Il presente contributo, al netto dei dovuti aggiustamenti, è tratto da una tesi di dottorato intitolata L’anima dei governi. Politica, spionaggio e segreto di Stato a Venezia nel secondo Seicento (1645-1699), discussa dall’autore nell’ambito della Scuola di dottorato in studi storici e storico-religioni dell’Università di Padova (XXVIII° ciclo, Dipartimento di Scienze storiche, geografiche e dell’antichità - DISSGeA). La tesi è in corso di revisione per una prossima pubblicazione.
1.
Il rio di Noale è una delle tante vie d’acqua che, partendo dal Canal Grande, tagliano in senso più o meno trasversale il sestiere di Cannaregio. Venezia è città dalla fisionomia particolarmente refrattaria alla riduzione geometrica, razionale. Volendo tuttavia dare un significato a quel rio - e con esso, si spera, a queste pagine - potremmo dire che lungo il suo corso si trova il vertice orientale di un ipotetico triangolo privo di importanza: a nord la chiesa della Madonna dell’Orto, a ovest il campo di San Geremia e infine a est il rio di Noale. Secondo Google Maps, pur considerando qualche minima variazione in base al tragitto scelto, nemmeno mezz’ora di cammino e il giro è fatto. Nel Seicento, prima delle modifiche successive alla viabilità del sestiere, il percorso poteva essere un po’ più tortuoso; ne va che forse ci si poteva impiegare qualche minuto in più, ma la sostanza non cambia di molto. Ai meno avvezzi basterà prendere una pianta della città e per orientarsi ci vorrà un attimo: Cannaregio è la parte settentrionale di Venezia, opposta a San Marco e alla celebre piazza, sede di Palazzo Ducale. Il rio di Noale delimita la parte orientale del sestiere, quasi spezzandone la continuità.
Disegnato il triangolo immaginario e chiarite le coordinate geografiche di base, si può procedere alla definizione dei vertici.
2.
Fine del carnevale del 1660. Il segretario del Senato Francesco Zonca viene convocato in qualità di persona informata sui fatti dagli Inquisitori di Stato, massimi custodi della segretezza della Repubblica.i Di quali fatti si trattasse, è presto detto: il luganeghèr «al ponte di Noal» era in possesso di «lettere scritte in publico da un ambasciatore, e […] dentro d’esse» avvolgeva «le robbe, che si vendono in quella medesima bottega».ii Fine assai poco degna per lettere e dispacci, questo è certo. Senza soffermarsi troppo su questioni formali o, per così dire, di etichetta, il problema poteva rivelarsi serio e la conseguenza - logica - era che documenti contenenti informazioni riservate rischiassero di finire con facilità in mano d’ignoti. Un comportamento, peraltro, in netto contrasto con la legislazione vigente, che vietava la dispersione o l’appropriazione di documenti d’interesse pubblico.
In questo strano spaccio di carte pubbliche, vi era da considerare un fattore di rischio aggiuntivo: la posizione della bottega, situata all’interno di una zona peculiare di Venezia. Nella seconda metà del Seicento, infatti, le ambasciate delle più importanti monarchie continentali - Francia, Spagna e Impero - avevano sede proprio a Cannaregio, oltretutto piuttosto vicine l’una all’altra. La prima si trovava lungo il rio della Madonna dell’Orto, nei pressi dell’omonima chiesa, il vertice settentrionale del triangolo poc’anzi tracciato. Le altre due erano collocate all’interno della parrocchia di San Geremia. La loro distanza dal centro politico della città era di per sé eloquente, oltre che funzionale a prevenire reciproche interferenze indesiderate.iii
La concentrazione delle ambasciate straniere segnava in qualche modo la vita del sestiere, disegnando al suo interno piccole sfere d’influenza. Le liste, zone franche limitrofe alle ambasciate dove erano garantite le immunità diplomatiche, costituivano uno spazio libero dal controllo delle forze dell’ordine; al loro interno, il personale delle ambasciate, gli informatori al loro servizio e spesso anche contrabbandieri e criminali comuni si muovevano con agio. La lista di Spagna terminava proprio nel campo di San Geremia, vertice occidentale del triangolo. Proseguendo verso ovest, essa si estendeva fino al monastero dei carmelitani scalzi, dove sorgono l’omonima chiesa e il ponte ottocentesco che collega la stazione ferroviaria al sestiere di Santa Croce. L’onomastica urbana reca tuttora il segno della presenza spagnola nella zona: il rio terà Lista di Spagna è oggi il primo tratto di una delle direttrici turistiche e commerciali più affollate dell’intera città.
