Con la pubblicazione, nel 1633, della Galeria delle donne celebrii, ad opera di Francesco Pona, a Venezia si assiste a un rinnovato interesse verso alcune figure di eroine riprese dalla storia antica. Nel corso del Seicento, nella Serenissima, le descrizioni riservate a donne ‘esemplari’ trovano un terreno fertile per la propria fortuna presso letterati ma anche artisti strettamente legati all’Accademia degli Incogniti, attraverso una compulsiva produzione pittorica per committenti privati. Una simile attenzione verso la figura femminile si era manifestata nel Boccaccio, ma anche nelle opere di altri autori stampate a partire dalla fine del Quattrocento. Particolarmente interessante risulta, però, il ‘caso incognito’ per la riflessione che si innesta sul ruolo e sul valore della donna, alla luce dei discorsi che si tenevano in accademia, generatori, talvolta, del risentimento da parte delle ammesse a prendervi parte (caso eccezionale per l’epoca) in qualità di ascoltatrici e autriciii.
A partire da questo circolo culturale il dibattito si evolve e si modula secondo schemi narrativi e stilemi che toccano temi e conducono a riflessioni dicotomiche. Si evidenziano inflessioni fortemente misogine associate a vere e proprie esaltazioni del gentil sesso, sia attraverso un sensuale indugiare sulla bellezza del corpo femminile, sia tramite l’esaltazione di alcune eroine che vantano un’anima virile ingabbiata in un « petto di donnaiii ».
Partendo dall’analisi di alcuni esempi letterari, che si focalizzerà in particolar modo intorno ai personaggi di Lucrezia e Artemisia, il contributo si propone di approfondire i rapporti tra la letteratura e le arti figurative, che sembrano restituire a queste figure qualità immortali. La parte focale della riflessione ruoterà intorno alla visione della donna in ambito incognito, sottolineando le ascendenze misogine radicate nel pensiero dell’accademia veneziana.
1. Figure di eroine nella letteratura ‘incognita’
Si è già citato l’esempio della Galeria delle donne celebri del Pona, a cui si aggiunge la pubblicazione, appena un anno prima, e sempre in seno agli Incogniti, degli Scherzi geniali del Loredanoiv, fondatore dell’Accademia. Ma è rintracciabile la presenza di talune ‘donne celebri’ pure in altra produzione accademicav.
La Galeria del Pona è suddivisa in tre parti (corrispondenti a tre categorie morali) all’interno delle quali sono presentati i racconti delle donne, collocate nel testo in base alla loro inclinazione di lasciva, casta o santa. Vi troviamo infatti descritte in ‘pitture’ « Le quattro lascive » (Leda, Elena, Derceto, Semiramide); « Le quattro caste » (Lucrezia, Penelope, Artemisia, Ipsicratea); e « Le quattro sante » (Maddalena, Barbara, Monica, Elisabetta regina d’Ungheria), in una scala che dalla perversione conduce alla santità, secondo il principio fondante basato sull’opposizione vizio – virtùvi.
Il padre fondatore del genere narrativo delle biografie femminili era stato il Boccaccio col suo De mulieribus claris, che nella dedicatoria dell’opera indicava come esempi di virtù etiche le donne pagane, dalle quali le cristiane avrebbero avuto molto da impararevii. La riflessione si estese nel Discorso della virtù feminile e donnesca del Tassoviii, attraversando il XVI secolo sino ad arrivare a Le vite delle donne illustri della Scrittura Sacra del canonico lateranense Tomaso Garzoni, stampate a Venezia nel 1586ix. Il Garzoni, contrariamente al Boccaccio, attinge alla Bibbia, in cui può reperire una vasta gamma di exempla per le sue biografie, senza descrivere caratteri eccezionali, ma convertendo le vite ordinarie delle donne bibliche in illustrix. Pur seguendo l’ordine cronologico come criterio narrativo, fondamentale è la netta divisione operata dal Garzoni tra le donne caste ed esemplari - che riescono a mantenere la propria integrità morale - e le donne oscure e laide, perverse e dedite a coltivare il vizioxi. Ecco affacciarsi, a questo punto, la medesima categorizzazione adottata dal Pona, che rispecchia – particolare non trascurabile - la condizione delle donne nel XVII secoloxii, alle quali si presentavano tre alternative di vita: sposarsi, chiudersi in convento o avviarsi alla prostituzione. A sua volta una tale distinzione diviene un chiaro riflesso delle tre uniche condizioni possibili per le donne, ovvero quella di puttana, monaca o moglie.
