Allarmi! Il teatro di Emanuele Aldrovandi, tra realtà e paradosso

Intervista a cura di Giovanna Montermini

Résumés

Intervista a Emanuele Aldrovandi in occasione della messa in scena del suo testo Allarmi! e dell’uscita della traduzione francese presso le PUM (Tolosa). Aldrovandi ci parla della stesura del testo, delle fonti di ispirazione e del suo teatro in generale, della sua voglia di raccontare l’epoca contemporanea tramite delle storie in bilico tra realismo e non realismo.

Interview with Emanuele Aldrovandi on the occasion of the staging of his text Allarmi! and the release of the French translation at the PUM (Toulouse). Aldrovandi speaks to us of the drafting of the text, of the sources of inspiration and of his theater in general, with his desire to tell the contemporary epoch through stories hovering between realism and non-realism.

Plan

Texte

La pièce di Emanuele Aldrovandi, Allarmi!, è pubblicata presso le PUM (Presses Universitaires du Midi), nella collana « nouvelles.scènes-Italien » ed è stata rappresentata dalla compagnia universitaria « I Chiassosi », con la regia di Jean-Claude Bastos, nell’ambito del festival UniverScènes 2018. L’intervista è stata organizzata in occasione della venuta del drammaturgo a Toulouse, il 10 aprile 2018, alla libreria « Ombres Blanches ».

Presentazione dell’autore

Nato a Reggio Emilia nel 1985, dopo la laurea triennale in Filosofia a Parma con una tesi sul filosofo Richard Rorty e la laurea specialistica in Lettere a Bologna con una tesi in letteratura teatrale su Samuel Beckett, nel 2009 si trasferisce a Milano per studiare drammaturgia alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, dove studia fra gli altri con Antonio Tarantino, Vitaliano Trevisan, Tiziano Scarpa.

Nel 2012 torna a Reggio Emilia e inizia a collaborare con il Centro Teatrale MaMiMò, lavorando a varie produzioni della compagnia, dirette da Marco Maccieri. Nello stesso anno vince il « Premio Nazionale Luigi Pirandello » con Felicità e riceve la segnalazione al « Premio Hystrio » con Funziona meglio l’odio.

Nel 2013 con Homicide House vince il più importante riconoscimento italiano per la nuova drammaturgia, il « Premio Riccione Pier Vittorio Tondelli », e i suoi testi iniziano a essere rappresentati in numerosi teatri italiani. Nel 2015 è finalista al « Premio Riccione » e al « Premio Scenario » con Scusate se non siamo morti in mare, al « Premio Testori » con Allarmi! e vince il « Premio Hystrio » con Farfalle.

Lavora con numerosi artisti e compagnie, scrivendo anche adattamenti, traduzioni e drammaturgie collettive. Lavora con vari teatri e dal 2016 inizia a collaborare con ERT – Teatro Nazionale dell’Emilia Romagna. Partecipa a vari festival nazionali e internazionali, collabora con l’Opera di Pechino, scrive alcuni brevi testi per l’evento « Musei a Cielo aperto » organizzato in occasione dell’EXPO di Milano, fa parte del progetto « Connections » organizzato dal Teatro Litta in collaborazione con il National Theatre di Londra, viene scelto come autore italiano per l’« Obrador d’Estiu » della Sala Beckett di Barcellona con Simon Stephens. È fra gli autori selezionati nel 2017 per far parte con altri autori di otto paesi europei di « Fabulamundi », un progetto di cooperazione tra teatri, festival e organismi culturali, la cui missione è la traduzione e la circolazione dei testi, la loro pubblicazione così come l’organizzazione di master class o drammaturgie collettive.

Da qualche anno associa alla sua attività di autore quella di dramaturgo e di insegnante di scrittura teatrale.

I suoi testi sono pubblicati in Italia da CUE Press e sono tradotti in inglese, tedesco, francese e catalano.

Intervista

Giovanna Montermini: Il testo di Allarmi! non è un’idea tua, spontanea diciamo, ma ti è stato commissionato da un teatro. Com’è scrivere su commissione su un argomento così delicato?

Emanuele Aldrovandi: Bisognerebbe aprire una parentesi su cosa siano le « idee spontanee ». Un qualche stimolo da parte dell’esterno c’è sempre, che sia un fatto di cronaca in grado di suscitare un pensiero inaspettato, una particolare persona incontrata, un problema difficile da affrontare o – appunto – una commissione. La cosa importante, per me, è riuscire a trovare qualcosa che mi interessi veramente e che mi faccia venire voglia di scrivere. Per questo motivo a volte « baro » – in modo esplicito, dichiarandolo – con i testi commissionati, cercando di portarli verso qualcosa che probabilmente prima o poi avrei scritto comunque. Così è stato per Allarmi!

