Un clown nell’Italia in crisi

Il teatro di Andrea Cosentino

Résumés

Ad Andrea Cosentino è stato recentemente (2018) attribuito un premio speciale Ubu come riconoscimento per il suo lavoro di drammaturgo e performer. Nei suoi spettacoli solisti, egli frammenta la narrazione teatrale attraverso il ricorso costante alla meta-teatralità, al capovolgimento dei codici teatrali, cinematografici e televisivi e alla sua virtuosità d’attore proteiforme. Il suo discorso critico sulla società italiana contemporanea (la sua amnesia, la sua frivolezza consumistica, la volgarità della sua cultura televisiva) fa eco alle riflessioni di Pasolini sulla “mutazione antropologica”. Questa critica risulta ancora più incisiva poiché Cosentino attiva tutte le risorse della comicità e le mette al servizio di un incontro con il pubblico sempre sorprendente.

Andrea Cosentino recently saw his work as a playwright and performer recognized by the awarding of a special Ubu prize. In his solo shows, he dismantles the story by the constant recourse to meta-theatricality, the distortion of theatrical, cinematographic and television codes, and his virtuosity as a protean actor. His critical discourse on contemporary Italian society (its forgetfulness, its consumerist shallowness, the vulgarity of its television culture) echoes Pasolini’s reflections on the ‘anthropological mutation’. His critique is all the more powerful since it uses all the resources of comicality to challenge and surprise his audience each time.

Plan

Texte

Nel mese di dicembre 2018 Andrea Cosentino, attore, drammaturgo e studioso di teatro (Chieti, 1967) riceve un Premio speciale Ubu con la seguente motivazione:

[…] per la sua lunga opera di decostruzione dei linguaggi televisivi attraverso la clownerie, e in particolare per Telemomò, che attraversa i suoi lavori da anni »1.

Il teatro di Cosentino è stato definito da alcuni critici italiani come teatro di narrazione, teatro di anti-narrazione o ancora teatro post-drammatico. Ciononostante il drammaturgo e performer non si è mai riconosciuto completamente in una di queste categorie estetiche. Nei suoi spettacoli ritroviamo delle caratteristiche costanti tra cui uno sguardo ironico e una riflessione sociologica sulla nostra penisola e, dal punto di vista tecnico, il montaggio intrecciato di brevi quadri. In questo articolo analizzeremo alcuni passaggi de L’Asino albino (2004) e Angelica (2005) per mettere in luce le diverse accezioni di crisi presenti in Cosentino. È importante segnalare, però, che la scrittura di questo autore, che esprime una sensibilità pittorica, musicale e cinematografica, possiede una natura volutamente parziale e frammentaria e fa sì che lo spettatore riesca a cogliere il senso globale dei diversi fili narrativi e le relazioni tra questi, solo una volta terminata la pièce. Come spiega Diego Passera, docente all’Università degli Studi di Firenze :

Il riso è infatti il filo conduttore degli sketch giustapposti e intersecati, apparentemente privi di una consecutio ragionata; ma col passare del tempo i legami logici iniziano ad affiorare e a rivelare in filigrana la loro interconnessione2.

Questo stile è il marchio di fabbrica del drammaturgo e la chiave della sua comicità, tuttavia esso rende complessa la scelta di brani esemplificativi e obbliga a ripensare il sistema di citazioni in uno studio di tipo analitico. In effetti, il ritorno ciclico di quadri e personaggi nelle due pièce qui esaminate segue una logica di variazione e accumulazione: i dialoghi e i monologhi si ripetono similmente nella loro struttura ma, a livello del contenuto, si sviluppano, seguendo un crescendo drammaturgico.

1. Crisi ideologica: l’ignoranza e la noncuranza del passato

Nell’Asino albino Cosentino ricostruisce (e decostruisce al tempo stesso), attraverso le voci di una panoplia di personaggi, la storia dell’Asinara, isola sarda a più riprese invasa e colonizzata, sfruttata dall’Ottocento come luogo punitivo e d’isolamento e dichiarata Parco Nazionale nel 1997 :

Perché all’Asinara ci arrivi solo con delle visite guidate. In quanto che l’Asinara è un’area integrale protetta dove non ci vive più nessuno. E adesso l’isola non è che natura, che si è preservata pressoché incontaminata in quanto che fino al 1997 c’era un carcere. E prima ancora c’era un campo di concentramento dove durante la prima guerra mondiale sono morti qualcosa come 7000 prigionieri austroungarici. E prima ancora c’era un lazzaretto dove le navi con peste, colera e altre malattie infettive venivano a trascorrere il periodo di quarantena ad attendere che guarisse chi doveva guarire e morisse chi doveva morire3.

Protagonista della pièce è un gruppo di visitatori che s’imbarca in direzione dell’isola attratto da un volantino di un tour che promette « una giornata insolita e suggestiva » con in apertura la « visita al supercarcere di massima sicurezza di Fornelli » e in chiusura « relax e bagno sulla splendida spiaggia di Cala d’Arena »4. La Guida « con megafono e accento sardo »5, accoglie i turisti a bordo del traghetto e, dopo una brevissima introduzione storica, passa a descrivere le caratteristiche ambientali soffermandosi dapprima sui nomi e la simbologia delle rocce, poi sulla vegetazione endemica, infine sulle regole del Parco. Per il suo discorso La Guida adotta un vocabolario ostentatamente neutro e tralascia gli aspetti storici e socio-economici del luogo per approfondire quelli aneddotici. In quest’operazione, come sostiene il ricercatore Simone Soriani :

I gitanti, vittime dell’omologazione consumistica del turismo di massa, assurgono quindi a tragicomico emblema della condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo che non partecipa più alla costruzione della Storia, ma piuttosto si limita ad osservarla come un turista che guarda i relitti del suo passaggio6.