Esiste, però, un’altra corrispondenza interessante con un’opera di poco anteriore a quella dell’autore incognito. Ne La Galerìa di Giambattista Marinoxiii, infatti, compaiono le descrizioni dei dipinti raffiguranti sei delle dodici donne celebri catalogate da Pona: si tratta di Leda, Elena, Semiramide, Lucrezia, Artemisia, Maddalena. E il programma mariniano sembrerebbe costituire il modello per la Galeria delle donne celebri. Come nota Fabrizio Bondi, a partire dal titolo dell’opera emerge la volontà del Pona di rifarsi al Marino, perpetuata dall’ordinamento dei racconti sotto la definizione di pitture. Da questa raccolta l’autore incognito aveva, molto probabilmente, tratto ispirazione per risolvere un problema strutturale, volendosi mostrare all’altezza dell’ingegnosa soluzione che aveva adottato per organizzare le storie all’interno della sua opera precedente, la Lucerna (1626)xiv. Il Marino, infatti, rifacendosi presumibilmente al modello garzoniano, nella prima parte del volume dedicata alla pittura, aveva suddiviso la sezione dei ritratti di donne celebri in tre sottosezioni: Belle, caste, e magnanime; Belle, impudiche, e scelerate; Bellicose, e virtuose.
1.1 Lucrezia
Malgrado le analogie strutturali, il racconto del Pona si distanzia, almeno a un primo livello di lettura, dal significato morale espresso dal Marino. Una tale disparità connotativa si palesa nel ‘ritratto’ di Lucreziaxv. Il Pona dedica a quest’eroina una vera e propria tragedia in prosa. In essa il nodo psicologico della donna innocente che macchia la propria purezza col tradimento ‘forzato’ del proprio consorte, è risolto (o dissimulato) da una trovata morbosamente genialexvi: Lucrezia in un primo momento accetta le avances di Sesto Tarquinio, introdottosi nelle sue stanze, poiché viene colta in uno stato di semi-incoscienza, nel momento in cui si sta risvegliando. È lei stessa a narrare nel suo monologo rivolto al padre e al marito, attraverso un procedimento analettico, di aver scambiato, in un primo tempo, Sesto per il consorte Collatino:
Quindi ecco, indi a cert’hora semisvegliata, o sento, o parmi di sentire, persona che mi accarezzi. Il sonno, provocato dallo essercitio maggior del solito, nel comando della Famiglia per lo accoglimento di Sesto impiegata, si era oltre il consueto tenacemente impossessato di me: onde né desta né addormentata, mi volgo; e sì come era con voi l’animo, gettai un braccio col vezzo solito Maritale intorno il collo della persona, che mi toccava, e dissi: «O Collatino, mia vita!». A me pareva tra tanto di toccar il Cielo col dito, mentre il sonno replicandomi le forze de’ suoi papaveri sopra li occhi, maggiormente mi occupava, legando i sensi, ma lasciando la immaginativa vagare, con una fruttione mirabile di casta felicità, mentre uno spesso scoccar di baci m’invogliava d’altro nettarexvii.
Dopodiché la narrazione si sposta sull’epilogo tragico della vicenda, in cui Lucrezia, terminata la ricostruzione dei fatti, si uccide trafiggendosi il petto con un pugnale.
Diversa è la narrazione nella Galerìa mariniana, in cui, dopo un’iniziale celebrazione senz’ombre dell’eroina, introdotta nel primo madrigale a lei dedicato, nel secondo componimento si affaccia una prima riserva sulla sua pudicizia, che prelude al sorprendente ribaltamento dei versi che seguonoxviii:
Feci col sangue estinta
L’honestà viè più candida, e più pura.
Ciò solo in parte oscura
La mia loda, il mio pregio:
Ch’assai di me più forte
Non bastasse il dolore a darmi la mortexix.
Il terzo madrigale si trasforma in una dura invettiva contro Lucrezia, alla quale non viene concesso nessuno sconto di pena:
LUCRETIA, s’al’adultero Romano
Cedi senza contrasto,
Loda di nome casto
Da giusta morte ingiustamente chiedi.
Se sforzata gli cedi,
Qual follia, col morire
Portar la pena del’altrui fallire?
