 Ivi., p 40 : « [À Ulpien] revient le mérite d’avoir dégagé clairement la notion d’irresponsabilité pénale du furiosus délinquant, en la fondant sur l’absence de compréhension de ses actes qui caractérise le malade mental ». Nei secoli successivi, il diritto penale germanico abolì questa distinzione e ristabilì la responsabilità penale dei pazzi.

43 Verri definiva Casirago « un uomo […] di compassione, e misericordia certamente degnissimo » (c. 2r)

44 Verri dipingeva in questi termini l’emergere di un accesso di follia paranoica in Casirago : « […] sensibilmente schiudonsi li semi della gelosia quanto più si tratta della di lui moglie. Così è prodotta la confusione delle idee, così dai fantasmi l’intelletto si oscura, posciachè allora l’organo della pazzia è toccato e percosso » (c. 4v). Dettaglia anche il processo di oscuramento della consapevolezza, che porta il delinquente a perdere la memoria del suo gesto : « spoliavansi da prima di ogni raziocinio, e rimanevansi in una istantanea totale immersione di un sol concetto, fuori di cui aveano di nient’altro pensamento. Eccovi adunque quale specie di memoria si conservi da furiosi, o nessuna, o confusissima affatto. » (c. 7v).

45 Evoca pure la « stoltezza di già fissa nel cervello » (c. 3v) del suo cliente. « Egli è pertanto segno particolare della Melanconia lo star fisso, e perseverante con pertinacia in una fra tutte l’altre prescelta idea siccome il ceto universale de’ Medici ne insegna » (c. 5v) ; « fermissimo nella sua idea vaneggiando fissato, quì persiste, quì perpetuamente delira » (c. 6r). Infine, Verri definisce per concludere il male di Casirago in questi termini : « Quando taluno in una sola spezie d’idee fantastico vaneggi, e in tutte l’altre ciò non pertanto appaja, anzi fornito sia di un’intera ragione » (c. 6v). Questi sintomi si uniscono, nel caso di Casirago, a delle allucinazioni uditive e ad un delirio paranoico di persecuzione : « Opinava finalmente che gli amanti di sua moglie, de’ quali sognavasi una numerosa truppa tanto gli fossero offensivi, e persecutori, perché alla follia era geloso, che luogo più non gli rimanesse, ove dalle loro insidie scampare. Segue da frenetico a narrare i di lui pelegrinaggi, quando errante quà e là per timore de’ sicarj, e degli insidiatori fuggiva, e dice alla perfine, che trasferissi in Como, dove egualmente che in Milano era in pericolo di morte » (cc. 5v-6r).

46 Ivi, c. 3v : « per sì lungo tempo fu dalla pazzia travagliato, principalmente dalla Melanconia, di cui il celeberrimo Van Swieten così ragiona : Quanto sia male difficile la melanconia, tutta la sua storia il dimostra ». Un’altra occorrenza del nome di Van Swieten si trova nel Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, in una lettera di Pietro Verri, in data del 26 novembre 1766, dedicata al « fuga » improvvisa di Beccaria da Parigi : « Il male suo è fisico come la febbre, e ne parla Wansvietten nelle sue Malattie delle Armate : si chiama il mal del paese, e vi sono de’ morti di questo male, cioè d’una profonda melanconia che logora le forze vitali e termina in consunzione, con forte passione di ritornare alla Patria » (Viaggio a Parigi e Londra, op. cit., pp. 89-90). L’edizione parigina del 1761 della Description abrégée des maladies qui règnent le plus communément dans les armées di Van Swieten era stata ampiamente diffusa in Italia.

47 Alessandro Verri, nelle sue difese, non segue la via aperta da Beccaria e non rimette in discussione il principio stesso delle esecuzioni pubbliche, stimandole legittime per i delitti premeditati, nel senso in cui ispirano « un terrore proficuo, e salutare » (c. 8r).

48 Saggio sulla storia d’Italia, a cura di B. Scalvini, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2003, cap. XX, p. 204 (« La monaca Maifreda e un tale Andrea damarino che fomentava queste follie furono abbruciati ; rimedio troppo violento per le melanconie. A’ dì nostri una tal donna sarebbe caritatevolmente consegnata a’ medici ») e cap. XXXV, pp. 310-311.

