p. 40-54
Introduzione
Nel 1616 il pittore fiorentino Francesco Furini dipingeva un quadro dal titolo Pittura e Poesia, una rappresentazione allegorica delle due arti raffigurate in posizione speculare, nell’atto di scambiarsi un bacio. Con questa immagine, Furini restituiva nuova vita alla celebre locuzione dell’Ars poetica oraziana, ut pictura poesis (come nella pittura, così nella poesia), finendo per evidenziare il mutuo rapporto intercorrente tra il visivo e il linguaggio, ovvero tra le immagini e le parole. Il dibattito sul rapporto tra le due forme di rappresentazione artistica ha un’origine molto antica e può essere fatto risalire al VI-V secolo a.C. quando nella cultura greca i termini scrivere e dipingere confluivano indistinti nello stesso unico verbo : graphein.
Francesco Furini, Pittura e Poesia.1
Tuttavia, mentre nell’antichità queste due arti erano definite e percepite come « arti sorelle », durante il Rinascimento si assistette ad un’inversione di tendenza che produsse un marcato spostamento di attenzione dalle similitudini tra poesia e pittura, all’accentazione delle rispettive differenze, nel tentativo di attribuire, all’una o all’altra, una presunta superiorità. Si dovrà attendere il XX secolo nel corso del quale, grazie anche all’avvento della fotografia, troveranno sviluppo il maggior numero di sperimentazioni originali in cui si faranno convivere nello stesso testo le immagini e le parole. Si pensi, ad esempio, ai fototesti di Bertolt Brecht o a quelli di Winfried Georg Sebald.
È all’interno di un simile contesto che riteniamo si possa inscrivere anche l’opera della poetessa-fotografa Antonia Pozzi che nei suoi versi, così come nei suoi album fotografici, fa convivere in modo peculiare le parole e le immagini. Infatti, non appare illogico provare a documentare come nella componente visiva/descrittiva possa essere rinvenuta la cifra più densa e autentica del suo sentire estetico.
La poesia del visivo
La poetessa, fotografa, saggista e traduttrice Antonia Pozzi nacque il 13 febbraio del 1912 a Milano. Figlia dell’importante avvocato milanese Roberto Pozzi e della contessa Lina Cavagna Sangiuliani, la Pozzi apparteneva ad una famiglia della colta borghesia lombarda, condizione che le permise di viaggiare molto in Italia ma anche in Europa. Si laureò nel 1935 con una tesi in estetica su Gustave Flaubert sotto suggerimento del suo relatore, il filosofo anticrociano Antonio Banfi. Dopo pochi anni dalla laurea, morì suicida il 3 dicembre 1938. Intellettuale poliedrica, Antonia Pozzi ha spaziato, nel pur breve arco temporale di elaborazione, dalla poesia alla prosa, alla fotografia, non disdegnando riflessioni pregnanti sulla condizione femminile, sulla religione e la laicità, confrontandosi con il codice poetico del tempo ed evidenziando quel senso di estraneità e disappartenenza dal canone letterario condiviso con altre poetesse a lei contemporanee.
Nella prefazione all’edizione postuma del 1948 della prima raccolta delle liriche pozziane intitolata : Parole, Eugenio Montale commentando i suoi versi, ne esaltava « la nettezza dell’immagine »2. Pertanto, non appare un azzardo spingersi a segnalare che il visivo si palesa come uno degli elementi più caratterizzanti della sua poetica. Potrebbe risultare sufficiente per trarne conferma esemplificativa, evocare una piccola ma non impropria rassegna riepilogativa dei suoi componimenti dove versi e titoli sembrano rincorrersi alimentando una duplice suggestione : guardami (Canto della mia nudità) ; vedi (Vertigine) ; senza vederla/penso (Sera d’Aprile) ; occhi non miei (Incredulità) ; Sguardi (Fuga) ; il titolo Gli occhi del sogno o ancora poesia che mi guardi (Preghiera alla poesia).