Inuano dunque inuano
Morendo aspiri ad immortali honori,
Ch’o scelerata, o forsennata môrixx.
Per poi continuare nei due componimenti successivi con piglio accusatorio, concludendo con una topica allusione all’avidità di oro della donna:
Donna, a torto di diè l’etate antica
Titolo di pudica;
Ché se quel sen piagasti,
Che fu d’osceno amor sozzo ricetto,
Non già però lasciasti
Di goderne illegittimo diletto.
Se voleui lodata esser da noi,
Deveui prima ucciderti, e non poixxi!
Fosti crudel, non saggio,
Quando il bel seno ignudo
A vïolar con violento oltraggio
Latino Re, prendesti.
Oh con quanto minor difesa e scudo
Espugnato l’hauresti,
Se l’hauessi tentato
D’oro più tosto, e non di ferro armatoxxii!
Il Marino sembra rifarsi all’interpretazione della vicenda data dai Padri della Chiesa, che avevano duramente condannato un simile comportamento. Già Sant’Agostinoxxiii, infatti, aveva espresso delle manifeste perplessità sull’onestà della donna, accusando i ‘giudici romani’ di non conoscere il concetto di virtù proprio in ragione della loro scelta di vederne un modello esemplare in Lucrezia. Secondo Agostino, una donna che conserva il proprio onore - essendo stata costretta a concedersi contro la sua volontà - non ha motivo di togliersi la vita: agendo in questo modo non fa altro che ammettere la propria colpevolezza.
Diversi ancora sono l’atteggiamento e il tono riservati dal Loredano all’eroina Lucrezia. Nei suoi Scherzi geniali, di poco posteriori alla Galeria poniana, si rilevano delle sostanziali ed interessanti difformità. Se permane una sorta di ‘sovrabbondanza’ barocca nella scrittura, che rende la narrazione legata attraverso la manierizzazione dei caratteri (gettando un velo sul senso morale del racconto, cui si unisce la narrazione attraverso il monologo della protagonista)xxiv, diversa è la presentazione dell’historia, il cui racconto vero e proprio è preceduto da una dedicatoria e dalla presentazione dell’argomento che fornisce un breve riassunto della vicenda. Nel caso di Lucrezia, la dedicatoria del Loredano è rivolta proprio al Pona, cui viene riservato un canonico elogio, tipico escamotage letterario che giustifica l’obbligata dichiarazione di falsa modestia e la presa di distanza assunta dall’autore nell’associare il proprio nome alla storia raccontata. Quest’incipit offre l’occasione al Loredano per incitare il Pona a riscrivere la storia di Lucreziaxxv.
Si cede poi spazio al soliloquio di Lucrezia, che comincia in medias res con la confessione al padre, al marito e a Bruto della violenza subita da parte di Sesto Tarquinio: qui è assente, però, la descrizione del suicidio, e l’episodio si conclude col congedo dell’eroina dai suoi cari. Rispetto al racconto del Pona, quello del Loredano risulta sicuramente meno interessante da un punto di vista contenutistico, poiché è più ingabbiato nella riproposizione della fonte classica. Tuttavia, oltre all’emergere delle connotazioni virili di Lucrezia, interessante è l’incessante difesa, declamata dall’eroina, della propria integrità morale. La donna pronuncia un discorso ‘profetico’, che preannuncia la sorte letteraria a cui andrà incontro: è un destino in cui verrà rimessa in discussione la propria innocenza.
Le penne de più celebri ingegni m’haverebbono sollevata all’immortalità, ed alla gloria. La mia Castità haverebbe inspirato furore a gli spiriti divini de’ Poeti. La mia virtù haverebbe dato meraviglia alla verità dell’Historia.
Hora, che ne diranno? La passione, e l’interesse, ha mille facce, e mille lingue. La verità è sempre necessaria, ma non s’attrova sempre nell’Historia. Hanno l’oro, e’l piombo gli Scrittori per compartire le lodi, e i biasimi. Tarquinio haverà ancor egli i suoi partigiani. Gl’huomini senza virtù, non sono però senza amici. Ha grandissimo seguito il vitio. Sono rari coloro, che habbiano perfetti i caratteri della bontà.
Danneranno forse la mia innocenza. Diranno, che i vezzi sono l’esca d’Amore, che le pannie amorose non prendono i cuori ritrosixxvi.