Erano anni che volevo scrivere di una rivoluzione (reale, tentata o immaginata), avevo anche preso molti appunti, ma non avevo mai trovato la chiave giusta, non avevo idea di che tipo di rivoluzione sarebbe dovuta essere. Quando, tramite ERT, il Teatro Nazionale dell’Emilia Romagna, la compagnia ErosAntEros mi ha contatto proponendomi di scrivere un testo che parlasse dell’estrema destra, ho unito i puntini. La loro suggestione iniziale era un gruppo di leghisti veneti che stava costruendo un carroarmato per organizzare un attentato. Io ho proposto di lavorare a livello europeo, perché il fenomeno dell’ascesa dell’estrema destra non è certo solo una quesitone nazionale ma interessa tutto il continente, e ho suggerito di trasformare un semplice attentato in un vero e proprio tentativo di golpe rivoluzionario. Loro hanno accettato con entusiasmo e a quel punto anch’io avevo una gran voglia di scrivere quel testo, indipendentemente dal fatto che fosse o no su commissione.

Per affrontare un tema così delicato però c’era bisogno di studiare e informarsi molto. Ho letto vari libri e soprattutto ho parlato con un amico che aveva frequentato ambienti di estrema destra, vivendo però la militanza da un punto di vista intellettuale, evitando ogni forma di violenza e sviluppando un forte senso critico verso le varie frange e le varie derive. È stato lui che – involontariamente – ha influenzato il personaggio di Futuro e che mi ha aiutato a provare a mettermi dalla parte dei miei personaggi, senza giudicarli. Questo per me era molto importante, non mi interessava scrivere un testo sui « fascisti brutti e cattivi », volevo andare in profondità e scoprire qualcosa che non sapevo.

Giovanna Montermini: E cosa hai scoperto?

Emanuele Aldrovandi: Che i più pericolosi non sono quelli inseriti in un contesto aggregazionale, che può essere appunto quello della militanza, dei concerti o delle manifestazioni. Certo, se preso dal punto di vista globale il fenomeno ovviamente ha un’alto grado di pericolosità – e lo stiamo vedendo negli ultimi anni in Europa – ma a lungo termine e dal punto di vista della violenza sociale. A breve termine invece, paradossalmente, la violenza individuale è più facile che scaturisca da elementi isolati in cerca di « visibilità » e « accettazione ».

Anders Breivik, l’attentatore norvegese dell’isola di Utoya, non era un membro attivo di un partito politico o un ultras che ogni domenica faceva risse allo stadio insultando gli immigrati, era un ragazzo solo e isolato che ha trovato nell’ideologia un luogo in cui sfogare il suo desiderio di rilevanza. E questo non lo rende molto diverso da un attentatore islamico che si lascia irretire dalla propaganda jihadista sul web. Il punto non diventa più solo « l’ideologia », ma anche la condizione di alcuni singoli individui all’interno del nostro sistema sociale, che restano soli nella loro cameretta di fronte al computer a progettare attentati sanguinari. Ecco perché una volta termianto, inaspettatamente anche rispetto alle mie intenzioni iniziali, il testo non parlava più di una rivoluzione ma di una mitomania. La mitomania di Vittoria però era diventata anche uno strumento per indagare alcuni paradossi del senso comune contemporaneo che mi stavano a cuore.

Giovanna Montermini: Perché aver messo al centro della tua pièce un’eroina quando la cronaca ci parla invece di una schiacciante maggioranza di uomini che portano avanti questo tipo di progetti? Perché una donna e perché chiamarla Vittoria?

Emanuele Aldrovandi: Un vincolo posto dalla compagnia ErosAntEros era che la protagonista fosse una giovane donna, che sarebbe poi stata interpretata da Agata Tomisc, e questo in un certo senso ha indirizzato la mia creatività. Se avessi dovuto scrivere un testo sugli stessi temi con protagonista un uomo di settant’anni, avrei scritto qualcosa di diverso. Cosa? Chi lo sa. È il bello di questo lavoro in cui la creatività si mescola sempre alla contingenza.

Non so perché in generale abbiamo la convinzione che sia meno probabile che una donna compia attentati violenti di matrice politica rispetto a un uomo, probabilmente questa « sensazione » è supportata da qualche statistica, anche se in realtà se prendiamo ad esempio le BR le due componenti di genere erano abbastanza equilibrate. In ogni caso questa difformità rispetto a ciò che ci si aspetterebbe (cioè un attentato portato avanti da un « Breivik ») mi ha aiutato a rendere tutto più simbolico. Da qui i nomi dei personaggi: Vittoria, Ordine, Assalto e Futuro.