Come spesso accade nelle opere di Cosentino, il ricorso alla micro-storia permette di rivelare le lacune della macro-storia. Benché alcune brevi informazioni sul passato dell’Asinara siano anticipate nel programma di sala, poi citate da La Guida e infine riprese lungo il testo dai vari personaggi, non è possibile ricostruire in maniera dettagliata la Storia dell’isola. Cosentino, difatti, non è interessato ad approfondire questo tema o a spiegarne i dettagli al pubblico, ma « vuole mostrare senza far vedere e dire senza narrare »7. Gli espedienti di questo modus operandi sono descritti così dal critico teatrale Nico Garrone:

Vestito di bianco al centro della scena come il presentatore di un music-hall circense, su un’arena-isola cosparsa di cappelli, bambolotti di gomma, occhiali da sole, spray e altri accessori vacanzieri... si moltiplica in tutti i personaggi della gita... li pedina, entra ed esce dalle loro conversazioni con la leggerezza degli Esercizi di Stile di Queneau...8

Il drammaturgo tenta quindi di riportare alla luce ciò che resta della memoria del luogo attraverso la percezione di chi ci ha vissuto e di chi lo visita e ammonisce: « non faccio un teatro che trasmette o veicola delle cose ma che mostra e agisce dei conflitti9 ». Questo tipo di operazione è osservabile, per esempio, nella ricostruzione sensoriale della testimonianza di un ex-detenuto del carcere speciale che Cosentino ha incontrato a Genova dopo uno spettacolo:

E io ho conosciuto anche uno degli ultimi che ci hanno vissuto all’Asinara. Che non era un appestato, e non era neanche un austroungarico. È uno che è stato ospite del carcere di massima sicurezza dell’Asinara. Più esattamente un brigatista: uno che ha fatto sei mesi di brigatismo e venticinque anni di carcere, dei quali tre nel supercarcere di massima sicurezza dell’Asinara. Che adesso qui non voglio farne il nome, per ovvi motivi di riservatezza, lo chiameremo qui con un nome di fantasia: Ramataz10.

I personaggi dell’ex-brigatista e di sua moglie (Ramataz e Ramatazza) sembrano essere il risultato di una ricerca sul campo11, eppure non è possibile ascrivere l’Asino albino nemmeno al genere del teatro documentario. In questa parte del testo, infatti, la gravità della storia si mischia alla banalità del quotidiano e la soggettività di chi racconta e di chi narra emerge con tutta la sua forza. Le riflessioni sui limiti e le contraddizioni del sistema carcerario si sovrappongono al racconto dell’evasione di Ramataz e ai coloriti scorci sulla sua vita matrimoniale:

« Sono già le nove » dice Ramatazza « che dite, butto la pasta? »
« La prima rivolta è stata nel settembre del ‘78, la seconda a un anno di distanza, era il 2 ottobre del 79. Devi pensare solo per organizzarla sai, solo per mettersi d’accordo. Se hai visto le celle, i letti ora le amministrazioni penitenziarie li fanno di un unico pezzo di lamiera bucherellata, ma allora c’erano ancora le reti. Il sistema è smagliare la rete, e con un pezzo di maglia ne fai un punteruolo, e con questo buchi il muro per comunicare da una cella all’altra. Ma il difficile non è mica bucare il muro, il difficile è richiuderlo. E lo devi fare ogni sera, ci devi mettere della mollica di pane e dei frammenti di intonaco, e lo devi fare a regola d’arte, perché se ti arriva un’ispezione e ti beccano sono mazzate. Pensa organizzare tutto così… »
« Ed ecco qui la pasta! Se vuoi il parmigiano… Tu amore vuoi il parmigiano? » 12

Nel susseguirsi dei monologhi e dei dialoghi del gruppo di turisti dell’Asino albino emerge un elemento costante: l’indifferenza nei confronti dell’Asinara, poiché, come spiega a posteriori il drammaturgo, «lo spettacolo gioca anche con la mancanza di memoria storica collettiva, la mancanza di memoria di quelli che vanno a visitare il carcere come fosse un monumento13 ». Così, inconsapevoli e noncuranti del passato del luogo, i gitanti non cedono ai benefici della curiosità ma preferiscono esprimere i loro pensieri qualunquisti o dedicarsi a telefonate compulsive.

Tra le osservazioni disimpegnate e sconclusionate ricordiamo quelle di Agostino scaturite in seguito all’annuncio della Guida :

adesso stiamo passando a fianco alla diramazione penitenziaria di Tumbarino, dove erano rinchiusi i cosiddetti mangiabambini, ovverosia i pedofili, che erano isolati dalle altre sezioni carcerarie, in quanto invisi anche al resto della popolazione detenuta, reietti tra i reietti...14.

Agostino, « alzando scolasticamente la mano per intervenire », prende la parola e inizia a suggerire dei rimedi curativi per risolvere il « problema pedofilia »15, quali il ricorso alle pratiche artistiche e la castrazione. Poi intona l’inno nazionale, musica che reputa particolarmente idonea all’ascensione morale e di cui elogia le proprietà taumaturgiche.

Poco dopo è la volta del Milanese le cui riflessioni fanno capolino durante la sbrigativa visita al carcere speciale. Affacciandosi su una cella, commenta con una certa invidia le condizioni di prigionia dei detenuti: « non è che mica stavano tanto male questi qua! Non è che mica la cameretta di mio figlio è tanto più grande di questa qui! »16. L’uomo riscontra comunque una differenza tra l’infanzia del suo pargolo e la vita dei detenuti. Il primo, infatti, ha avuto la fortuna di crescere in una stanza colorata e decorata dal padre con due immagini fondamentali per la sua educazione: da un lato quella di [Alessandro] Costacurta, giocatore del Milan, dall’altro quella di Silvio Berlusconi, fondatore del partito Forza Italia « un po’ più grande di quella di Costacurta, perché il bambino deve anche acquisire una scala di valori »17.