Il Loredano giustifica la ‘sventura’ di Lucrezia come conseguenza del suo eccesso di bellezza: la virilità del suo animo unita a una « somma bellezzaxxvii » diventano un’« esca di tutti i malixxviii ». Lucrezia si mostra consapevole di essere connotata, suo malgrado, da un fascino lascivo, proprio delle donne dissolute compiacenti verso la propria avvenenza. Dietro un tale fraintendimento si giustifica lo stupro subìto:
S’io fossi stata bella, non haverei forse provate l’ingiurie di quel crudele. La bellezza, ch’eccede hà introdotto il comando nella fierezza de’ cuori più barbari. La violenza non hà dominio nel bello. La venustà d’un bel volto hà in se spiriti così divini, che conciliano riverenza, e divotione. È un ritratto della beltà celeste, che rapisce alla sua contemplatione i pensieri, e le menti. Le mani non v’arrivano con la loro rapacitàxxix.
1.2 Artemisia
Per fornire un secondo significativo modello di eroina (ma l’analisi potrebbe estendersi a molte altre figure celebrate all’interno della produzione incognita), la pittura di Artemisiaxxx, narrata all’interno della Galeria del Pona, filtra un forte atteggiamento misogino, che veniva ben celato o sottilmente alluso nel racconto di Lucrezia.
Già l’attacco evidenzia lo scetticismo poniano assunto nei confronti di questa donna, che non si spiega come un’« anima dotata delle più rare eccellenze » possa entrare « à dar vita a una fanciulla », definendolo un « error grave della Natura ». Il Pona vede infatti il sesso femminile come « fragile, imbelle, e facile a piegarsi nel vizio »xxxi.
Come spiegare un tale atteggiamento? Se nel caso di Lucrezia il dogmatico suicidio, conseguente alla violenza subita, lasciava trapelare un’ambiguità nel suo epilogo (interpretazione, peraltro, avvalorata da un approccio diacronico che prende le mosse dalla visione patristica) che rimetteva in discussione la sua virtù, ad Artemisia non si può recriminare nulla. Sembra che l’autore si ostini, pertanto, a trovare una giustificazione a tale comportamento, altrimenti non decifrabile – dal suo punto di vista - se associato a una femmina. Ecco che viene dato spazio a una descrizione del personaggio, connotato da virtù e inclinazioni mascolinexxxii, dedito alla caccia e alla scherma:
La scherma, il ballo, la lotta, con Vergini ammaestrate in ciascun di questi esercitij. Vestiva l’armi talvolta, e coperta la fronte di grave elmetto (…) rappresentava una Pallade, all’hor ch’è irataxxxiii.
Interessante è la presenza del tema del travestimento, caratteristico della letteratura barocca, che qui contribuisce a restituire virilità al personaggioxxxiv. Il Pona continua dicendo che « Di rado prese l’ago, o’l filo xxxv», all’epoca attività connotative della figura femminile, e introducendo il disagio provato nell’approcciarsi la prima volta con l’altro sesso, reso attraverso la descrizione della sua prima notte di nozze:
Nell’accostarsi la prima sera allo Sposo, ella svenne, perche la novità del caso, la cangiò in pietra quanto a sensi: la vergogna trahendola fuor di sexxxvi.
La narrazione procede con la morte del consorte Mausolo e la costruzione del mausoleo. A questo punto si giunge all’epilogo della vicenda, con la scelta di Artemisia di bere le ceneri del marito per seppellirle « nelle sue viscerexxxvii»: si compie la metamorfosi mascolinizzante del personaggio, che sconfigge i Rodiani come un grande condottiero. Scegliendo di inghiottire le ceneri del consorte, si può dire che Artemisia si appropri, difatti, del potere e della forza spirituale di Mausolo, capo dotato di qualità straordinarie.
Il curioso parallelo che si crea tra il tempio in pietra, luogo inizialmente deputato ad accogliere le ceneri del defunto, e il tempio del ‘petto’ della regina, era già stato tratteggiato dal Marino nella sua Galerìa, in cui ancor più chiaramente si delinea l’aspetto petrifico dell’eroina, quasi volendo sottolinearne il carattere inanimato:
Duo cor’, duo corpi – una vil pietra unire.