In generale mi piace dare ai personaggi nomi paradigmatici, ma in questo la necessità era anche quella di non contestualizzare la pièce in una nazione specifica, ma in Europa. Vittoria era il solo nome che potesse essere sia un nome di persona, sia un nome simbolico, e questo in Italia, Spagna, Francia funziona. In inglese non è possibile perché ci sono due parole diverse. Nello stesso modo, Ordine, Futuro e Assalto sono in italiano nella versione originale, ma possono essere tradotti facilmente nelle altre lingue, come è stato fatto nella traduzione francese di Frédéric Sicamois. In questo modo i personaggi sono europei: se li avessi chiamati, Marco, Luca, Paolo e Vittoria sarebbero diventati italiani. Anche nel mio testo Scusate se non siamo morti in mare i personaggi si chiamano Robusto, Alto, Bella.

La questione della traduzione, che si pone qui oggi per questo incontro, non è però la sola ragione. C’è in effetti il tentativo di trovare (e non so ancora se ci sono riuscito e quanto ci riuscirò) un piano in bilico tra il realismo e il non realismo. Mi è stato suggerito di chiamare questo secondo piano « realismo magico », ma questa definizione non mi piace. Non ho ancora trovato un termine che mi soddisfi, ma mi interessa il fatto di raccontare storie che possono esser vere, ambientate in un contesto vero che la gente conosce, in cui si può ritrovare, ma che ad un certo punto va al di là senza mai abbandonare veramente il realismo. In questo confine, su questa lama tra i due piani mi piace quindi chiamare con nomi paradigmatici i personaggi (come anche in Homicide House in cui ci sono Tacchi a spillo, Camicia a pois) che sono veri, fanno cose vere, non sono né personaggi del ’700 né del futuro – e quindi sono reali – ma non sono delle vere persone, non è la storia di Marco o di Luca... Questo è quindi un modo di piazzare i personaggi in uno spazio che è tra il realismo e quella cosa di cui non so il nome e che non sono io che devo nominare [risa] ma è il lavoro degli studiosi. Anche se so che non è l’attività principale dei ricercatori [risa], ma insomma...

Giovanna Montermini: Il termine «distopico», che viene spesso utilizzato per la tua produzione, come anche «ragionevole paradosso», porta con sé un’accezione di negatività, di «decostruzione» che forse non c’è in Emanuele Aldrovandi. Aldrovandi, in realtà, crea un modellino di una stanza, che noi conosciamo bene, ma nella quale entriamo sempre dalla porta d’entrata. Lui non cambia niente di questa stanza, ma ce la mostra da una finestra che non c’è, o dal soffitto, o da un angolo del pavimento e quindi quello che c’è all’interno è reale, ma il nostro modo di guardarlo è diverso, perché ci fa adottare un nuovo punto di vista.

Continuando sulla scia dei nomi. Quelli dei ragazzi: FUTURO, ORDINE, ASSALTO richiamano immediatamente il CREDERE, OBBEDIRE, COMBATTERE, motto mussoliniano, e tutta la retorica della politica. Una retorica che sembra attraversare le epoche indenne e sbarcare nel nostro mondo tecnologico.

Emanuele Aldrovandi: Sono contento che tu abbia visto questa cosa. Per scrivere questo testo ho studiato la retorica fascista, la retorica dei paesi europei di estrema destra. Per esempio, il credo scandito dai tre personaggi, durante l’addestramento, è stato creato mescolando un paio di vere canzoni fasciste d’epoca, di cui ho ripreso le parole.

Perché noi non molliamo mai, non ci arrendiamo mai, non ci rassegniamo mai. Se c’è da lottare, lottiamo. Se c’è da soffrire, soffriamo. Se c’è da uccidere, uccidiamo. Niente potrà fermarci, perché non ci mancherà mai il coraggio. Saremo sempre pronti a tutto, finché avremo sangue nel cuore. Difenderemo la nostra terra, contro gli avversari e i traditori. E continueremo a combattere, finché la nostra gloria non trionferà su tutta l’Europa.

La cosa divertente, a rifletterci bene, è che se si svuotano i contenuti, per esempio se si sostituisce all’odio razziale l’odio contro il capitale, agli islamici i ricchi, se viene sostituito il 10% dei contenuti, diventerebbe un testo di retorica violenta di qualsiasi tipo di estremismo, come le Brigate Rosse in Italia o la Rivoluzione russa. Questo non significa che non ci siano differenze, alcune cose ovviamente io le giudico più giuste di altre, ho il mio punto di vista di individuo, ma come drammaturgo ho trovato interessante vedere come la retorica sia simile.