Il punto di vista del Milanese viene sostenuto da Agostino che, « intervenendo di nuovo a mano alzata »18, constata la presenza nelle celle di un optional prezioso: il televisore. Immediatamente un sentimento d’ingiustizia lo coglie: com’è possibile che un detenuto possa godere di tale privilegio allo stesso titolo di un onesto cittadino lavoratore che ha meritato il suo diritto al riposo e allo svago?

...E allora tu, dico tu delinquente, già delinquisti, in più non fai un cazzo tutto il giorno a spese del contribuente che si alza la mattina si rimbocca le maniche col sudore per comprarsi la pagnotta, che sarei io, e poi la sera ti siedi rilassato e ti accendi la televisione: veline letterine quiz…(disperato) Allora dove sta la differenza ?19

2. Crisi ideologica: la vacuità delle relazioni e gli scarti generazionali

Nell’Asino albino, il dialogo ricorrente tra due amici che partecipano al tour dell’Asinara mette in luce la superficialità e l’egoismo nelle relazioni umane e fa riflettere sull’abuso del cellulare. Un uomo porge all’altro con insistenza il suo telefonino affinché costui lo utilizzi per chiamare gli amici o i parenti rimasti a casa e informarli della loro gita all’Asinara. La telefonata ha come obiettivo quello di suscitare ammirazione o gelosia nei meno fortunati o nei più indaffarati, obiettivo che viene mancato dai due maldestri gitanti :

AL CELLULARE
A (porge il cellulare all’amico) Chiama Marco, chiama Marco!
B (interrogativo)
A Chiama Marco, che quello sta a lavorà!
B (ancora perplesso)
A Gli dici: “Marco, lo sai dove stiamo? Ci stiamo a fare una bella gita all’Asinara.” Chiama Marco, che quello sta a lavorà!
B (entusiasta del piano, afferra il cellulare e compone il numero) Pronto, Marco, sono io... Marco lo sai dove stiamo? Ci stiamo a fare una bella gita all’Asinara! […] Embè è un posto bello Marco... come perché? C’è il mare, la spiaggia, gli scogli... Insomma noi stiamo in vacanza, Marco, scusa tu non stai a lavorà? ...Che ti piace il tuo lavoro, ho capito, si, certo.... (scoraggiato, restituendo il cellulare all’amico) Tié, parlaci tu con Marco20.

Poco dopo, i due personaggi tentano un nuovo colpo, destinato anch’esso al fallimento. Il dialogo conserva pressapoco la stessa struttura ma l’assurdità della situazione cresce vorticosamente quando uno dei due impugna il telefonino e chiama un terzo amico, Franco, ma si accorge poco dopo che quest’ultimo è proprio lì dinanzi a lui. Queste miniature rendono visibile il vuoto relazionale che scaturisce da un senso malsano della competizione e da un bisogno irrefrenabile di raccontare e raccontarsi. Il cellulare viene dipinto come uno strumento di comunicazione illusorio, come un oggetto spesso superfluo che annichilisce il valore della presenza nelle relazioni.

Dal canto suo, Angelica, offre a Cosentino un pretesto per parlare dell’impatto del sistema di produzione televisivo sulla società e la cultura italiana contemporanea. Il drammaturgo si sofferma in particolare sulla fiction concepita come intrattenimento di bassa qualità. Questo tipo di format televisivo, che dispone di finanziamenti limitati, costringe la troupe ad adattarsi alla penuria di mezzi e a creare un prodotto scadente.

Tra le diverse micro-storie che si intrecciano in Angelica, c’è quella di un’attrice omonima, poco talentuosa ma abbacinata dalla promessa di successo, protagonista di una fiction televisiva. Ad Angelica viene chiesto d’inscenare la morte per strangolamento del suo personaggio ma incontrando grandi difficoltà nel recitare questa scena, l’attrice è costretta a ripeterla in loop, confrontandosi da un lato alla sua incapacità tecnica che la rende ridicola e grottesca e, dall’altro, al forte desiderio di riconoscimento che la trasforma in vittima di un sistema fasullo e ipocrita.

Il personaggio di Angelica è superficiale, ingenuo e incompetente, eppure esso non viene percepito come totalmente negativo poiché la fragilità che lo caratterizza suscita empatia nello spettatore. In uno dei suoi tentativi d’interpretare la morte, per esempio, l’attrice richiama alla memoria il nonno e ricostruisce brevemente le diverse reazioni dei membri della famiglia prima, durante e dopo il suo decesso. Nel raccontare quest’evento, che ha segnato la sua infanzia e che rappresenta il suo primo contatto con la morte, Angelica lascia affiorare tutta la sua umanità, commovente e banale, che dà spessore al suo personaggio e lo rende universale.

Il rapporto conflittuale della società italiana contemporanea con il suo passato attraversa entrambe le pièce di Cosentino. Il drammaturgo fa più volte riferimento al fenomeno della mutazione antropologica descritto da Pier Paolo Pasolini e mette in luce diversi tipi di cesure generazionali. Nell’Asino albino, l’incomunicabilità tra la Nonna e la Bambina viene resa tramite la difficoltà della prima di « sorprendere » e l’impossibilità della seconda di « lasciarsi sorprendere ». L’anziana rappresenta un tempo arcaico in cui le fiabe erano significanti e la convenzione del narrarle veniva tacitamente accettata. La Bambina simboleggia al contrario una generazione disincantata e distratta, la cui attenzione, pazienza e capacità d’ascolto, vengono messe a dura prova dall’alienazione della società dei consumi e dalla rapidità delle nuove tecnologie. Nel corso della loro gita all’Asinara, infatti, la Nonna cerca di raccontare alla nipote la favola di Pinocchio ma viene ripetutamente interrotta da quest’ultima che, annoiata e disinteressata, è perennemente alla ricerca di nuovi stimoli :