49 L’articolo 64 instaurava una rigorosa distinzione tra i pazzi e i criminali : « Non esiste né crimine né delitto allorché l’imputato trovavasi in stato di demenza al momento dell’azione, ovvero vi fu costretto da una forza alla quale non poté resistere. »

50 In Francia, la « question intentionnelle », che indagava le circostanzi morali del delitto, era stata introdotta nei tribunali con la Loi de police di settembre 1791. Si veda Alessandro Fontana, « Il vizio occulto. Nascita dell'instruttoria », dans Il vizio occulto, Ancona : Transeuropa, 1989, pp. 54 : « Quanto all’intenzione, cioè alle considerazioni di ‘moralità’, la giuria ne sollevava pubblicamente la questione e ne dibatteva liberamente in uno spazio nuovo in cui, alla vecchia concezione della pura materialità dei fatti, era destinata ad insinuarsi, di lì a poco, la scienza nuova della psicologia e dell’alienistica criminale. Comunque sia, si ingiungeva ai giurati, in una celebre dichiarazione, di considerare non tanto le prove formali (nella vecchia procedura per condannare bastavano due testimonianze a carico, anche se il giudice fosse stato convinto in coscienza o personalmente a conoscenza della verità), ma di decidere in base all’intima convinzione e en âme et conscience. » Sull’evoluzione della giustizia moderna rimando anche a Michel Foucault, Surveiller et punir, op. cit., p. 27 : « Tout un ensemble de jugements appréciatifs, diagnostiques, pronostiques, normatifs, concernant l’individu criminel sont venus se loger dans l’armature du jugement pénal ».

51 Per quanto fossero remote le rivendicazioni medicali in materia di giustizia penale, la procedura autorizzava solo in rari casi il ricorso ad un ausiliare specializzato, fino alla fine del ‘700. Il giudice si riteneva capace di distinguere solo, e secondo il buon senso, la follia dalla normalità. In queste condizioni, l’assoluzione dei criminali per causa di alienazione mentale rimaneva del tutto eccezionale, e circoscritto ai casi più evidenti di demenza. I tribunali rifiutarono a lungo, anche nell’800, di riconoscere la legittimità delle nuove scienze mediche, nonostante la follia fosse diventata oggetto di studi scientifici.

52 Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, op. cit., § VII, « Errori nella misura delle pene » : « Le precedenti riflessioni mi danno il diritto di asserire che l’unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione, e però errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l’intenzione di chi gli commette. Questa dipende dalla impressione attuale degli oggetti e dalla precedente disposizione della mente: esse variano in tutti gli uomini e in ciascun uomo, colla velocissima successione delle idee, delle passioni e delle circostanze. Sarebbe dunque necessario formare non solo un codice particolare per ciascun cittadino, ma una nuova legge ad ogni delitto. Qualche volta gli uomini colla migliore intenzione fanno il maggior male alla società; e alcune altre volte colla più cattiva volontà ne fanno il maggior bene. »

53 Questo punto verrà chiarito, dopo gli attacchi del Facchinei contro Beccaria nel 1765, nella Risposta ad uno scritto, che s’intitola Note, ed osservazioni sul libro Dei delitti e delle pene, composta da Pietro e Alessandro Verri in suo soccorso (s. d., ma Lugano, Agnelli, 1765). Si veda il § « Accusa undicesima », p. 20 : « Mi si dirà, che un Pazzo può fare un Omicidio quanto un’altr’Uomo, eppure non sarà punito quanto un’altr’Uomo. L’accordo : ma ciò non perché sia diversa in ambi l’intenzione, e la malizia, ma perché fa minor danno alla Società il Matto che il Sano, poiché questo insegna a far dei delitti, e quegli non dà altro esempio, che di crudeli pazzie. Uno eccita lo sdegno, e l’idea d’un massacro ; l’atro eccita l’idea della compassione nel Pubblico. Però sempre vale il Teorema, che anche in questo caso è il danno fatto alla Società che misura le pene, non l’intenzione ». Per quanto riguarda la polemica tra Beccaria, i Verri e Facchinei, rimando a Gian Paolo Massetto, « Pietro e Alessandro Verri in aiuto di Beccaria : la risposta alle ‘Note’ di Facchinei, in Carlo Capra, Pietro Verri e il suo tempo, Bologna, Cisalpino, 1999, vol. 1, pp. 289-351, e Paolo Preto, voce « Facchinei, Ferdinando », in Dizionario bibliografico degli Italiani, XLIV, Roma, Treccani, 1994, pp. 29-31.