Tornando a Zonca, il segretario fu invitato a fornire tutti i particolari in sua conoscenza. In risposta, rilasciò la dichiarazione che segue:
Uno delli ultimi giorni di carnevale fui mandato a chiamare alla casa per nome dell’illustrissimo ser Nicolò Memo, perché mi contentessi andar in casa dell’illustrissimo Ciuran a San Vidal. Vi andai, e detto gentilhuomo mi mostrò due o tre lettere di mia mano scritte e sottoscritte dallo eccellentissimo ser Vicenzo Gussoni Cavalier Procurator mentre era ambasciatore, non so se alla Haya o Inghilterra. Una imparticolare sottoscritta da sua eccellenza, et una con proscritta sottoscrittione da me. Mi disse che quelle scritture le ha havute con certa carne porcum mandata a tuor da un lughanegher là verso il ponte di Noal. Che viste queste scritture publiche, andasse dallo stesso luganegher per sapere come le haveva havute. Li rispose il luganegher che haveva comprato un casson di scritture per lire quaranta dall’illustrissimo ser Francesco Gussoni, fratello del detto signor ambasciator.iv
Dunque Zonca aveva avuto modo di verificare personalmente la veridicità di quanto gli era stato riferito. Era impossibile sbagliarsi: alcune lettere le aveva scritte egli stesso e risalivano a oltre vent’anni prima, quando era al seguito del patrizio Vincenzo Gussoni. vZonca fu invitato da Civran a recarsi personalmente da Gussoni per esporgli il caso e convincerlo a recuperare le scritture incriminate, ma al momento della comparizione del segretario al Tribunale il patrizio non aveva ancora provveduto.
Le fonti tacciono sull’esito della vicenda, che dopo questa effimera apparizione scompare dalle carte conservate nel fondo degli Inquisitori di Stato. Impossibile dire se le lettere tornarono in mano pubblica o se continuarono a essere usate per incartare i prodotti del luganeghèr al ponte del rio di Noale. Salvo improvvisi tracolli finanziari, è difficile anche spiegare per quale ragione un nobile avesse venduto a un commerciante per una cifra irrisoria lettere provenienti dalla corrispondenza di un familiare, per giunta scritte durante l’adempimento di un incarico pubblico.vi Lettere, peraltro, che secondo le leggi in vigore non avrebbero dovuto nemmeno essere in possesso della famiglia Gussoni. Quale fosse il caso, data l’assenza di ulteriori elementi, pare plausibile concludere che tutto dovette risolversi senza grandi clamori.
Al di là della relativa importanza di questo episodio, quel che conta in questa circostanza è che esso presenta una serie di elementi utili per riflettere attorno alle disposizioni di legge che disciplinavano la vita dei patrizi veneziani in relazione a una materia considerata di vitale importanza per le sorti della Repubblica: la segretezza.
3.
Nelle società di antico regime il nodo tra politica e segretezza era inscindibile. L’esercizio dell’attività politica era una prerogativa riservata a nuclei sociali ristretti e pertanto da tenere il più possibile al riparo da attenzioni indiscrete.vii Arcana Imperii, Ragion di Stato: tutta la teoria politica di età moderna giustificava la necessità di occultare alle masse le azioni dei governi.viii La Repubblica di San Marco non faceva eccezione, anzi. La retorica pubblica non mancava mai di sottolineare l’importanza della segretezza per la prosperità e l’armonia dello Stato. Tutto ciò che apparteneva alla sfera politica era virtualmente segreto: segrete erano le sedute dei consigli e le loro deliberazioni, segreti i documenti conservati negli archivi pubblici, segreta la comunicazione con i rappresentanti inviati dentro e fuori i domini veneti. Operando un rovesciamento semantico rispetto alle categorie oggi in uso, si può concludere che nella Venezia moderna quanto era di interesse «publico» era di fatto segreto.