Come si proverà a documentare, l’universo poetico pozziano sembra accordare agli occhi la capacità di mediare nel rapporto di incontro/scontro tra naturale e reale, dal momento che essi dischiudono l’accesso al mondo sensibile, consentendo al poeta di cogliere la natura evocativa delle singole cose. A tal fine non appare ininfluente rammentare che in ambito poetico, l’accordare un ruolo privilegiato al senso della vista si inscrive in una robusta tradizione che risale al Medioevo, anche se non si fatica a rintracciare nobili echi di una simile tendenza nel pensiero di autori più prossimi come Leopardi o Baudelaire. Come osserva Nicolò Cecchella infatti :
Leopardi teorizzava dell’esistenza di una doppia vista come di una facoltà della pupilla e parallelamente dell’anima, una duplicità costante insita nello sguardo del poeta, un reale esercizio di vita.3
Leopardi si spingeva a ipotizzare che gli occhi racchiudessero l’essenza stessa della presenza vitale, fino ad affermare consapevolmente : « Dunque la significazione degli occhi è tanta, ch’essi sono i rappresentanti della vita, e basterebbero a dare una sembianza di vita agli estinti »4. Ancora Cecchella ci rammenta che Baudelaire definì la cerchia dei poeti come una tribù prophétique in quanto dotati di occhi sempre aperti, capaci di familiarizzare con ogni forma del sensibile.
L’accordare un ruolo privilegiato al senso della vista nella tradizione poetica si inserisce in un discorso metalinguistico più ampio come prova a esemplificare Daniele Barbieri in un piccolo ma denso saggio dal titolo : Letteratura a fumetti? Le impreviste avventure del racconto. In esso l’autore sottolinea come l’essere umano attribuisca alla vista un particolare privilegio tra tutti i sensi : « Nella nostra ontologia ingenua, le cose sono come le vediamo, non come le udiamo, o peggio, come le odoriamo o tocchiamo »5. Barbieri osserva inoltre come il linguaggio stesso si sia sviluppato su questa sovrapposizione cognitiva :
Nel contesto indoeuropeo, per esempio, il latino video (vedo) ha la stessa radice del tedesco wissen (sapere), dell’inglese witness (il testimone : colui che sa perché ha visto), del sanscrito vidya (la conoscenza intuitiva, diretta) ma anche dal greco eidos, o idea, che in greco come in latino è legata al vedere.6
Anche nelle liriche di Antonia Pozzi lo sguardo sembra essere il filtro privilegiato per accedere al reale ed aprire all’Io le porte per l’interazione con l’altro da sé, come si evince ad esempio, dall’analisi del componimento La stazioncina di Torre Annunziata, nel passaggio :
Né tu né io ci guardavamo in viso :
ma i miei occhi sentivan d’incontrarti.
Dove, non so. Forse in quel po’ di cielo
che si vedeva sopra la tettoia
o in mezzo alle fumate carnicine
che il Vesuvio sbuffava senza posa
e il vento senza posa smozzicava.7
In questo passaggio, il vedere simboleggia la connessione con l’altro e nello specifico con il tu a cui si rivolge la voce poetica. La doppia negazione dell’incipit, né tu né io, certifica l’assenza di un incrocio reale di sguardi, mentre il verso successivo che si apre, come di frequente nelle sue liriche, con un’avversativa ma i miei occhi sentivan d’incontrarti, pare rimandare a quella duplice proprietà dello sguardo del poeta preconizzata da Leopardi. Gli occhi non sono solo capaci di guardare ma anche di sentire, ovvero di percepire il mondo sensibile, attraverso l’anima. Nei versi precedenti è rinvenibile un chiaro esempio di come la Pozzi si serva di una sua sensibilità fotografica, anzi in questo caso quasi filmica, per descrivere il vissuto, il reale, mediante le parole. Proprio come mimando un movimento di camera infatti, fa scivolare lo sguardo poetico da quel po’ di cielo che s’intravede dalla tettoia della stazione fino ad arrestarlo, in un crescendo di pathos, sulle fumate carnicine di un Vesuvio non ancora quiescente. Qui, come in molte altre liriche pozziane, gli elementi naturali come il vulcano e il vento risultano antropomorfizzati e infatti : il Vesuvio sbuffava senza posa e il vento smozzicava.
Nel mondo poetico di Antonia Pozzi gli occhi si fanno carico di mediare tra l’io e le cose, come si esplicita nella chiusa di Fuga :
[...]
sguardi
alle cose gettati
– vani ponti –
mi divora l’abisso fragoroso.8
Lo sguardo, in questo frangente, si palesa come un ponte tra la voce poetica e le cose, anche se nello specifico i ponti gettati sono vani, come vani sono i tentativi della voce poetica di creare parole dal momento che la potenza di un’incomunicabilità incombente pare annichilire.
