Dubbi, conflitti e generazioni

Intervista a Giulia Lombezzi

Résumés

Il testo è un’intervista dell’autrice Giulia Lombezzi a proposito delle sue opere teatrali.

The text is an interview with author Giulia Lombezzi about her plays.

Index

Keywords

theater, Lombezzi, interview

Parole chiave

teatro, Lombezzi, intervista

Rubriques

Teatro e crisi

Texte

Conversazione con Giulia Lombezzi, autrice di Le conseguenze del surriscaldamento globale, un corto teatrale messo in scena dalla compagnia universitaria « I Chiassosi » per la regia di Jean-Claude Bastos, nell’ambito del festival studentesco « Universcènes 2022 » e prossimamente pubblicato nella collana Nouvelles Scènes-italien presso le PUM. L’intervista è stata organizzata in occasione della presentazione della pièce in italiano e della sua versione radiofonica in francese.

La discussione era condotta da Giulia Benedetti e Martina Petrucci.

Autrice e regista teatrale, Giulia Lombezzi nasce a Milano nel 1987. I suoi testi sono stati messi ins cena dal Piccolo Teatro Studio al Teatro Litta, dal TeatroDue di Parma al Grotowsky Institut diBreslavia, fino all’Iranshahr Playhouse di Teheran. La sostanza instabile, il suo primo romanzo, finalista al premio Calvino 2020, viene edito nel 2021 da Giulio Perrone Editore. Dal 2021 insegna drammaturgia presso La Compagnia dei Giovani del Teatro Franco Parenti e insegna scrittura creativa in NABA.

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Martina & Giulia : Quest’anno abbiamo avuto l’opportunità di assistere alla sua opera teatrale Le conseguenze del surriscaldamento globale, presentata in occasione del festival studentesco Universcènes, alla Fabrique dell’université Toulouse Jean-Jaurès. L’esperienza dello spettacolo ci ha condotte in seguito a leggere altri due suoi testi, L’uomo palloncino e L’albero.

Oltre alla forte componente di attualità de Le conseguenze del surriscaldamento globale lei racconta storie molto diverse dal mestiere di animatore in L’uomo palloncino e al tema della vecchiaia affrontato in L’albero. Da cosa nasce la volontà di mettere in scena delle tematiche così diverse tra loro ?

Giulia Lombezzi : La stesura di un testo parte sempre da quelle che sono i miei conflitti interni. Per quanto riguarda Le conseguenze del surriscaldamento globale, ad esempio, ho ripartito ed esagerato nei tre personaggi le dinamiche contrastanti che provo io, personalmente, a riguardo del climate change: un senso di colpa misto a impotenza, come Renato, un estremo desiderio di non pensarci, come Carla, ma anche una grandissima sofferenza, come Olivia.

L’albero è nato perché ho vissuto in prima persona, nella mia famiglia, l’esperienza di caregiving di una persona anziana e avevo bisogno di raccontare cosa significa voler molto bene a qualcuno ma non riuscire a viverci accanto.

L’uomo palloncino è nato perché nell’estate del 2014 ho lavorato come GO al Club Mediterranée e poco dopo ho letto Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace. Le due cose, mescolate, mi sono esplose in testa e allora ho scritto. È il monologo che ho buttato giù con più velocità e meno correzioni, mi è sgorgato fuori dalla mano il personaggio di Émile in meno di un mese. Quel che volevo sondare è l’infelicità tragicomica di chi deve rendere felici gli altri, e quanto le persone regrediscono quando fruiscono di una vacanza.

Ogni volta quindi che un paradosso sfiora la mia vita provo a trasformarlo in una pièce; non scrivo mai in maniera direttamente autobiografica perché preferisco trasporre i fatti e affidarli a personaggi immaginari, questo mi permette di dar più aria alla narrazione e di renderla cosa di tutti, e non solo mia.

Leggendo le tre pièces, ci è sembrato di scorgere una scrittura impegnata, che crea un forte impatto con la società contemporanea, la quale sembra non poter offrire nessun tipo di certezza. Questa scrittura si serve dell’ironia tagliente come in Le conseguenze del surriscaldamento globale, dove forse si nasconde una vena pessimistica, ma anche del grottesco, dietro al quale si può indovinare un probabile fine sociopolitico.

Quello che spero di poter affermare è che Le conseguenze del surriscaldamento globale ha un risultato socio-politico, sicuramente non c’era un fine socio-politico quando ho cominciato a scriverlo, l’ho scritto semplicemente perché mi vergognavo di non fare abbastanza per contrastare il cambiamento climatico. Non c’è mai quel che potrei definire un “fine” in nessuno dei miei lavori, all’inizio. Quando ho terminato di comporli sento emergere, com’è ovvio, delle tematiche, ma il primo scopo è sempre e solo raccontare una storia, senza pensare al messaggio che trasmette.