Due caratteristiche peculiari rendevano in qualche modo necessaria questa insistenza, o quantomeno ne fornivano una giustificazione più che comprensibile. Per prima cosa, la forma di governo: non una monarchia, ma una repubblica, costituita da una pluralità di consigli e magistrature che talvolta condividevano la medesima sfera di sovranità e che richiedevano un costante scambio di informazioni per garantire un’efficiente azione di governo. In secondo luogo, la presenza di una classe dirigente - il patriziato - e di un ordine di burocrati relativamente numerosi; nel complesso, indicativamente, si trattava di ben oltre duemila individui coinvolti a vario titolo nell’amministrazione dello Stato.ix Facile immaginare, dunque, quanto fosse vitale mantenere un controllo sulla fedeltà e sulla disciplina del patriziato e del personale burocratico per impedire fughe d’informazioni e per preservare il segreto di Stato.
A questa necessità, divenuta via via più stringente nel passaggio tra medioevo ed età moderna, la Serenissima rispose con la creazione nel 1539 di una specifica magistratura, gli Inquisitori di Stato, formata da soli tre patrizi e competente su tutte le questioni inerenti alla segretezza e alla propalazione del segreto di Stato. xAl tempo in cui Francesco Zonca riferì sul caso citato poco sopra, il Tribunale esisteva da oltre un secolo. Fondato nel 1539 in seno al Consiglio dei Dieci, da cui traeva autorità e procedure, esso operò inizialmente come una magistratura straordinaria inquirente; ma a metà Seicento, ormai, gli Inquisitori di Stato erano un ingranaggio stabile ed essenziale della macchina giudiziaria veneziana, competente su un ampio ventaglio di materie, oltre a costituire la principale centrale d’intelligence della Repubblica.xi
L’azione congiunta del Consiglio dei Dieci e degli Inquisitori di Stato, volta a disciplinare il patriziato e a richiamarlo agli obblighi connessi al servizio pubblico, interessava vari aspetti della vita politica e sociale della nobiltà cittadina, a cominciare proprio dal tema sollevato dal caso del luganeghér sul rio di Noale: la conservazione delle scritture prodotte dalle cariche pubbliche all’estero e in patria. Era un problema avvertito con molta sollecitudine dalle autorità venete. D’altronde la centralità dello scambio epistolare quale strumento privilegiato nella pratica politica e diplomatica in età moderna rendeva le sue tracce materiali - le lettere, i dispacci - oggetti particolarmente sensibili, da curare e da salvaguardare con estrema attenzione per proteggere le informazioni in essi contenute.xii
A Venezia la corrispondenza in entrata dalle corti estere e dai rappresentanti pubblici era affidata ai segretari, che la smistavano ai consigli cui essa era diretta e - una volta esauritone l’utilizzo - la depositavano negli archivi di competenza. Per la corrispondenza in uscita la prassi era molto simile. Una volta concordato il contenuto di una missiva, essa era redatta in due copie: una era spedita al destinatario, mentre la sua minuta veniva immediatamente archiviata ad uso dell’istituzione che l’aveva emessa. A loro volta, i pubblici rappresentanti disponevano di un archivio composto sia dalla corrispondenza ricevuta durante il loro incarico, che dalle minute di lettere e dispacci da loro inviati a Palazzo Ducale o ad altri rappresentanti pubblici, secondo le necessità. Di questi archivi pertinenti alle singole cariche, una parte era formata da documenti di carattere generale e di uso frequente e rimaneva in loco, mentre la restante parte - in sostanza le scritture riferibili al singolo inviato - rientrava a Venezia al termine dell’incarico. Come si è visto, era soprattutto quest’ultimo caso a porre problemi.xiii