La luce
Ancora Barbieri nell’illustrare il privilegio che il linguaggio accorda al senso della vista, prova a descrivere il processo d’interpretazione del reale da un punto di vista fisico : l’occhio percepisce e rielabora in immagine, attraverso il cristallino, una parte della radiazione elettromagnetica che chiamiamo luce. Non sembra pertanto privo di effetti evidenziare che la Pozzi, nel trasmutare le immagini in parole, si serva delle innumerevoli gradazioni di luce non escludendo alcuna sfumatura cromatica : carnicino ; azzurrino ; bianchiccio ; grigiolino ; celestino ; cinerino ; gridellino ; purpureo ; scarlatto ; verdolino ; perlaceo ; argenteo ; ghiacciolino ; cilestrino, sono solo alcuni degli aggettivi rinvenibili nei suoi versi. Sono altresì innumerevoli le circostanze in cui si avvale delle sfumature cromatiche per descrivere delle scene vive o delle sensazioni : il colore abbrumato di un rimorso (Quadro) ; la nebbia inargentava (Luce bianca) ; ti è pallida coltre / il cielo mattinale; un sole bianco che intenerisce / sui monumenti le donne di bronzo (Luci libere).
La Pozzi sembra restituire le immagini/visioni in parole attraverso un descrittivismo che rasenta il pittorico, di cui la prima strofa di Sollievo può rappresentare un valido esempio :
Stasera, un cielo teso, tutto gonfio
di bianco, come fosse una gran vela
assicurata al margine dei tetti
con poche cuciture rosa e viola.9
[...]
Non è certo casuale se commentando la poesia pozziana, Fulvio Papi prenda in prestito dall’universo pittorico l’espressione « paesaggismo » :
l’invenzione poetica di Antonia […] pare nasca da un saper creare immagini del tutto inattese che dipingono il mondo secondo un proprio saper vedere. Non sempre il “paesaggismo” di Antonia ottiene questo risultato straordinario, ma molto spesso accade. È come se in Antonia vi fosse una “trascendenza” dell’immaginazione che ha, ovviamente, radici nel “sentire”, ma nei versi riesce a provocare una fuga immaginaria.10
Nei diversi studi che si sono soffermati sulla forte valenza visiva della poesia pozziana, si nota il tentativo di provare ad accostarla alle diverse tendenze letterarie del primo Novecento che segnalavano la medesima sovraesposizione nei confronti del visivo in poesia. Si è riscontrata in effetti una similarità nell’uso dei colori e nel lessico pozziano con i crepuscolari e con Ungaretti, loro massimo rappresentante, ma come osservato da Martina Brentan : « La scala cromatica dei crepuscolari non si allontana mai dalle tinte tenui, dai grigi, mentre Pozzi predilige il netto stacco chiaroscurale e frequentemente compaiono colori più accesi »11.
Ludovica Pellegatta, prima studiosa del corpus fotografico pozziano, trova invece che Antonia Pozzi sia più vicina alla linea Lombarda che al simbolismo perché i suoi colori, pur caricandosi di forti significati simbolici e ideali, mantengono una loro presenza e fisicità reali.
Patrick Cherif sembra ricercare una sintesi compromissoria tra le due posizioni precedenti, focalizzandosi su quella capacità ambivalente della poesia pozziana che ne innerva lo stile :
La Pozzi si colloca a metà tra il simbolismo e il realismo poiché i colori hanno sempre una notevole densità simbolica che però non si allontana mai dalla concretezza della realtà rappresentata.12
Tuttavia, ciò che sembra emergere maggiormente come registro caratterizzante la poesia della Pozzi è soprattutto una sua evidente predilezione per l’elemento chiaroscurale. Questa propensione prerogativa per il contrasto luce/buio, chiaro/scuro, segnala l’esistenza di un potentissimo nesso con la fotografia, arte da lei altrettanto praticata e investigata. Vale però notare che è peculiare nella Pozzi, una mancanza di univocità nella significazione dei colori quasi aspirasse a conferire loro un’ambivalente finalità evocativa. Utilizzando questa tecnica, infatti, il bianco può avere un’accezione positiva come ad esempio in Alba dov’è associato alla vita, dal momento che bianca è la culla del figlio desiderato, oppure può sconfinare nel suo opposto, ovvero la morte, come in Cimitero di guerra dove il biancore della neve contribuisce a restituire un’atmosfera di funerea quiete. Anche la luce del sole, elemento vitale per antonomasia, può arrivare ad assumere un’accezione negativa come nel componimento Il Porto : Io sono una nave […] corrosa dal sole.