NONNA Improvvisamente: perepè perepè! Cos’è sto suono di trompetta? È il teatro dei burattini. Allora Pinocchio invece di andare a scuola entra nel teatro dei burattini, e improvvisamentemente…
BAMBINA …tutti i burattini ci dicono a Pinocchio: “vieni con noi che sei un burattino anche tu come noi, che ti mancano solo i fili!” “E che vantaggio c’è a avere i fili?” chiede Pinocchio. “Come che vantaggio c’è? Che non devi fà un cazzo! Che ci sta il burattinaio coi fili che ti tira e ti muove e ti fa saltà e ti fa ballà, e tu non devi fare niente: niente fatica, niente responsabilità, tranquillo, rilassato, non devi pensà, e salti e balli senza sforzo come se ti sei pigliato na pasticca…”
NONNA (protestando) Non è così, non è così! (al pubblico) Sò veramente nichilisti sti bambini contemporanei. (tentando di riprendere il racconto) Pinocchio entra nel teatro e improvvisamente… Ci sta Mangiafuoco che orrificantemente… “Chi sei tu?” e intemeratamente…
BAMBINA Però vai forte cogli avverbi, lanò!
NONNA (ormai in confusione) E indeflettibilmente… Allora cupiodissolventementemente…
BAMBINA Ma non mi frega niente, lanò. Io voglio vedè l’asino bianco!21

La difficoltà della Nonna di sviluppare e concludere la fiaba permette a Cosentino di sollevare un tema a lui caro, ovvero la problematicità di raccontare oggi, a teatro, una storia lineare e coerente. Per la redazione e l’attuazione delle sue opere, il performer preferisce affidarsi alla natura spontanea e mutevole dell’oralità di cui ha potuto osservare le logiche durante uno studio di campo tra i poeti girovaghi maremmani22 :

La drammaturgia orale è normalmente paratattica: va avanti per rimandi, digressioni, eccetera. Sai dove inizi e non sai dove va a finire. Nell’Asino albino ho cercato di rovesciare questo andamento: l’unica cosa certa fin dall’inizio è il finale. [...] Il germe di partenza è la voglia di parlare del tempo, del tempo che passa e del presente nella sua intensità e nella sua volatilità23.

Il tema del conflitto generazionale è presente nell’Asino albino anche in chiave autobiografica, nei dialoghi tra il narratore e il Babbo caratterizzati da frasi tronche, omissioni e silenzi :

Solo una volta forse, anni fa, che io ero piccolo ma neanche tanto, avrò avuto dieci undici anni, saranno stati proprio gli anni del terrorismo e io iniziavo a fumare le prime sigarette ma di nascosto, che le rubavo al pacchetto di mio padre quando era pieno ma non del tutto perché non si notasse, e poi le mettevo in tasca in attesa del momento propizio per fumarmele per i fatti miei. E si era non so dove non so perché, ma era uno di quei rari momenti di complicità, tra padre e figlio, e mio padre si accende una sigaretta e mi fa: “Sai Andrea, un giorno ti racconterò una storia.” Io allora afferro il toro per le corna – senza neanche avergli preventivamente tagliato la testa come sarebbe prudenziale – tiro fuori una sigaretta che tenevo tutta stropicciata in una tasca, la stiro alla bell’e meglio e faccio come per chiedergli da accendere: “Dimmi”. E lui, mio padre: “Un giorno...” Che voleva dire: “Quando sarai adulto, quando potrai capire”. Ma voleva anche dire: “Ecco, tra poco sarai adulto, tra poco potrai capire, potremo capirci...” Poi non me ne ha più parlato24.

In diverse occasioni, nel corso del testo, questi personaggi tentano di riprendere il filo di un dialogo rimasto sospeso e mai approfondito. Il contatto tra i due avviene telefonicamente, le domande che il Babbo rivolge al figlio sono scarne come le risposte che riceve e il più delle volte la conversazione si conclude rapidamente con evasive considerazioni meteorologiche :

Mi chiama mio padre: Io “Ciao babbo”.
Lui “Come va?”.
Io “Tutto bene babbo… e tu?”.
Lui “Novità?”.
Io “Niente di particolare babbo... e tu?”.
Lui “Dove sei?”.
Io “All’Asinara, in Sardegna, babbo… e tu?”.
Lui “Mh…” pausa “E che tempo fa lì?”25

In Angelica, la Vecchietta, personaggio ricorrente nelle altre pièce di Cosentino che questi definisce come un suo alter ego, simboleggia la quintessenza della frattura generazionale poiché incarna in sé sia la memoria arcaica che lo spirito contemporaneo. Portaparola nostalgica dei bei tempi andati, la Vecchietta si esprime in dialetto, ultimo baluardo di una cultura antica poco globale e molto locale, ma l’anziana vive, al tempo stesso, nell’era attuale e osserva (e spesso subisce) le sue dinamiche sociali stravaganti e i suoi ritmi convulsi :

VECCHIETTA
Na’ volta: uscia di casa, chiano chiano, gli arberi... (guarda in alto) ’e cigliegge, ne cogliea due, le mettea sulla recchia – come orecchino – camminea, chiano chiano, passea il moroso, ci s’incrocea, dicea “che tieni sopra la recchia?”, “e cigliegge”, ne cogliea una – l’atra caschea, pel contrappeso – la mozzichea, dicea “tu sei succosa comme sta ciglieggia”…
Mò: entra, esce, corre, prescia…26