Hor dentro il viuo tempio del mio petto
Haurai tomba, e ricettoxxxviii;
La forza d’animo e il coraggio di Artemisia sono tali da renderla quasi irreale. Sia il Marino che il Pona esasperano il racconto rispetto al modello offerto dalle fonti classichexxxix, rimarcando il carattere tragico dell’episodio ed esaltando la virilità d’animo dell’eroina, secondo moduli tipicamente barocchi.
2. Donne-statue e immortali
Così come si potrebbero fornire altri numerosi esempi di storie di eroine, da Agrippina a Cleopatra, da Elena a Semiramide, l’estensione della riflessione sull’inverosimiglianza e sull’irrealtà della donna, propria del milieu incognito, potrebbe rivelarsi particolarmente fruttuosa. All’interno della produzione accademica, i diffusi rimandi alla bellezza delle carni femminili generano un continuo gioco descrittivo e qualificativo reso attraverso l’uso di una terminologia convogliata a celebrare una gamma connotativa che spazia dalla durezza della pietra al candore e alla morbidezza del miele. Per fornire qualche esempio, a tal proposito, si può citare il caso de La rete di Vulcano del Pallavicinoxl, dove viene assunto un simile atteggiamento nei confronti di Venere, attraverso il passaggio dalla condizione umana a quella di una statua di cera. Il passaggio è motivato dalla perfezione fisica della dea, che così prepotentemente si allontana dal naturale. Il suo corpo risulta costituito esteriormente di cera, mentre all’interno si può gustare il suo (…) dolcissimo miele:
Hebbe agio di satollarsi, necessitato al sodisfar a quella, che si mostrava al tutto insatiabile. Era necessità il gustare dolcissimo miele, nell’interne parti di quel bellissimo corpo, che al di fuori, e nella morbidezza, e nel candore, mostrava d’esser di ceraxli.
Ma ancora nel terzo libro la dea è percepita come una scultura, un oggetto di insuperata perfezione, che riacquista al tatto le caratteristiche di un corpo animato:
Mostrando desiderio di assicurarsi, se apparivano al tatto quelle fila, che non comparivano a gli occhi, palpavano la morbidezza di quelle carni, che d’alabastro riuscivano alla pruova, non meno di durezza, che di candorexlii.
Tali osservazioni portano ad interrogarsi sulle connessioni esistenti con le teorie espresse intorno alla natura della donna il cui ruolo fu, senza dubbio, centrale nel contesto dell’accademia veneziana: a questo proposito uno studio più strutturato e approfondito potrebbe condurre a nuove interessanti considerazioni.
Sempre all’interno degli Incogniti si inscrive il racconto del Loredano, che nelle sue Bizzarrie accademichexliii dedica appunto una ‘bizzarria’ alla figura dell’ateniese Amicleo, il quale, innamoratosi della statua della Venere di Cnido scolpita da Prassitele, si congiunge con essa lasciandovi impresso il segno della propria incontinenza. In questo caso vi è uno scarto ulteriore, in cui si legittima il congiungimento di un essere umano con una statua di marmo, talmente bella da causare l’innamoramento di un giovane che non può fare a meno di consumarvi un rapporto sessualexliv.
Siamo di fronte al contrappasso dallo stato di donna a quello di statua: se le figure femminili descritte sono talmente belle – per qualità che siano morali e/o fisiche - da non poter appartenere al genere umano, a loro volta le statue che le rappresentano - o meglio che le incarnano - toccano una bellezza e una ‘verità’ tali da restituire quel naturalismo che le riconduce alla condizione umana.
L’intento di rendere in arte il naturalismo nella rappresentazione dei corpi era già radicato, peraltro, in un artista come Tizianoxlv.
Non stupisce, quindi, che un pittore come Sebastiano Mazzonixlvi, strettamente legato all’Accademia degli Incogniti e attivo a Venezia a partire dalla metà XVI secoloxlvii, nella sua raccolta di sonetti Il tempo perduto. Scherzi sconcertati, pubblicata nel 1661xlviii, tramite la celebrazione fittizia riservatagli da Jacopo Fiore in alcuni versi inviati al pittore, affermi:
Le Bellezze hor’ vegg’io MAZZON’ risorte
Grata mercè del tuo Divin Pennello,
Che ben’ tù puoi qual’ Prometeo novello,
Dar ai corpi insensati anima e sorte xlix
Ancor più sintomatico è il fatto che tale affermazione sia contenuta in un sonetto volto a esaltare un quadro del Mazzoni raffigurante Artemisial, che come una fenice risorge dalle ceneri grazie al « Divin Pennello » del pittore:
E te più fortunata ove sol’ lice,
Dal rigor dell’oblio, che hora ti accoglie,
A un Penello Immortal’ surger’ Feniceli.