L’attribuire significati contrastanti allo stesso lessema è quindi un espediente poetico tipico della Pozzi che si serve di diverse figure retoriche tra cui metafore, similitudini e sinestesie, per costruire un « doppio sostitutivo e rivelatore del reale »13. Come puntualmente rilevato da Graziella Bernabò, pioniera nell’ambito degli studi pozziani :
Similitudini, metafore, antitesi, sinestesie, ossimori sorgono all’interno di un ambito che potrebbe definirsi metonimico, poiché fondato sulla contiguità dei concetti in un contesto fortemente concreto e sensoriale [...].14
Osservazione che sembra trovare ulteriore conferma in Patrick Cherif quando nota che : « Pozzi attraverso un procedimento metonimico prende avvio da un’immagine reale e ci costruisce le sue poesie utilizzando la sfera lessicale di partenza ».15
La marcata sensorialità della poesia pozziana, percepibile in quei versi dove spicca notevolmente la componente visiva, può essere tradotta in ciò che uno dei più grandi storici dell’arte Ernst Gombrich chiama « il miracolo della trasformazione » insito nella poesia stessa :
C’è infatti una magia del linguaggio – quella che noi chiamiamo poesia. Da qualche parte nel crogiolo della mente poetica ha luogo il miracolo della trasformazione, in forza del quale i colori e i sapori sono tramutati in parole e ritmi.[...] I colori ci colpiscono come suoni, i suoni hanno un colore, le forme assumono una fisionomia, la fisionomia un sapore. In questo centro vivo della nostra esperienza, dove le immagini nascono dai semi dei sogni e i sogni dalle metafore, ci sembra di trovare una via di fuga dalla struttura logica del linguaggio.16
Nel saggio La visibilità, Italo Calvino, quasi precorrendo alcune odierne acquisizioni delle neuroscienze riguardo certe affinità cognitive tra immagini e parole umane, s’incarica di descrivere come le immagini nascano prima delle parole e cadano sull’artista come una sorta di pioggia. Nelle stesse pagine Calvino teorizza un duplice processo immaginativo :
Possiamo distinguere due tipi di processi immaginativi : quello che parte dalla parola e arriva all’immagine visiva e quello che parte dall’immagine visiva e arriva all’espressione verbale.17
In questo modo egli si spinge a stabilire una relazione tra parola e immagine tutt’altro che univoca.
Dall’ékphrasis alla fotografia
È dunque condivisa anche dagli scrittori contemporanei l’idea che la sfera dell’immagine e della parola viva di una propria transitorietà. Come osserva Michele Cometa nel libro La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale :
agli artisti è toccato di sperimentare sino in fondo non solo ogni possibile combinazione di testo e immagine, ma di praticare forme più o meno esplicite di ékphrasis nei testi (romanzi, liriche, saggi).18
Niccolò Cecchella ci offre un esempio molto funzionale ai fini di questa indagine : il componimento Je suis belle di Baudelaire che è stato trasformato da Rodin in una statua e, nel senso inverso, i componimenti baudelairiani Danse macabre e Le Masque altro non sono che ékphrasis delle sculture del suo amico Ernest Christophe.
Il procedimento stilistico dell’ékphrasis di età alessandrina, era considerato una prova di virtuosismo per tutti i poeti più celebri. Il termine di derivazione greca (ἔκϕρασις : esprimere con eleganza), indica il procedimento letterario di descrizione di un’opera d’arte appartenente alla sfera artistica del visivo, un quadro, una statua o in tempi più moderni, una fotografia o anche un film. L’ékphrasis, in quanto pratica letteraria molto antica, consente alla scrittura di entrare in contatto con altre arti, elevando l’esperienza estetica del poeta ma nel contempo anche del fruitore del testo.