Le evoluzioni della Vecchietta suscitano nello spettatore sentimenti contrastanti quali tenerezza, pena e imbarazzo poiché questo personaggio vive a cavallo tra due epoche ma, non appartenendo completamente a nessuna delle due, vive sospeso. Se da un lato, quando prende la parola, la Vecchietta racconta dell’amore e delle relazioni comunitarie ai tempi in cui le interferenze mediatiche erano quasi inesistenti, dall’altra accetta volentieri di stabilire un contatto effimero con il mondo moderno e mediatico affittando il suo appartamento alla troupe della televisione. La Vecchietta fa parte dei telespettatori che seguono appassionatamente le vicende della telenovela, eppure ne è una rappresentante privilegiata. Lo capiamo quando, seduta di fronte al televisore, confessa ammiccante e orgogliosa allo spettatore di essere già a conoscenza del finale poiché ha ospitato a casa sua, in carne ed ossa, gli attori che ora riconosce dall’altro lato dello schermo :

VECCHIETTA
…era la televisione in carne e ossa, che erano venuti a girare uno sceneggiato a casa mia, dovevi vedè tutta la gente, un carosello: gli elettricisti che elettrificavano, gli scenografi che scenografavano, i macchinisti che macchinavano, i sarti che sartavano… Tutto un carosello, tutti a mettere sottosopra a casa mia…27

Nella finzione della pièce, la scelta di mostrare che le riprese di Angelica si svolgono nell’appartamento della Vecchietta piuttosto che in uno studio televisivo è indicativa di un vero e proprio fenomeno socio-economico. Si tratta infatti di una prassi che ha una doppia funzione: abbassare i costi di produzione e permettere a chi affitta gli spazi domestici di avere un’entrata economica supplementare. Se si osserva questo fenomeno a qualche anno di distanza non si possono non riconoscere in esso i primordi di un mercato alternativo provocato dalla crisi economica, basato su un’imprenditoria privata e autogestita e fomentato da piattaforme e applicazioni virtuali (quali Airbnb per esempio).

La mutazione antropologica viene resa visibile da Cosentino anche attraverso il filtro della religione. In apertura di Angelica, il drammaturgo riporta la sua percezione ludica del Giubileo degli anni ‘80 e descrive una Madonna vacillante portata in processione il Venerdì santo a Chieti. Questi ricordi giovanili s’intrecciano al racconto più adulto e consapevole della sfilata di Giovanni Paolo II nella papamobile durante il Giubileo dell’anno 2000.

La pervasività della religione cattolica nella società italiana viene descritta attraverso i suoi connotati arcaici ma anche i suoi effetti mediatici. La presenza costante del papa nei telegiornali e l’Angelus domenicale trasmesso sulla prima rete nazionale hanno accompagnato i pasti quotidiani di milioni di telespettatori che hanno familiarizzato a tal punto con la figura di Karol Wojtyla che, quando sulla scena di Angelica appare una marionetta, il pubblico riconosce immediatamente nei suoi tratti, nella sua voce e nei suoi gesti, il pontefice Giovanni Paolo II. La marionetta si affaccia tremolante da una carrozzina che rimanda al contempo alla recente paternità di Cosentino e a quella simbolica del Padre della Chiesa. Questa si esprime con frasi decontestualizzate, frammenti di canzoni e modi di dire dialettali, in sostanza un vocabolario fortemente in contrasto con il linguaggio religioso istituzionale cui gli spettatori sono abituati :

PAPA
Semo romani… volemose bene… damose da fa’…
Gli ultimi saranno i primi… i primi saranno gli ultimi… quelli in mezzo sempre in mezzo stanno…
Fatese largo che passamo noi, li giovanotti de sta Roma bella…28

I discorsi sconnessi e privi di senso del Papa sembrano accennare all’incapacità dei rappresentanti della Chiesa di farsi carico di alcune questioni sociali e responsabilità morali e sottolineano al contempo il divario tra religione e spiritualità nell’era contemporanea. Angelica si conclude sull’immagine del pontefice che si « arrampica faticosamente » fino allo schermo vuoto del televisore per pronunciare la sua consueta omelia. Un uomo anziano, piegato su sé stesso e tremante, tira fuori un foglio bianco che gli scivola via di mano prima di poter essere letto. L’ultima immagine cui assistiamo prima del buio di scena è quella del Papa, « sgomento » e « incerto », che, rimasto senza parole, « […] traccia un segno della croce che si infrange sulla cornice dello schermo »29. Il pubblico assiste quindi all’epifania di una morte simbolica che ricorda quella reale del pontefice, avvenuta il 2 aprile 2005, a qualche mese dalla prima di Angelica (Inteatrofestival, Polverigi, 9 luglio 2005) :

Lo spettacolo sembrerebbe in effetti istituire, o disvelare, una somiglianza sin troppo inquietante tra la morte fittizia dell’attricetta Angelica, e la morte reale ma altrettanto televisiva e fittizia di Papa Wojtyla. La morte indagata attraverso la spettacolarizzazione che ne fa la televisione30.

3. Crisi ecologica

Se L’Asino albino e Angelica costituiscono « il dittico del presente » è innanzitutto perché sviluppano una riflessione sul tempo, ma anche, più semplicemente, perché parlano di problemi contemporanei, tra cui la crisi ecologica è sempre più al centro del dibattito. Ne L’Asino albino, la gita dei turisti sull’isola dell’Asinara « […] comporta il passare accanto ai resti della storia » (il lazzaretto diventato campo di concentramento e poi supercarcere), ma anche « […] l’attraversare la natura e scoprirvi la propria estraneità »31. In entrambi i casi, i visitatori rimangono accanto, senza trovare né cercare il modo di legarsi a questo luogo, senza sentirsi eredi della sua storia. Una bambina imbronciata è l’unica ad aspettare qualcosa: un incontro col misterioso asino albino, specie endemica dell’isola.

Questo animale, prima di rimandarci ad un registro metaforico (nel quale il ricordo di Collodi dà una connotazione di minaccioso degrado spirituale all’ultima apparizione dell’attore trasformato in asino e al suo « raglio che è riso e pianto32 »), ci rammenta le molteplici specie in via di estinzione a causa delle attività umane (come le gite turistiche) e dei loro danni ecologici. Quando la Guida, davanti alla carcassa dell’asino, spiega ai turisti che « gli asini albini sono particolarmente sensibili alle radiazioni solari e capita che si ammalano [sic] di tumori alla pelle33 », tanto il suo discorso quanto, in conclusione del testo, le parole del narratore – che descrivono al Babbo un « […] sole strano […] che azzanna, che arde, che morde »34 – ci inducono a pensare che l’asino morto sull’isola senza ombra sia stato probabilmente vittima della riduzione dello strato d’ozono.