Credo che solo così si possa scrivere in maniera pura, priva di intenti etici e morali, intenti encomiabili nella vita ma che se trasferiti sulla scrittura inevitabilmente la appiattiscono e la banalizzano.

Sono storie inquiete e prive di happy ending, le mie, perché a mio parere il lieto fine è una presa in giro nei confronti del lettore, non l’ho mai apprezzato particolarmente nel lavoro altrui e sicuramente non saprei inserirlo nel mio. Racconto un mondo randomico e deludente dove, come dice Emanuele Trevi, “l’infelicità si mette sempre un’altra maschera”.

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Una domanda di tipo stilistico: il teatro contemporaneo è caratterizzato da un numero ridotto di personaggi; la scelta di economizzare le figure teatrali è dettata da questa tendenza o se deriva da ragioni drammaturgiche ? Infatti, ci sembra che, attraverso i suoi personaggi, che solitamente oscillano da uno a tre, si strutturi un dibattito nel quale è possibile adottare vari punti di vista di fronte alla questione di volta in volta presa in oggetto. Questo è un modo per lei di suscitare un determinato tipo di reazione nel pubblico?

Effettivamente i miei lavori raramente superano i quattro personaggi, e questa domanda mi fa riflettere. Mi piacerebbe tantissimo poter scrivere per un coro o una grande moltitudine, ma probabilmente c’è una parte di me che si autolimita, e del resto anche i lavori che mi vengono commissionati sono sempre per pochi interpreti, perché così si ha la speranza che siano più vendibili. Sad but true.

Per quanto riguarda la dinamica fra i personaggi quello che spero quando scrivo, e vale sia per la drammaturgia che per la narrativa, è che il pubblico non riesca a dar ragione fino in fondo a nessuno.

Per me una storia è bella quando identificare buoni e cattivi diventa difficile, impossibile e forse anche inutile. Mi hanno insegnato infatti che anche i personaggi “negativi” hanno le loro ragioni e più lo scrittore è capace di difenderle più la dinamica diventa avvincente. Da Riccardo III a Cersei Lannister, da Iago a Joker, una parte di noi sta con loro, perché loro contengono una parte di noi.

Abbiamo notato che la sua forma di scrittura teatrale si nutre in particolar modo del monologo in tutte e tre le opere citate poco fa. Questa tecnica narrativa, da cui emerge il flusso di coscienza e la possibilità di far dialogare i pensieri con le parole, accompagna lo spettatore in un vero e proprio viaggio, in cui le immagini prodotte dalla mente sono integrate al testo e vengono recitate dagli attori. Pensiamo in particolar modo ai lunghi soliloqui di Olivia ne Le Conseguenze. La scelta del monologo potrebbe dunque essere collegata al fatto che la sua scrittura tende alla narrazione? Facciamo riferimento anche alla pubblicazione del suo romanzo Sostanza instabile.

Sicuramente la scelta del monologo è collegata al mio amore per la narrazione immediata e non filtrata. Anche da spettatrice adoro il teatro di narrazione, l’istante in cui una persona su un palco, sola, riesce a evocare infiniti multiversi, da Baliani a Paolini, da Curino a Caubère.

Passare poi dal monologo al racconto, quindi a una forma meno teatrale e più letteraria, è stato abbastanza inevitabile per me, perché la narrativa, rispetto alla drammaturgia, ha il vantaggio che ci si può servire di infinite location e infiniti personaggi, figuranti e comparse senza preoccuparsi dei costi di produzione. Sono due formae mentis abbastanza distinte quelle che metto in gioco quando scrivo libri e quando scrivo teatro, e in ognuna trovo differenti libertà.

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Per quanto riguarda L’uomo palloncino, vorremmo soffermarci sul concetto di industria del divertimento: cosa significa per lei e in che modo il miniclub diviene mini-teatro?

In questa opera spesso la forma del testo concorre a trasmettere l’esasperazione provata dal personaggio principale. Questo effetto di esagerazione vuole spingere il lettore solo a divertirsi o anche a calarsi nel profondo stato di tensione e di ansia provato dal protagonista? 