Una parte del Consiglio dei Dieci del 1518 interveniva per la prima volta sulla questione, rifacendosi tuttavia a consuetudini già in uso. Era norma che «oratori, provveditori, baili, segretari et altri, che venivano mandati fuori nelli servizi dello Stato nostro» restituissero con tanto d’inventario «tutti li libri e scritture pertinenti al Stato, fatte e ricevute in tutto il tempo del viaggio suo, quali si riponevano in luoghi secreti, siccome ricercava l’importantia sua». Poiché la consuetudine era ormai caduta in disuso, il Consiglio si trovava costretto a intervenire per sollecitare una maggiore disciplina e a fissare in termini di legge l’adempimento di tale obbligo, prevedendo come pena per i trasgressori l’interdizione perpetua dagli uffici pubblici. In caso di morte del titolare, ordinarono i Dieci, sarebbe toccato agli eredi prendere in custodia le scritture e consegnarle perché fossero riposte in un «luogo segretissimo».xiv La parte, inoltre, giungeva solo pochi anni dopo la guerra contro la Lega di Cambrai e il ricordo di quei drammatici eventi era ancora ben vivo. I Dieci, dunque, colsero l’occasione per intimare la restituzione di tutte le scritture risalenti a quel periodo che ancora non erano state consegnate, poiché «nella guerra preterita sono occorse tante materie e di così estrema importantia […] non è per alcun modo a proposito che le vadino per diverse mani».xv
Dopo questo primo provvedimento, i richiami rivolti dal Consiglio di Dieci a segretari e ambasciatori al rispetto della disciplina nella gestione e nella conservazione della corrispondenza furono una costante per tutta la prima età moderna, segno che la negligenza era un malcostume diffuso.xvi Una parte - sebbene non approvata - del 1602, ribadiva gli obblighi in materia e ricordava come anche le relazioni degli ambasciatori andassero consegnate ai segretari del Senato senza darne diffusione alcuna, come del resto era vietato copiare e diffondere tutte le carte in entrata e in uscita accumulate durante lo svolgimento dell’incarico.xvii Non è un caso che un riferimento esplicito, mai riscontrato in precedenza, venisse dedicato alle relazioni. Si trattava di documenti riepilogativi, composti e presentati alla conclusione dell’incarico diplomatico, che venivano letti con grande curiosità, soprattutto perché contenevano informazioni utili ad alimentare il dibattito politico interno e pertanto, nonostante i divieti, godevano di un’ampia circolazione manoscritta dentro e fuori i domini della Serenissima.xviii Sull’efficacia di tali prescrizioni, credo basti la testimonianza del console veneziano a Genova, Giovanni Vincenzi. Il 23 ottobre del 1672 scrisse agli Inquisitori di Stato avvisandoli di come arrivassero «da Venetia tutte le relazioni delli eccellentissimi ambasciatori». Dopo aver indagato sul caso, Vincenzi scoprì che i responsabili erano «quelli che scrivono avvisi in Venetia, particolarmente sotto le Procuratie nove a San Marco».xix Le relazioni giungevano dunque nelle mani degli scrittori di avvisi, che ne spedivano in tutta segretezza copie ai loro lettori.
Tornando alla corrispondenza di ambasciatori e residenti, va fatto notare che il problema non risiedeva soltanto nella mancata restituzione delle scritture a fine mandato. Una parte del Consiglio di Dieci del luglio 1641, rilevava con un certo sconforto
l’abuso et l’introduttione fatta con gravissimo publico pregiudicio d’alcuni signori residenti fuori di questa città, mentre tralasciando come sono tenuti di scriver di propria mano quanto per ordinario loro occorre di rappresentar al Senato, si servino in questa funtione tanto importante dell’opera altrui nel scrivere le medesime lettere senza riguardo alcuno delli negotij rilevanti, che ben spesso li accade di trattare; facendo di tal modo palese ad altri quello che negotiano, scrivono et tutto ciò viene loro per ordinario commesso dal medesimo Senato, particolari tutti che per la sua qualità doveriano esser conservati presso di essi solamente, senza operar in modo che possano per causa loro esser saputi da altri.xx
Di certo non era una pratica che tutelasse granché il segreto di Stato. La parte seguiva ricordando come segretari e patrizi all’estero fossero obbligati a scrivere personalmente le missive dirette al Senato e alle altre istituzioni competenti, con il rischio, in caso di trasgressione, di decadimento immediato della carica occupata e di qualsiasi altro beneficio pubblico.xxi