54 Da quanto Verri stesso affermerà qualche anno dopo, in una lettera a suo fratello, nel 1771, sembra che l’avvocato godesse di un certo prestigio nel suo ambiente : « Ho avuta meno occasione di te di essere malcontento de’ miei patriotti, perché in tempo delle difese de’ rei ho ottenuta una piccola considerazione, ma superiore di molto a quelle mediocri apologie » (Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri, a cura di Francesco Novati, Emanuele Greppi e Antonio Giulini, Milano, Cogliati, 1919, vol. IV, lettera del 9 novembre 1771, p. 277).

( a) Lib. PPP. 1760. Veggansi segnature fol. 38 e seg. ; fol. 48 e seg. ; fol. 61 e seg. ; fol. 69 e seg. ; fol. 78 e seg.

( b) Documento segnato A ; ed altro B.

( c) Documento segnato C.

( d) Detto documento C. ed altro A., e B.

( e) Documento segnato D.

( f) De probat. concl. 824. vol. 2. n. 11., e seg.

( g) Ne’ Commentarj agli afforismi di Boerhaave De Melancholia. Aggiungasi Federico Offmanno Medicinae rationalis systematicae tom. 4. capit. 8. De delirio melancholico §. 30.

( h) Mascardi nella susseg.te conclus. 825. e Zacchia Quaest. Medico-legal. Lib. 2. tit. 1. quest. 23. per tutta.

( i) Detto Mascardi, e Zacchia nel med.mo luogo.

( k) Proces. vol. 1. fol. 46.

( l) Process. lib. 1. fol. 28, e fol. 56. dall’altra parte.

( m) Process. lib. 1. fol. 30 dall’altra parte.

( n) Process. vol. 1. fol. 79.

( o) Process. lib. 2 fol. 3 dalla parte opposta.

( p) Nel med.mo fol. 4.

( q) Process. lib. 2. fol. 10. dalla parte opposta.

( r) Process. libro med.mo fol. 17.

( s) Documenti segnati A. B.

( t) Process. fol. 12. lib. 11.

( u) Process. lib. 2. fol. 14.

( x) Process. lib. 2. fol. 14. e 15.

( y) Lib. 2. Process. fol. 19.

( z) Detto libro fol. 22.

( aa) Detto libro, fol. 21. e 22.

( bb) Process. lib. 2. fol. 22.

( cc) Process. lib. 2. fol. 40.

( dd) Process. lib. 2. fol. 40. dalla parte opposta.

( ee) Process. lib. 1. fol. 25.

( ff) Zacchia Quest. medico-legal. tom. 1. lib. 2. tit. 2. quest. 3. n. 20.

( gg) Federico [sic] Boissier de Sauvages, Nosologia metodica, p. 615, ediz. di Venezia, 1764.

( hh) Della Melanconia, tom. 3.

( ii) Med.mo luogo, §. 1094.

( kk) Sauvages, Nosologia metodica, dove parla della melanconia.

( ll) Van-Swieten ne’ Commentarj a Boerhaave della melanconia §. 1113. Sauvages nel d.to luogo ecc.

( mm) Van-Swieten della melanconia come sopra §. 1094.

( nn) Federico Offmanno Medicina razionale sistematica, tom. 4. cap. 8. § 1.

( oo) Capo Demens idea, pag. 226. § 39.

( pp) Process. lib. 1. fol. 14.

( qq) Epist. 83.

( rr) Medicina razionale sistematica, tom. 4. capo. 8. §. 3.

( ss) Controvers. 23. n. 3.

( tt) De Foemin Christian. Lib. 2. tom. 2.

( uu) Tuscul. lib. 4.

( xx) Delle leggi connubbiali, leg. 16. n. 8.

( yy) Grozio De juris bell. et pac. lib. 2. cap. 20. § 19.

( zz) Grozio nel citato luogo.

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Référence électronique

Pierre Musitelli, « I manoscritti inediti di Alessandro Verri, Protettore dei carcerati (1763-1765) », Line@editoriale [En ligne], 2 | 2010, mis en ligne le 09 février 2017, consulté le 02 mai 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/176

Auteur

Pierre Musitelli

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