Un episodio simile ha fatto nascere un altro testo. Risale al periodo in cui, quando ero al liceo, si era andati a manifestare contro la guerra in Iraq e contro l’America, con le bandiere della pace. Durante il corteo è stata messa una canzone italiana di Paolo Pietrangeli, del 1966, Contessa, nella versione dei Modena City Ramblers, che dice « […] ma se questo è il prezzo, vogliamo la guerra, vogliamo vedervi finir sottoterra ». È nata così l’idea di un testo, Il generale, del 20101 che racconta di un generale pacifista che per fare la pace stermina i propri soldati. Perché la retorica dell’odio genera odio: se si odia chi ti odia si arriva allo sterminio.

Giovanna Montermini: Il tuo testo è come un gioco di specchi deformanti, una distorsione in cui si mescolano realtà, delirio e proiezioni (o addirittura proiezioni proiettate, come sul palcoscenico ieri sera). Su una struttura così contemporanea, instabile, virtuale, hai deciso di inserire tre intermezzi che sono tre sassate, che portano avanti un messaggio molto forte, sulla politica, la cultura e la religione. Come ti è venuta l’idea di questi « dialoghi platonici »?

Emanuele Aldrovandi: Tre dialoghi platonici, in effetti. Io ho studiato filosofia e ho una passione per i dialoghi platonici, e la loro struttura, perché sono fondamentali per generare il dubbio. In questi dialoghi c’è « quello che sa » e poi c’è Socrate che con delle domande va a scardinare le certezze. E alla fine non si sa più veramente cosa pensare dell’argomento in questione.

Questi tre dialoghi sono tre punti che mettono in crisi, dal punto di vista politico, culturale e religioso, ciò di cui parla il testo, sono come tre focus sui temi trattati, che possono essere sia nella mente della protagonista che ad uso dello spettatore.

Mi piacerebbe concludere con un piccolo discorso sulla struttura del testo drammatico contemporaneo. A fine ’900, con il post-strutturalismo, da Rorty a Foucault, con la filosofia post-moderna che nega la possibilità di un accesso diretto alla realtà e che dice come sia impossibile conoscere il mondo, conoscere la realtà.

Questo cambio della Weltanschauung, della visione del mondo, ha influenzato tutte le arti, la politica, gli strumenti sociali e i mezzi di espressione. Per quanto riguarda il teatro e la narrazione, ha messo in crisi la narrazione teleologica ossia quella che concepisce un inizio e una fine e l’idea che la realtà, il mondo, possa essere organizzato in modo aristotelico con una serie di connessioni di causa-effetto; quindi con una causa iniziale che genera una serie di cause ed effetti in tal modo che, togliendone uno, si provoca la distruzione della catena, e una fine che cambia secondo le teorie o le religioni ma che, nella vita reale, dà la possibilità di conoscere e organizzare il reale.

Il teatro, fino a inizio o a metà ’900, raccontava questo: si basava su una narrazione che raccontava una possibilità di realtà; è andato poi in crisi diventando teatro post-drammatico, post-strutturalista, post-narrativo, esprimendo l’impossibilità di rappresentare la realtà. Ci sarebbero tanti autori da citare e sicuramente me ne dimenticherei molti.

Da parte mia e con umiltà, io vorrei raccontare delle storie che hanno comunque una narrazione, che raccontino una trasformazione, un cambiamento, un percorso – perché nella vita esistono le storie, le fabule, le vicende che la gente vive – non sono solo un’invenzione teorica per organizzare la realtà, ma sono la realtà – tutti sperimentiamo una storia d’amore che nasce, che finisce, i genitori che muoiono, il tempo che passa, tutti noi sperimentiamo la fabula nella nostra vita. Io vorrei cercare di raccontare una storia, ma senza la pretesa di una forma di teleologità, tenendo conto del post-modernismo e quindi del fatto che esiste una fabula, ma che esiste anche il suo opposto, facendo star insieme il realismo e quella cosa che non so ancora come chiamare. E gli intermezzi hanno proprio questa funzione.

Note de fin

1 E. Aldrovandi, Il generale, 2010 (il testo ha vinto il Premio Fersen 2013 e ha ottenuto la menzione speciale al Premio Tragos 2010).

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Référence électronique

Emanuele Aldrovandi, « Allarmi! Il teatro di Emanuele Aldrovandi, tra realtà e paradosso », Line@editoriale [En ligne], 10 | 2018, mis en ligne le 06 février 2024, consulté le 26 avril 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/1145

Auteur

Emanuele Aldrovandi

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