Tuttavia, per quanto venissero frequentemente ribadite, le leggi in materia erano infrante con una certa regolarità. Una scrittura non datata - ma probabilmente risalente alla prima metà del Seicento - del segretario degli Inquisitori di Stato contiene un elenco di ambasciatori e segretari che non avevano consegnato interamente scritture e relazioni al rientro dalle loro missioni. La lista era piuttosto abbondante e interessava un po’ tutte le corti dove Venezia aveva una rappresentanza diplomatica. Mancavano all’appello: Alvise Foscarini, ambasciatore in Savoia, Domenico Contarini, ambasciatore in Spagna e in Savoia, Zuane Dolfin, ambasciatore in Francia e presso l’Impero, Zuane Gritti, ambasciatore a Roma, Bartolomeo Comino e Valerio Antelmi, segretari residenti a Napoli, Piero Pellegrin e Zuan Battista Padavino, residenti a Milano e altri ancora.xxii
Difficile dire per quali ragioni una porzione non trascurabile del patriziato non riconsegnasse i propri archivi al ritorno in patria, se per semplice noncuranza, o piuttosto per una forma di attaccamento personale a quei documenti. Del resto gli usi privati dei documenti pubblici potevano essere vari, al di là del poco canonico caso del luganeghér citato in apertura: dalla raccolta di informazioni, alla consultazione per motivi di servizio pubblico, al semplice diletto nel leggere scritture su materie politiche e altro. Alcuni di questi usi, peraltro, erano previsti dalle stesse leggi della Repubblica. Il lavoro dei Consultori in iure, ad esempio, si basava proprio sullo studio della documentazione conservata negli archivi, allo scopo di fornire pareri motivati su questioni giuridiche. Molti patrizi, inoltre, utilizzavano abitualmente copie di documenti pubblici nel loro lavoro e spesso lo facevano anche al di fuori di Palazzo ducale o delle altre sedi che ospitavano assemblee, uffici, magistrature della Serenissima. È un aspetto, come ha giustamente rilevato Filippo de Vivo, che rende ancor più evidente quanto fosse difficile distinguere il piano pubblico da quello privato in una società dove una specifica classe sociale tendeva a identificarsi tout court con lo Stato stesso.xxiii
4.
Oltre a cercare di porre un controllo, sebbene precario e ampiamente eluso, sulle scritture in possesso dei patrizi coinvolti nell’amministrazione dello Stato e nelle funzioni di rappresentanza diplomatica, era poi necessario disciplinare i rapporti con l’esterno della classe dirigente nel suo complesso, a cominciare dai senatori e dai membri degli altri consigli segreti. Le motivazioni erano palesi: da un lato andava tutelata il più possibile la segretezza su quanto veniva discusso all’interno dei consigli e dall’altro occorreva vigilare sulla condotta dei nobili, limitando i loro contatti con i cittadini stranieri residenti a vario titolo a Venezia e in generale con l’estero. Nel 1481 una parte dei Dieci, infatti, stigmatizzava un’abitudine contraria alla prudenza richiesta dal servizio pubblico:
Perché s’è introdotto da un tempo in qua una pessima consuetudine che i nostri cittadini del Consiglio de Pregadi, Colleggio e dei consigli secreti insieme con ambasciatori et altri cittadini forastieri e a casa sua, e per le chiese, e piazze, e cantoni parlano e rasonano de cose publiche pertinenti al nostro Stado, senza alcun respetto, exortando e confortando quelli alle so’ voggie, con non picciolo detrimento e pericolo delle cose nostre.xxiv
Il Consiglio vietò quindi ai membri di quelle assemblee di «conferir, razonar, aldir, né consejar alcun forastier, né ambassador non suddito della Signoria nostra de cose pertinenti allo Stado nostro», salvo che per riferirne «alla Signoria nostra» o ai Capi del Consiglio dei Dieci. Per i trasgressori la parte stabiliva una pena piuttosto severa: una multa di mille ducati e due anni di bando dai domini della Serenissima.xxv
Il Consiglio di Dieci si pronunciò più volte su questo problema tra Cinque e Seicento, finendo per delegare agli Inquisitori di Stato la sorveglianza sul rispetto delle leggi e la punizione degli eventuali trasgressori, senza ottenere grandi successi. Una parte del 5 gennaio 1665 ribadiva con estrema severità le prescrizioni antecedenti, rilevando come si fosse introdotto