Il fatto che la Bambina rivendichi il suo diritto a vedere l’asino albino quale condizione imprescindibile della gita (perché c’è la sua foto sul volantino) palesa l’assurdità della superbia umana. Non a caso sono i bambini (perché credono ancora ad una razionalità umana superiore) a diventare i testimoni di questa assurdità, perfino in chiave di umorismo nero, come nella storia del Milanese con suo figlio sull’autostrada :

IL MILANESE
(guardando verso il cadavere dell’asino)
Sai mio figlio, Piero, come sarebbe contento se fosse qui. Che lui ci ha questa passione per gli animali, mio figlio. Quando stiamo in viaggio, sai d’estate sull’autostrada, mi si appiccica col naso al finestrino e comincia: “Papi, papi, un setter!”  Tu ti vedi uno zerbino spiaccicato. Ma lui ci ha proprio questa passione, li riconosce tutti. Mica dico il mastino dal chiuaua, eh! Quello, mio figlio, ti ricostruisce tutto il pedigree della bestia: “Guarda papi, un incrocio tra un boxer e un foxer retrivier!” Tu ti vedi un tappetino di peli a un incrocio. E anche con le bestie selvatiche, eh! “Papi, papi, la volpe!” Un mantecato di fegato e budella spalmato sull’asfalto. Anche dopo una settimana che sono lì, al sole, a putrefare […]35

La bella storia degli inizi di una vocazione si conclude con il trionfo della didattica paterna e dell’assurdità umana :

L’altro giorno, siamo in auto, mio figlio mi fa: “Papi, papi, cos’è quella cosa, quella cunetta lì davanti sulla strada?” Dico: “Come cos’è, Piero, non lo riconosci?” “No papi, cos’è?” Dico: “Piero, è un cane, non so che razza, sei tu l’esperto, ma è un cane…” “Come un cane papi? Quella cunetta lì, un cane? Come un cane, papi?” A quel punto ho capito che il bambino non aveva ancora acquisito la cognizione che l’animale allo stato brado ci ha anche una sua terza dimensione. “Come un cane papi? E si muove pure…” Allora cosa fai? Dico, a costo di ammaccarmi il paraurti del BMW, accelero, per mostrargli il processo di trasformazione del brado tridimensionale in tappetino immoto. E lui tutto contento: “È vero, papi, è un cane. Ma era solo un bastardo.” È una soddisfazione veder crescere i propri figli36.

Certo, i turisti adulti hanno perso questa spietata curiosità da ragazzi, ma nella loro « ferocia svagata 37» sono i rappresentanti di un’umanità orfana, senza legame con il mondo, né con quelli che lo abitano né con quelli che lo hanno abitato, estranea tanto agli animali che ai propri antenati.

4. Crisi dell’economia artistica

Attraverso la presentazione di « tranci di vita »38 di una zona popolare di Roma (un « quartiere pieno di vecchi »39), Angelica tematizza il modo in cui la televisione nutre l’immaginario nazionalpopolare dei telespettatori che si riconoscono nelle vicende raccontate. La povertà di mezzi della fiction televisiva, parente povera dell’arte cinematografica, rispecchia non solo la povertà intellettuale del prodotto, ma anche la crisi socio-economica del Paese :

ASSISTENTE – Per fortuna il nostro è uno sceneggiato di protagonisti realistico popolari, fortunatamente ci basta una fiat Panda…
REGISTA – Che c’entra: film holliwoodiano de protagonisti realistico popolari, piglia sto milione de dollari che la fiat Panda popolare la famo disintegrare a cinque all’ora contro una Ferrari testa rossa elitaria che arriva a trecento contromano. Qui non è il cinema holliwoodiano, è la televisione italiana. Qui sono produzioni de micragna, qui ci abbiamo sta fiat Panda in affitto per tre giorni, e quella è e quelli sono, e gliela devi riportà senza un graffio sennò li senti la produzione…40

Ovviamente questa povertà è la norma anche nell’ambiente del teatro italiano contemporaneo. Scrive Cosentino a proposito del suo lavoro: « alla base di tutto […] c’è stata l’esigenza, questa generazionale direi, di fare di necessità virtù, ovvero di aver dovuto inventare il mio teatro a partire da una povertà subita41 ». Nel caso di Cosentino vedremo che questa necessità sfocia nella riflessione sulla poetica con diverse possibilità: narrazione o mimesi? Storia o non storia? Nell’arte mimetica convenzionale delle fiction televisive però, i problemi sono risolti, in ultima istanza, con il montaggio :

REGISTA – (continuando il discorso col suo assistente) Hai capito come lo montiamo l’incidente? Tu fai vedere na machina che corre sempre più veloce, na soggettiva del guidatore che sbanda, rumore di frenata e di urto, e te ne vai tranquillo sul dettaglio de sto specchietto per terra che dondola. Il cinema è tutto na questione de campo e fuori campo: in campo te vedi uno specchietto sderenato, e te figuri che fuori attorno c’è na machina intera sderenata…
ASSISTENTE – Certo, è una questione di linguaggio, lo specchietto è una sineddoche, la pars pro toto…
REGISTA – Bravo: in campo te vedi la pars, e te figuri che attorno ce sta tutto er toto. E invece attorno non c’è niente: non c’è na macchina, non c’è na lira, vuoto… Fin qui è mestiere eh? Poi c’è il tocco artistico, se permetti. Che tu attraverso lo specchietto riflesso vedi un particolare del volto del guidatore. Tipo n’occhio tumefatto. Solo che lo specchietto è pure spaccato, capito? Capito il tocco?42