La Pozzi in tale ambito, fa del rapporto parola-immagine un saldo principio della sua poetica e dal momento che ne sperimenta i diversi connubi possibili, ci offre alcuni esempi che possono essere ricondotti alla tecnica dell’ékphrasis. Due, in particolare, sono le liriche che possono essere indicate come un evidente esempio di ékphrasis pittorica, entrambe di ambientazione siciliana : Paesaggio siculo e Musaici di Messina.
Paesaggio siculo :
Sul greppo che di tenero verde
il nuovo grano riveste
cavalca
una donna –
tra la sella ed il grembo adagiato
porta il figlio
perché senz’urti
dorma –
lenta guardando il cielo che s’annuvola
rialza
fin sulla fronte
i lembi del mantello-
il bimbo vi si cela
tutto –
Così è dipinta
Maria nella sua fuga-19
Che questo componimento sia un’ékphrasis viene dimostrato dalla sua stessa chiusa : così è dipinta / Maria nella sua fuga -. La Pozzi probabilmente allude ad un quadro che rappresenta un episodio delle sacre scritture : la fuga in Egitto. L’episodio è narrato nel Vangelo di Matteo e com’è noto, è stato rappresentato innumerevoli volte nel corso delle diverse epoche anche dai più rinomati pittori, da Giotto al writer contemporaneo Bansky.
Tuttavia, appare difficile sottrarsi alla tentazione di segnalare che la ékphrasis in esame appaia somigliante in maniera molto suggestiva al quadro di Giulio Sartori, Fuga in Egitto (1870) conservato nella chiesa di Sona in provincia di Verona, seppur non si abbia alcuna certezza che quest’opera fosse conosciuta dalla Pozzi.
Nel componimento I musaici di Messina invece il descrittivismo appare più celato :
Sola
nella notte di rovina e di spavento
restavi tu
Maria –
incolume nell’abside
della tua cattedrale-
curva sul crollo orrendo
con il figlio ravvolto
nel tuo manto celeste –
[...]
Di quell’oro nutrivi tu –
di quel sereno
Maria
nella spaventevole notte
la solitudine tua
materna
e più fulgente il tuo serto di stelle
più turchino il tuo manto
più soave il tuo figlio
levavi
dal fondo della chiesa crollata
sulle madri dei morti-20
Come si può osservare, in questo caso non possiamo parlare di descrittivismo puro come nel componimento precedente ma già l’indicazione data dal titolo concorre a rintracciare l’ékphrasis. È infatti altamente probabile che la Pozzi stesse descrivendo il mosaico raffigurante Maria conservato nell’abside minore sinistra del Duomo di Messina.
Nel mosaico infatti Maria è raffigurata vestita di azzurro : nel tuo manto celeste – ; più turchino il tuo manto. Maria porta in grembo il bambino Gesù su uno sfondo dorato : di quell’oro nutrivi tu –. Nei versi richiamati la voce poetica menziona una notte di rovina e di spavento ; un crollo orrendo una chiesa crollata riferendosi probabilmente al terribile terremoto seguito dal disastroso maremoto del 28 dicembre 1908 che distrusse quasi completamente le città di Reggio Calabria e Messina. In quella circostanza il Duomo di Messina, già duramente colpito da un precedente sisma, crollò rovinosamente e come riportato dalle cronache, l’unico mosaico sopravvissuto alla devastazione fu proprio quello dell’abside sinistra. Per cui è facile darsi ragione del fatto che legando quel particolare alla dolorosissima memoria storica della città di Messina, la Pozzi descriva Maria come sola e incolume, quasi fosse una madre sopravvissuta : Sola/nella notte di rovina e di spavento/restavi tu/Maria –/ incolume/nell’abside/della tua cattedrale–.
Anche se Daniela De Lisio ha sottolineato la « forte sensibilità pittorica »21 della Pozzi trovando conferma in una sua vivacissima attenzione all’uso del colore, occorre ribadire, come già osservato in precedenza, che la Pozzi ha una spiccata predilezione per l’elemento chiaroscurale che rappresenta l’elemento costitutivo dell’arte fotografica. Patrick Cherif individua delle strategie stilistiche adottate dalla Pozzi per ridurre la tonalità verbale a favore della percezione immediata dell’immagine e indica emblematicamente la lirica Contemplazione istantanea come « la narrazione di un’immagine fotografica »22 :
Di là dai vetri tre rondini,
di qua dai vetri tre mosche
sfiondano
bistrattando a gara
due triangoli di svenevole azzurro.