un uso già convertito in habito pessimo e monstruoso di parlarsi publicamente e senza rispetto in ogni luogo di qualunque benché segretissima deliberatione, anzi quelle, che per l’importanza della materia doveriano maggiormente sepellirsi nel silentio, tanto più attrate dalla curiosità, familiarizarsi rilassatamente nei discorsi, rompendosi con queste prevaricate forme il religioso vincolo del giuramento, esanimando nell’essenza vitale la direttion del governo scemandosi il decoro della publica grandezza e tenendosi continuamente periclitante la salute della patria nel tradimento insieme di se stessi.xxvi
Le turbolenze derivanti dalla guerra di Candia evidentemente suggerivano una prudenza ancora maggiore: nessuno poteva parlare in pubblico di quanto si discuteva in Senato e in Collegio, né scriverne a qualsiasi titolo, pena l’imputazione di tradimento e di lesa maestà. Inoltre, nessun nobile o segretario poteva lasciare i territori della Repubblica senza l’autorizzazione del Consiglio di Dieci, né tenere corrispondenza al di fuori dei domini veneti.xxvii
Se la preoccupazione era avvertita per la classe dirigente veneziana nel suo complesso, a maggior ragione lo era per i membri del Senato. Divieti ancor più stretti e mirati disciplinavano i rapporti dei senatori con l’esterno. Nel 1533 il Consiglio intervenne sulla materia, affermando l’importanza di mantenere un «prudente silentio» su quanto si dibatteva in Pregadi e rilevando come, nonostante le norme vigenti in materia, non si erano mai potute del tutto fermare le fughe di notizie da quell’assemblea. Sicché i Dieci ribadirono che era assolutamente vietato
dir, scriver, propalar, overo per qualunque modo manifestar ad alcuno e sia chi esser si voglia, cosa overo materia alcuna letta, proposta, overo ragionatasi in esso consiglio di Pregadi, come in Collegio ed altrove pertinente allo Stato nostro, ancorché di quella non fosse commandata credenza, excepte solamente grazie, elezioni, et altre cose palesi […].xxviii
In questo caso le pene, a discrezione del Consiglio stesso, potevano essere ben più gravi, fino ad arrivare alla pena capitale riservata ai traditori.xxix
Il problema riguardava nella loro totalità i rapporti dei patrizi con l’estero: se per ovvie ragioni era loro proibito frequentare a Venezia dignitari e diplomatici stranieri, men che meno potevano relazionarsi con principi e regnanti di altri Stati. Nel 1657, per poter ricevere in regalo due cavalli dal duca di Parma e ricambiare il dono, il patrizio Simone Contarini dovette chiedere l’autorizzazione del Consiglio di Dieci.xxx Inoltre vigeva il divieto assoluto per i patrizi di organizzare balli, feste o regate in onore di personalità straniere, poiché «queste dimostrazioni» dovevano dipendere «dall’arbitrio pubblico, e non essere deliberate da privati».xxxi
Anche per intrattenere una corrispondenza epistolare con altri Stati era necessario avere espressa licenza. A onor del vero, non si trattava nemmeno di una semplice licenza:
[…] in ogni occasione di riceversi da nobili nostri, sia chi esser si vogli, alcuna lettera, o instanza da principi esteri, o da ministri de medesimi, anco che fosse di semplice complimento, non possa alcuno farvi altra risposta che quella gli sarà data in iscritto da gl’Inquisitori di Stato, né possa formarsi questa senza espressione tale che certamente tronchi il filo delle reppliche et al progresso, in consonanza di che, oltre la prima lettera, non si possi in modo alcuno permettere di rispondere […].xxxii
Gli Inquisitori di Stato, dunque, rispondevano in vece dei patrizi, in modo da troncare immediatamente la corrispondenza. Dato che all’interno dell’aristocrazia veneziana vigeva il principio dell’uguaglianza, nemmeno il doge poteva intrattenere autonomamente rapporti con altri Stati. Una parte del Maggior Consiglio del 1659, infatti, lo obbligava a portare le missive ricevute a qualsiasi titolo dall’estero nel Collegio per discuterne il contenuto e poi riportarlo al Senato.xxxiii