All’immortalità sono quindi destinate queste eroine: a suggellare la gloria eterna interviene il ‘pennello’ di un pittore. Tale imperitura celebrazione sembra opporsi al senso di finitezza legato al destino di queste creature, la cui storia conduce spesso a un finale drammatico e, inevitabilmente, alla morte. Ed è emblematico il caso di Artemisia, che beve le ceneri del marito; dietro la sua storia viene a galla una chiara allusione alla dissoluzione del corpo dopo la morte, ma anche alla metempsicosi subita da Mausolo che rivive nel corpo della consorte.
3. Spunti analitici: i ‘ritratti letterari’ e la componente misogina
Se ai madrigali della Galerìa mariniana riguardanti queste ‘feminae illustres’ non è possibile associare una tela o un pittore per una mancanza di riferimenti che ne permettano una sicura identificazione, è innegabile come le loro storie incontrino una diffusione e una fortuna tali da divenire uno dei soggetti privilegiati degli artisti, molti dei quali attivi a Venezia. Basti pensare a Guido Reni, Guido Cagnacci, la cui evoluzione stilistica rispetto al modello del maestro bolognese si manifesterà durante il suo soggiorno veneziano, e ancora Pietro Negri, Padovanino, Luca Ferrari e il già citato Sebastiano Mazzoni. Di quali connotazioni si caricano questi ritratti? Come si declina la materia pittorica sulla tela? Essa diventa materica o più liquefatta, restituendo talvolta carnagioni livide in cui scompare il chiaroscuro.
Nel corso del Seicento, poi, a Venezia continuava il rapporto stretto tra pittori e meretrici che posavano in qualità di modelle per gli artisti, la cui presenza è rintracciabile in molti temi iconografici dei dipinti barocchi. Si piegano a questo discorso i temi biblici e i ritratti di Cleopatre e Venerilii. È forse possibile identificare le figure di queste eroine fissate sulla tela con quelle delle cortigiane veneziane contemporanee?
Uno studio sui rapporti e sul dialogo che intercorre tra la produzione artistica e quella letteraria potrebbe condurre a una corretta interpretazione di una tendenza culturale di così grande portata; non va poi trascurato il fatto che molti tra i nomi dei pittori menzionati sono strettamente legati all’Accademia degli Incogniti il cui fondatore, Giovan Francesco Loredano, fu un grande collezionista di opere d’arteliii.
Già Carlo Dionisotti aveva osservato il « vantaggio, per il Marino e per l’Italia, di una gara in cui la poesia fosse alleata delle arti figurative liv», in un proficuo interscambio tra le due dimensioni, fissando un criterio di rappresentazione letteraria dell’arte visiva. La ‘letteratura’ seicentesca vuole presentarsi, in qualche modo, come manifesto di tale tendenza, in una cultura attratta dalla digressione ecfrasticalv: non stupirà il fatto che essa diventi portavoce di una fenomenologia pittoricistica radunata dal Gettolvi per il romanzo veneto dell’età baroccalvii.
Come nota Fabrizio Bondi, in Pona « la scrittura – in prosa e in poesia - imita la pittura nella sua ipostasi retorica, non tanto gareggiando con tele esistenti, ma convocando piuttosto, quasi per compensazione, il maggior numero possibile di alleate tra le arti plastiche e figurative lviii».
Un ultimo aspetto rilevante coinvolge l’interpretazione della componente misogina, costantemente presente nei testi analizzati. Emblematico è il caso del Pona: nella Galeria mostra apertamente, come si è visto, un atteggiamento maschilista nei confronti del personaggio di Artemisia; ma ancora più interessante è l’esempio di Lucrezia, soprattutto se raffrontato alla fonte latina dell’Ab Urbe condita di Tito Livio. Se nell’autore latino la donna è presentata come forte e risoluta, diverso è il ritratto restituitoci dal Pona, in cui si allude al suo carattere di ambiguità, di fascino lascivo. In Livio, infatti, Lucrezia si assolve dalla colpa, anche se si autopunisce uccidendosi, e ordina in prima persona al marito e al padre di vendicarla. Sono questi ultimi, insieme agli amici presenti alla confessione, ad assolverla, in base al principio secondo il quale se manca l’intenzione non vi è alcuna colpa, in quanto pecca il corpo e non la mente:
(…) mentem peccare, non corpus, et unde consilium afuerit culpam abesselix
In Pona, invece, non solo Lucrezia non ha la forza di impartire ordini ai familiari in merito alla vendetta da infliggere a Sesto Tarquinio (è infatti il marito Collatino ad annunciare il suo desiderio di vendetta) ma, una volta terminato il suo racconto, svienelx.