Questa poesia racchiude una sequenza in movimento in una visione statica, resa tale tramite lo stile nominale dei primi due versi. Regna infatti la percezione visiva a cui contribuiscono i deittici di là e di qua che accompagnano lo sguardo del soggetto lirico e con la complicità di un vetro, tre rondini e tre mosche, come in un gioco di specchi, rompono due spicchi geometrici di un cielo azzurro. Anche in questa circostanza la Pozzi mostra indiscutibilmente di possedere uno sguardo fotografico, come suggerisce lo stesso titolo in cui l’aggettivo istantanea rimanda alla omonima tecnica fotografica, eseguita con un tempo di posa estremamente breve e in grado di cogliere soggetti in movimento come le rondini e le mosche che sfiondano in aria.
Gli album fotografici
Gli scatti che costituiscono il fondo dell’archivio fotografico23 della Pozzi, ammontano complessivamente a 4779 fotografie in bianco e nero. Di esse, 2925 sono raccolte in 15 album fotografici, mentre 1854 costituiscono il fondo di foto « sciolte ». Parte degli album risultano essere costruiti del tutto intenzionalmente dalla Pozzi stessa, che ha delineato un loro specifico andamento.
Nei primi scatti pozziani, dedicati alla sfera del privato, viene sottolineato il carattere eccezionale e irripetibile dei momenti impressi sulla pellicola. La Pozzi inizia a scattare fotografie intorno alla fine degli anni Venti, come testimonia la lettera destinata alla madre scritta da Carnisio il 5 luglio 1929 in cui scrive : « mi sono cimentata in mirabolanti exploits fotografici ».
Fotografia e scrittura dialogano in senso più profondo nell’album fotografico Nelle immagini l’anima, una raccolta di circa 300 scatti che la Pozzi ha editato di sua mano e offerto al suo caro amico Dino Formaggio24 poco prima di morire. Alcune fotografie presenti nella raccolta sono accompagnate da didascalie in prosa dal tono lirico che Dino Formaggio ha definito « squarci di poesia con i quali la Pozzi intendeva documentare le tonalità di fondo degli stati d’animo della fotografia, la sua stessa visione del mondo »25.
La Pozzi fa sua la tendenza che fiorisce proprio tra gli anni ’20 e ’40 in Europa, ossia far convivere nello stesso testo immagini e parole. A tal proposito, basterà rammentare a titolo esemplificativo Bruges la morta di Rodenbach (1929) o Nadja di André Breton (1928).
Un esempio di questa commistione può essere scorto nella foto di un’edicola votiva e nella didascalia che l’accompagna :
Camogli, Aprile 1938.26
Nostra signora del buon viaggio.
Ed è un poco pagana : al cuore bambino
racconta favole di principesse marine
intraviste e perdute, di navi affondate e
trasmutate in giardini di corallo... Dice anche
che, quando nel porto vien sera, si accende su
lei il vecchio lume e le conchiglie han riflessi
teneri e fiochi, di madreperla.
Ritroviamo qui l’uso dell’antinomia che ricorre spesso nei versi pozziani : nella foto un’edicola votiva della Madonna ci rimanda alla sfera semantica del sacro mentre il testo che si apre con l’avversativa Ma è un poco pagana sconfina subito invece nella sfera semantica del profano. La didascalia s’intinge di un’atmosfera fiabesca e l’intreccio dei due elementi testuali allontana il soggetto dal contesto immediatamente concreto, immettendolo in un racconto atemporale. Attraverso la commistione tra immagine e parola, la Pozzi suggerisce « il suo personalissimo scorcio prospettico »27 :
Proprio questa progressiva convergenza tra poesia e fotografia non solo costituisce una conquista, propria e tipica della ricerca creativa della Pozzi, ma indica anche come il suo stesso fotografare nascesse, da un suo saper vedere secondo una precisa intenzionalità prospettica.28
Ripensando alla rappresentazione allegorica del rapporto di sorellanza tra Pittura e Poesia riprodotto nel quadro di Furini, da cui ha preso le mosse questa riflessione, è possibile sostenere che nella Pozzi non sussista una subordinazione delle immagini alle parole o viceversa. I due elementi testuali convivono e interagiscono in modo originale e personale, unicamente per creare significazioni altre.