Erano ammesse deroghe a questo rigido protocollo, di tanto in tanto. Un patrizio, ad esempio, inoltrando per tempo una richiesta ai Capi del Consiglio dei Dieci, poteva ottenere l’autorizzazione a frequentare la casa di alcuni ministri stranieri.xxxiv Che il rapporto con gli ambasciatori residenti a Venezia fosse delicato, era un fatto pacifico, ma in occasione di visite di personalità e grandi dignitari esteri il divieto di frequentare stranieri poteva porre qualche problema. Nel principio del 1654 si trovavano a Venezia i «principi» di Brunswick e Lüneburg. Attorno alle loro dimore si produsse un continuo andirivieni di patrizi veneziani. Il Consiglio dei Dieci, preoccupato, decise di intervenire per porre un freno alla «troppo rilasciata pratica e confluenza generale». Il conflitto con le leggi in materia era palese; tuttavia non si poteva isolare i due nobili tedeschi e lasciarli privi di compagnia durante il loro soggiorno. Così il Consiglio si decise, com’era già stato concesso «ancora con loro stessi, e recentemente con prencipi anco confinanti e di maggior riguardo», a selezionare quattro nobili che allietassero la permanenza in laguna dei due principi, a patto che si confrontassero con i Capi del Consiglio, per far sì che «il tutto passi col limite, e con la moderatezza propria e naturale della Republica».xxxv
Dieci anni più tardi, i due si recarono ancora una volta in visita a Venezia e nuovamente si ripresentò il medesimo problema. Diversamente da quanto accaduto nella parte precedente, in questa occasione furono gli Inquisitori di Stato a sorvegliare sui rapporti tra i principi tedeschi e la nobiltà cittadina, intimando ai patrizi privi di autorizzazione di cessare fin da subito la frequentazione delle dimore dei due nobiluomini. A sfilare davanti al Tribunale, per subire niente più che una lavata di capo, furono chiamati ben quindici nobili veneziani.xxxvi Il problema, di fondo, era che nelle case di principi e dignitari stranieri andavano anche gli ambasciatori residenti a Venezia: da lì dunque la decisione di porre sotto controllo l’accesso dei patrizi veneziani a quelle dimore.
Più in generale era qualsiasi forma di promiscuità tra nobili e personalità straniere - ambasciatori e residenti, soprattutto - a preoccupare le autorità veneziane. Data la morfologia urbana di Venezia e la sua densità abitativa, le occasioni di contatto - anche involontarie - non mancavano ed era impossibile prevenire del tutto tali evenienze. La strategia era quella di limitare la possibilità di contatti frequenti e fuori dal controllo del Consiglio di Dieci e degli Inquisitori di Stato. Quando nel 1668 il barone Ottavio Tassis, maestro delle poste imperiali a Venezia, decise di cambiare abitazione, venne convocato dagli Inquisitori di Stato. Tassis era a tutti gli effetti un «curioso», una persona interessata - e non solo per ragioni professionali - alla politica: frequentava regolarmente le ambasciate straniere ed era ben inserito nei circuiti dell’informazione a Venezia.xxxvii Una questione di per sé abbastanza innocua, se non fosse stato per un dettaglio non trascurabile: Tassis andava ad abitare a San Luca, non lontano da Rialto, in una casa di proprietà del Procuratore Zuan Battista Corner, che era adiacente a quella dei fratelli Zatti, nobili anch’essi, che avevano «l’impresto in Senato». Così gli Inquisitori di Stato si decisero a convocarlo e a ordinagli che «non dovesse lasciar capitar alla propria riva alcun ministro di prencipe estero […] in pena della publica indignatione». Al barone non restava altro da fare che dichiararsi pronto a obbedire ai riveriti comandi del Tribunale.xxxviii
I problemi degli Inquisitori di Stato con le abitazioni di Tassis non erano terminati. A distanza di pochi anni da quel primo colloquio, il barone venne nuovamente convocato: dato che egli aveva sposato una patrizia veneziana - gli ricordarono i tre - non era opportuno che ricevesse nella propria abitazione ministri stranieri. Inoltre egli aveva cambiato un’altra volta residenza e si riproponevano problemi di rapporti con il vicinato. Nella dimora del barone, infatti, vi erano due porte «che davano communicatione a casa vicina, dove s’introduceva l’ambasciator della maestà cattolica». Per porre rimedio a questa situazione potenzialmente rischiosa, gli Inquisitori convocarono il proprietario d’entrambi gli stabili, il nobile Giacomo Vittori, e gli intimarono di «far immediate otturar le dette porte onde non si havesse più alcuna comunicatione».xxxix La possibilità anche solo vagheggiata di un contatto in un contesto privato, e quindi protetto, era sufficiente a determinare l’intervento degli Inquisitori di Stato.