La povertà è la maledizione dell’arte convenzionale e il montaggio è contemporaneamente la maschera della povertà e l’indizio rivelatore della convenzione televisiva. La mediocrità artistica di questi « tocchi », al tempo stesso esilarante e commovente, non impedisce però che gli «artisti» abbiano delle pretese o portino avanti delle proteste :

FACCHINO – (sempre con l’oggetto che si fa di passaggio in passaggio più insostenibile) Dottò…
SCENOGRAFO – Ancora questo con ‘sto frollafagiani? Cosa c’è adesso?
FACCHINO – Dottò, dicheno il dottor regista che questo è lo sponsor e che ci deve stare nella stanza…
SCENOGRAFO – (alzando la voce) Bene, sponsor o non sponsor, tu gli dici al regista: allora io accetto che chiedo una collezione di barbie e mi portano quattro barbie quattro modello come mamma l’ha fatta, accetto che chiedo una foca e mi portano l’orsetto, ma questo spiumabarbagianni no, io non l’accetto, sennò io la scenografia non la firmo!43

Ciononostante sarà proprio il rapporto dell’economia artistica con l’economia ‘reale’ a fornire la vera chiave di lettura dell’ars poetica :

FACCHINO – (allo stremo, l’oggetto che porta sembra esser diventato un ingombro incommensurabile) Dottò…
REGISTA – (risoluto) Tu sai che gli dici, adesso, al dottor Alvi? Gli dici che lui adesso nella stanza della ragazza realistica popolare ce mette sto stracciameloni, e pure in bella vista, così che quando sto sceneggiato passa in televisione un trenta percento de share de audience de prima serata se vedono sto schiantamarrocche in primo piano, lo desiderano, se lo comprano, e nella stanza de dicopoco una milionata de ragazze reali popolari ce starà un’altrettanta milionata de sturamazzancolle come questo. Perché, se nun l’ha ancora capito il dottor Alvi, oggigiorno il realismo si copia, ma la realtà si produce [neretto nostro]. (minaccioso, quasi urlando) Ce semo capiti, Alvaro?44

È chiaro dunque, a nostro avviso, il motivo per cui la povertà è per Cosentino « alla base di tutto » : perché costringe l’artista non-convenzionale a porsi domande sulla sua poetica e a fare delle scelte radicali.

5. Crisi della storia e “esercitazione gioiosa allo stare comunitario”

Andrea Cosentino ascrive L’Asino albino e Angelica al suo periodo post-drammatico in cui aspirava a « […] creare strutture di drammaturgia anche sofisticata nel mentre se ne denunciava l’artificiosità, […] smontare il giocattolo ma senza smettere di farlo funzionare »45. L’obiettivo, l’« esercitazione gioiosa allo stare comunitario »46 era dunque quello di mettere in crisi il teatro drammatico e di denunciare la sua ossessione di raccontare una storia. La visita guidata de L’Asino albino non si struttura in narrazione, ma si frantuma in diverse apparizioni grottesche o inquietanti che culminano nell’epifania finale (e abbagliante) dell’asino. In Angelica Cosentino mima con la povertà dei suoi mezzi scenici abituali (oltre il suo corpo virtuoso, oggetti e bambole, e la cornice vuota di un televisore) la limitatezza di un racconto televisivo che non riesce a prendere forma e neanche a concludersi.

Questo rifiuto del racconto ci rammenta che, malgrado l’omaggio a Dario Fo posto all’inizio di Angelica (con tre versioni caricaturali del famoso grammelot), Cosentino ha espresso molto chiaramente la sua diffidenza verso il teatro di narrazione che scaturisce proprio dal teatro di Fo. Non solo perché questo genere lavora appunto sulla narrazione e la storia, ma anche perché il drammaturgo non si riconosce nella sua modalità di enunciazione :

« … non ho mai amato il binomio narrazione-teatro civile […] non amo il teatro dove un attore si fa rappresentante e portavoce di una istanza di gruppo. Ho sempre preferito l’inaffidabilità del clown. E la sua lontananza da ogni potere, anche quello del contropotere. Per me il teatro deve essere un antirituale, o un rituale di disappartenenza »47.

In questa visione del mestiere si legano due crisi: quella della narrazione e quella della rappresentanza politica – che sono forse due aspetti di una stessa crisi, quella del nostro rapporto con il tempo.

Verso la fine di Angelica, Cosentino torna a spiegare, con l’aiuto di un saggio di Pasolini, cosa significa per lui il rifiuto della narrazione :

Pasolini scrive: il montaggio opera sul materiale del film quello che la morte opera sulla vita. […] E aggiunge: la morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi e li mette in successione48.

E nel programma di sala, si fa ancora più preciso :

come può il presente raccontarsi a se stesso? Io tento di installarmi nei tagli del montaggio, di dilatare i nessi, creare gioco tra i giunti; voglio disincantare l’impostura ipnotica dei racconti narrativi, far emergere ludicamente il nonsenso che fa da sfondo alla costruzione del senso49.

Arrivati a questo punto, una domanda si impone: il significato politico di questo tentativo di « far emergere il nonsenso », cosa sarà se non una visione decisamente pessimista della Storia? Cosentino ha più volte espresso lo smarrimento postmoderno che induce a vivere senza il sostegno del passato e senza l’idea di un futuro auspicabile. I turisti de L’Asino albino sono appunto questi postmoderni smarriti, narcisisti, svincolati da ogni legame e ogni impegno. Possiamo chiederci allora se l’unico scopo del suo teatro è metterci di fronte a questo smarrimento senza vie di uscita.