L’uomo palloncino racconta cosa vuol dire essere uno strumento per soddisfare gli altri, una sorta di erogatore automatico di allegria; quindi racconta quanto ci si possa sentire schiacciati e spremuti dall’industria del divertimento, da un mondo che ti chiede di essere sorridente 24 ore su 24, salutare chiunque incontri in qualsiasi momento della giornata e avere a che fare con dei bambini che non si possono rimproverare mai, se non in maniera molto velata e cameratesca, e che magari sono viziati, villani e sadici. L’industria del divertimento, per l’esperienza limitata che ho avuto al suo interno, è un microcosmo estremamente alienante ma anche molto stimolante, all’interno del quale si possono creare delle belle alleanze; senza dubbio, però, tutte le figure che ho incontrato al villaggio subivano orari che andavano molto al di fuori da quelli previsti nel contratto, e mi sono chiesta qual è il limite tra un buon gioco di squadra e uno sfruttamento.

Quando lo spettacolo va in scena, l’attore si rivolge al pubblico proprio come se fossero i clienti di questo villaggio, e l’effetto che si crea è molto gustoso perché il pubblico si sente chiamato a partecipare a questa festa, che piano piano diventa un rito sacrificale. Quindi sì, sicuramente per me è importante che la pièce trasmetta tutta l’ansia possibile, ma filtrata da una linea comica molto solida.

Per quanto riguarda la pièce L’albero, qual è per lei il ruolo del flashback?

La protagonista Anna, che soffre di demenza generativa, sembra vivere in uno smarrimento continuo. Allo stesso tempo, abbiamo l’impressione che nel ricordo riesca a ritrovarsi e a riconoscersi. È per questo motivo che i flashback non interrompono lo sviluppo della scena e si mescolano con il presente?

È esattamente per questo, non c’è più un senso di cronologia comunemente accettato nella testa di Anna, quindi gli altri personaggi sono tante altre persone tutte insieme, per lei, e passato e presente convivono. È molto interessante il gioco che si è creato tra Anna e Marcella, la figlia che si trova a manifestare preoccupazioni materne nei confronti di sua madre, che sembra invece aver assunto comportamenti infantili. Uno scambio che intensifica maggiormente la sensazione di caos derivata dal tempo passato-presente, ma anche dalla frattura della quarta parete, che avviene nel momento in cui la protagonista si rivolge direttamente al pubblico.

L’albero fa emergere un tema delicato: la condizione degli anziani nelle case di riposo. Anna sembrerebbe preferire la morte alla vita in quel luogo. Inoltre, il personaggio di Marcella risulta quasi antipatico, egoista, nel suo intento di tenere la madre in vita ad ogni costo.

La riconciliazione della madre con la figlia e il senso di pace nel finale suggeriscono che la pièce possa concludersi con la morte di Anna?

Sì, alla fine Anna muore e la pace arriva anche per sua figlia, che sicuramente risulta sgradevole all’inizio ma che poi nel corso del testo ha varie occasioni per raccontare il proprio punto di vista, quello di qualcuno che è rimasto solo con una persona improvvisamente estranea, che si mette continuamente in pericolo. Marcella, sebbene risulti difficile da digerire, è il personaggio con cui mi identifico di più, quella a cui voglio più bene proprio perché è quella che col pubblico va meno d’accordo, chiamata a compiere un ruolo difficilissimo. E del resto, a parte situazioni estreme, chi non vorrebbe tenere in vita la propria madre?

Non abbiamo potuto fare a meno di notare un certo interesse, in tutte le pièces, per il rapporto che si può creare tra le diverse generazioni.

Mi viene da ridere a questa domanda, perché ho appena avuto una discussione telefonica abbastanza accesa con mia madre sul valore della musica di Fedez, che poi è virata sul pop e sulla relatività artistica in generale.

Avere 30 anni è molto interessante (e faticoso), perché mi capita di lavorare con dei preadolescenti che si scandalizzano se non conosco il termine spottare, e poi mi capita l’attrice cinquantenne che sostiene che io sia “troppo giovane per scrivere una pièce sulla maternità” (Spoiler: l’ho smentita).

Credo che dovrebbero esserci molta più fiducia e ascolto tra le generazioni. In particolare le generazioni mature dovrebbero guardare con più curiosità e meno preconcetti alle più giovani, senza erigere delle stramaledette barriere anagrafiche, senza decidere a priori che i Rolling Stones sono meglio di Madame, che Freddie Mercury è più rivoluzionario di Mahmood solo perché si tratta della loro musica, e non di quella dei loro figli e nipoti.

Illustrations

Citer cet article

Référence électronique

Giulia Benedetti et Martina Petrucci, « Dubbi, conflitti e generazioni », Line@editoriale [En ligne], 13 | 2021, mis en ligne le 09 mars 2023, consulté le 19 avril 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/1566

Auteurs

Giulia Benedetti

Martina Petrucci

Il Laboratorio EA4590

martina.petrucci@univ-tlse2.fr

giulia.benedetti@etu.univ-tlse2.fr