Inoltre, nella fonte liviana è del tutto assente l’iniziale accondiscendenza del personaggio verso il suo stupratore, che la sorprende nel dormiveglia. Sembra quasi che sotto un’apparente esaltazione della donna si celi un substrato di perentoria condanna contro la stessa. Senza contare la totale decontestualizzazione che subisce il testo classico: nella tragedia antica, infatti, la morte inflitta col pugnale rappresentava un modo nobile di morire, in contrasto con l’uccisione per impiccagione, propria dei personaggi abiettilxi. In questo caso si può dire che il personaggio subisca una trasmigrazione letteraria nel contesto contemporaneo veneziano. Se si considera il nome stesso dell’eroina, si può facilmente risalire a un’omonimia diffusa nell’onomastica delle cortigiane veneziane, tra le quali il nome di Lucrezia risulta tra i più diffusi come pseudonimo utilizzato per offrirsi ai molteplici amantilxii.
4. Conclusioni
Come avviene in altra produzione incognita (si prenda il caso della Trilogia del Glisomiro di Girolamo Brusonilxiii), si può notare un dualismo di fondo nella posizione assunta verso le figure femminili: se da un lato sembra che le donne incarnino un modello di indipendenza e di affrancamento dagli uomini, dall’altro le stesse rimangono intrappolate entro le convenzioni e i limiti della morale seicentesca. Anche nel passaggio strutturale ripreso dal Pona, attraverso la redenzione dal vizio alla virtù, possiamo notare come in fondo queste figure di ‘caste’ non siano portatrici di valori totalmente positivi. Ma, soprattutto, non riescono a compiere la loro ascesa dalla perversione alla santità. Viene a crollare, in questo modo, il sistema messo in piedi dal Garzoni.
Un simile dualismo si riflette all’interno della stessa Accademia degli Incogniti: se infatti questa dette voce alle donne, dando loro la possibilità di esprimersi, è pur vero che non mancarono momenti di attrito con le personalità maschili che vi appartenevanolxiv. Le donne ne escono sempre sconfitte, rimanendo ingabbiate in un severo controllo sull’etica che non concede loro molta libertà d’azione e non risparmia nessuna condanna ai loro sbagli. L’esempio ‘incognito’ resta un affascinante caso di studio per l’ambiguità che si cela dietro una libertà d’espressione e di pensiero che occulta, talvolta, segnali di omologazione.
Come nota Federica Ambrosini nel suo saggio sulle voci femminili in terra venetalxv, per le donne ‘letterate’ era indispensabile crearsi una solida trama di amicizie maschili, in grado di offrire un’autorevole protezione dai detrattori. Il rapporto che intercorse tra la monaca Arcangela Tarabotti e il fondatore dell’accademia, Giovan Francesco Loredano, riflette queste ambivalenze. Se costui sostenne la Tarabotti e la sua attività letteraria, d’altro canto sembra che contribuì pure a bloccare la pubblicazione della Tirannia paterna e dell’Inferno monacale, a dimostrazione del fatto che il Loredano poteva concedere alla sua amica e protetta fama, ma non libertà.
Una simile serie di fatti ed eventi induce a pensare che se nel Cinquecento Venezia era stata uno dei centri della misoginia italiana (a livello di produzione letteraria), spesso si è voluto vedere nel Seicento una possibilità di cambiamento, in cui le cose sembrerebbero migliorare, grazie al lancio di lavori letterari di decisa intonazione femministalxvi. Ma si tratta di un cambiamento solo apparente. La donna, malgrado la sua presenza sulla scena del dibattito colto, porta avanti una battaglia dalla quale è destinata a uscire – nuovamente - sconfitta.
Giorgio SPINI, Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano. Nuova edizione riveduta e ampliata, Firenze, La Nuova Italia, 1983.