Probabilmente no. Il suo scopo principale è, semmai, quello di salvare il presente. In Angelica il rifiuto della narrazione è un tentativo di resistere alla mortificazione del presente, cioè di mantenere attivo (e quindi gioioso) il presente condiviso con il pubblico, ricorrendo alla meta-teatralità. « Se non c’è storia dovrà esserci da ridere »50. La cultura popolare è (e deve essere) una cultura di intrattenimento perché per le classi « […] che una volta si dicevano subalterne, che […] esistevano e resistevano senza il conforto di un passato né prospettive di futuro »51, niente è più prezioso del saper godersi il presente, malgrado le sconfitte.

Tuttavia ciò non è sufficiente: il teatro di Cosentino propone anche la sfida di « abitare senza troppe zavorre la forma nuda del teatro, ma direi dell’esistenza, che non è altro che la domanda di senso »52. Dal momento che il teatro come medium di rappresentazione ha perso ogni credibilità, è necessario trovare un’alternativa; il teatro potrebbe diventare il luogo dove cercare di capire come si crea una comunità, come si può abitare e vivificare, insieme e al presente, questa imprescindibile domanda di senso.

Note de fin

1 Associazione Ubu per Franco Quadri, Comunicato stampa/Premi Ubu 2018: i vincitori, ww.ubuperfq.it/fq/index.php/it/premi-ubu/premi-ubu-2018/comunicato-stampa-vincitori-2018, 2/01/2019.

2 Diego Passera, « Il teatrino delle Meraviglie di Andrea Cosentino », Atti & Sipari, n° 1, ottobre 2007, p. 23.

3 Carla Romana Antolini (a cura di), Andrea Cosentino. L’apocalisse comica, Roma, Editoria & Spettacolo, 2008, p. 50.

4 Ibid.

5 Ivi, p. 57.

6 Simone Soriani, « Le polifonie di un clown postmoderno. Il teatro di Andrea Cosentino », Prove di drammaturgia, n° 2, 2005, p. 23.

7 Paolo Ruffini, « Il corpo inattuale », in Carla Romana Antolini, op. cit., p. 143.

8 Nico Garrone, « Ferie d’agosto con sorpresa: quest’Asinara è un incubo », La Repubblica, 26 gennaio 2004, https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/01/26/ferie-agosto-con-sorpresa-quest-asinara.html, 3/10/2018.

9 Anna Maria Monteverdi, « Autoritratto dell’artista da (non)narratore. Conversazione con Andrea Cosentino », Ateatro 66.25, Castiglioncello 29 marzo 2004, http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=66&ord=25, 9/11/2018.

10 Carla Romana Antolini, op.cit., p. 50.

11 La storia di Ramataz e Ramatazza nell’Asino albino è ispirata all’incontro tra Andrea Cosentino e l’ex-brigatista. Quest’ultimo, dopo essere venuto a conoscenza dell’intenzione del drammaturgo di preparare uno spettacolo sull’Asinara, lo invita a casa sua.

12 Carla Romana Antolini, op.cit., p. 52.

13 Andrea Cosentino in Anna Maria Monteverdi, op. cit.

14 Carla Romana Antolini, op.cit., p. 60.

15 Ibid.

16 Ivi, p. 64.

17 Ibid.

18 Ivi, p. 65.

19 Ibid.

20 Ivi, p. 59.

21 Ivi, p. 62-63.

22 Cfr. Andrea Cosentino, La scena dell’osceno. Alle radici della drammaturgia di Roberto Benigni, Roma, Odradek, 1998.

23 Anna Maria Monteverdi, op. cit.

24 Ivi, p. 55-56.

25 Ivi, p. 69-70.

26 Ivi, p. 105-106.

27 Ivi, p. 108.

28 Ivi, p. 103.

29 Ivi, p. 137.

30 Daniele Timpano, « Inequilibrio – diario parziale di un festival », Amnesia vivace, n° 15, settembre 2005, https://web.archive.org/web/20060506143843/http://www.amnesiavivace.it/sommario/rivista/brani pezzo.asp?id=202, 12/09/2018.

31 Carla Romana Antolini, op.cit., p. 41.

32 Ivi., p. 83.

33 Ivi., p. 72.

34 Ivi., p. 82.

35 Ivi., p. 73.

36 Ivi., p. 73-74.

37 Ivi., p. 41.

38 Ivi, p. 97.

39 Ivi, p. 99.

40 Ivi, p. 111-112.

41 Andrea Cosentino, « Due riflessioni senza capo né coda e un dramoletto per voce e marionetta mutilata. Pane ai circensi – dramoletto per voce e marionetta mutilata di Artaud/mendicante », in Clemente Tafuri e David Beronio, Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, vol. 8, Genova, AkropolisLibri, 2017, p. 78.

42 Carla Romana Antolini, op.cit., p. 113 e 114.

43 Ivi., p. 113.

44 Ivi, p. 115.

45 Ivi, p. 78.

46 Andrea Cosentino, « Due riflessioni senza capo né coda e un dramoletto per voce e marionetta mutilata. Pane ai circensi – dramoletto per voce e marionetta mutilata di Artaud/mendicante », op. cit., p. 79.

47 Ibid.

48 Carla Romana Antolini, op.cit., p. 135.

49 Ivi, p. 94.

50 Ibid.

51 Andrea Cosentino, « Due riflessioni senza capo né coda e un dramoletto per voce e marionetta mutilata. Pane ai circensi – dramoletto per voce e marionetta mutilata di Artaud/mendicante », op. cit., p. 78.

52 Ivi, p. 81.

Citer cet article

Référence électronique

Joëlle Chambon et Arianna Berenice De Sanctis, « Un clown nell’Italia in crisi », Line@editoriale [En ligne], 10 | 2018, mis en ligne le 06 février 2024, consulté le 20 avril 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/1213

Auteurs

Joëlle Chambon

Arianna Berenice De Sanctis

EA RIRRA21-Université Paul-Valéry Montpellier 3 / Laboratoire Ethnoscénologie - MSH Paris Nord

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