5.
Il copione potrebbe proseguire per altre pagine senza sostanziali alterazioni. Di tanto in tanto ripetute trasgressioni inducevano il Consiglio dei Dieci a riaffermare con estrema severità gli obblighi connessi al servizio pubblico e a richiamare il patriziato a una stretta disciplina; si faceva largo la tentazione di inasprire le pene, di usare intransigenza verso i rei; gli Inquisitori di Stato erano chiamati a vigilare con la massima attenzione, a intervenire implacabili. Nei fatti, poi, tutto si ricomponeva all’interno di un ménage meno drammatico e per forza di cose incline al compromesso. A dispetto della loro terribile fama, gli Inquisitori intervenivano sì, anche con una certa frequenza, ma usando solo raramente la severità auspicata dalle leggi e in ogni caso sempre seguendo modalità piuttosto discrete.xl Le ragioni erano varie. La convenienza e il conflitto d’interessi, innanzitutto. Poteva accanirsi contro se stessa una classe dirigente, benché frazionata e con evidenti disparità al suo interno, impegnata collettivamente nel governo in una costante rotazione degli incarichi? Oggi a me, domani a te? Non poteva funzionare. Allo stesso modo, l’esperienza suggeriva prudenza e moderazione. Alcuni eccessi compiuti in passato avevano aperto fratture estremamente gravi all’interno del patriziato e gettato ombre inquietanti sul mito repubblicano di Venezia.xli Vi è poi da aggiungere, ragionevolmente, la relativa gravità dei comportamenti contestati. Un conto era la negligenza o la colpa, un altro il dolo. Prova ne sia che, nel corso dell’intera età moderna, solo in rari episodi vi furono conseguenze gravi.xlii Nonostante tutto, dunque, l’unità del patriziato e l’armonia della Repubblica non potevano essere messe in discussione: meglio rimanere entro certi limiti, per quanto possibile.xliii
Era quindi così compromessa la tutela del segreto di Stato e così carente la disciplina del patriziato nella Venezia moderna? Per alcuni versi sì, per altri no. Di certo la situazione non era delle migliori, come ho cercato brevemente di mostrare in queste pagine. Lo stillicidio delle fughe di informazioni era costante e in più circostanze l’impotenza delle istituzioni manifesta. Non che fosse una caratteristica esclusiva della Repubblica, anzi, ma di certo era un problema avvertito più seriamente in laguna che altrove. Del resto, impedire del tutto questo tipo d’inconvenienti era pressoché impossibile. Prevenirli in modo più efficace, questo sì, sarebbe stato possibile; ma per ottenere un maggior controllo era necessario limitare l’accesso alle informazioni e quindi a determinate cariche: in sostanza snaturare l’assetto istituzionale e il sistema di governo della Repubblica. E con quali garanzie di successo? Non mancarono tentazioni in quella direzione, né sistemi meno invasivi per cercare di stabilire un migliore controllo sulla comunicazione all’interno dei consigli.xliv La questione investiva la natura stessa del sistema politico veneziano: oligarchia o repubblica aristocratica? Il peso della tradizione implicava l’adesione alla seconda opzione, mentre le mutate esigenze imposte dallo scenario internazionale suggerivano, forse, la prima. La tensione tra le spinte oligarchiche e l’opposta volontà di mantenere un controllo dell’intera aristocrazia sugli indirizzi politici dello Stato ha segnato in più frangenti la storia della Repubblica e delle sue istituzioni. Tensione latente o esplicita, mai del tutto risolta. In ambedue i casi vi erano vantaggi e v’era un prezzo da pagare. Per salvaguardare il mito di Venezia e il suo celebrato sistema politico occorreva sacrificare almeno in parte il più prezioso dei beni: la segretezza.