Tradurre Fuorigioco: mettere la lingua in subbuglio

Résumés

Riflessioni intorno alla traduzione in francese della pièce di Lisa Nur Sultan Fuorigioco/Hors-jeu. La traduzione mette per definizione la lingua in crisi obbligando il traduttore a ricreare nella lingua di arrivo un sistema significante che tenta di riprodurre un «significato» vicino quanto possibile a quello che esiste nella lingua di partenza. Il criterio della giustezza di questa equivalenza trovata nella nuova lingua è la capacità a risolvere la crisi d’espressione iniziale in cui si trova dapprima il traduttore. Par farlo egli deve mettere di nuovo la propria lingua «in subbuglio», cioè riuscire a (ri)far vibrare il senso delle parole nella sua lingua. Questo lavoro è particolarmente labile nel caso della traduzione teatrale in quanto la finzione teatrale si trova raddoppiata da una finzione traduttiva che fa sì che i personaggi si esprimano in una lingua diversa della loro lingua nazionale. Questa ricostruzione necessita una parte di adattamento, una grande attenzione al rispetto del ritmo e un’inventività per la trasposizione delle parole che possiamo definire «iconiche». Queste portano con sé tutto un mondo e operano con efficacia immediata e trasversale all’interno di un gruppo linguistico.

“Translating Fuorigioco: creating turmoil in language” is a reflection on the French translation of Lisa Nur Sultan's piece Fuorigioco/Hors-jeu. Translation creates crisis in language, by definition, forcing the translator to recreate in the target language a signifier system that attempts to reproduce a ‘signified’ as similar as possible to that in the source language. The criterion for the validity of this equivalence in the new language is the ability to resolve the initial crisis of expression in which the translator first finds himself. To do so, he must succeed in creating a new text in his own language in which the original meaning can come alive and be vibrant again, in other words, he must create ‘turmoil’ in his own language. This is most critical in theatrical translation. Theatre relies on a fragile illusion of truth, rendered even more fragile by the fact when a play is translated the characters express themselves in a language that is not their ‘own’. This means that the audience has to enter into a pact of «

‘translatory fiction’. To conclude, recreating the text in a new language obliges the translator to resort to adaptation; he must pay great attention to rhythm and be inventive, also in transposing words that can be defined as ‘iconic’. The term ‘iconic’ refers to words with a whole world of meaning, that have an immediate and transversal effectiveness within a linguistic group.

Plan

Texte

Quest’articolo sintetizza una presentazione fatta in occasione di una giornata di studi organizzata all’Université Toulouse-Jean Jaurès intorno alla pièce di Lisa Nur Sultan, Fuorigioco / Hors-jeu. Il testo pubblicato dalle Presses universitaires du Midi nella collana « Nouvelles Scènes-Italien » era già accompagnato da note di traduzione come introduzione al testo, tradotto insieme a Stéphane Resche1.

Crisi

Quando ho scoperto il titolo della giornata di studi « Teatro e crisi », la parola « crisi » mi ha immediatamente richiamato alla memoria l’esperienza molto concreta vissuta con Stéphane Resche durante la nostra traduzione a quattro mani. Molto spesso, durante il nostro lavoro, il testo di Lisa Nur Sultan ci ha posto in una sorta di crisi espressiva, per non dire crisi di nervi. Innanzi tutto perché l’autrice mette in scena un linguaggio vivissimo, ben radicato in una lingua italiana molto contemporanea che si doveva trasporre in una lingua francese altrettanto viva perché le battute potessero conservare tutta la loro efficacia. Ma soprattutto perché è una grande dialoghista che riesce a creare un’atmosfera, a far scattare con poche parole una battuta, a suggerire situazioni e a far ridere con una grande economia di mezzi. Bisognava quindi procedere a un colto procedimento di dissezione del testo italiano e, a partire da questo, inventare qualcosa nella nostra lingua. E talvolta, la soluzione non arrivava subito. O allora ci rendevamo conto, alla rilettura, che non andava bene e che bisognava ricominciare da capo.

Quindi, alla lettura del tema della giornata di studi, quello che è arrivato per primo è stato il titolo della presentazione, fatta in francese. È però arrivato in italiano. « Tradurre Fuorigioco: mettere la lingua in crisi ». Il problema è che la locuzione verbale « mettere in crisi » non esiste in francese. Detto questo, esiste una certa quantità di traduzioni possibili per « mettere in crisi »: mettre à rude épreuve – mettere a dura prova –, plonger dans la crise – far sprofondare in una crisi o appunto mettere in crisi –, mettre en cause – mettere in discussione –, porter atteinte – recar danno –, ébranler – sconvolgere –, plonger dans une situation de crise – mettere in situazione di crisi, o ancora mettre en émoi – mettere in subbuglio2. E in fin dei conti, tutte le traduzioni svelano un significato molto interessante se lo si collega all’attività del tradurre. Perché in effetti tradurre è mettere la lingua a dura prova. Tradurre è far sprofondare la lingua in una crisi. Tradurre è mettere in discussione la lingua, recar danno alla lingua, sconvolgere la lingua, mettere la lingua in una situazione di crisi o ancora tradurre è mettere la lingua in subbuglio. E questo mostra una panoplia di significati che rinviano a varie idee interessanti. La prima è quella che tradurre è « fare violenza » (mettre à rude épreuve, ébranler, porter atteinte), è scuotere la lingua, farla uscire dal suo torpore. La seconda idea è quella dell’esplorazione. Tradurre è far sprofondare in una crisi d’espressione linguistica, esplorare quello che la lingua non riesce a dire in modo immediato. Tra queste due idee di violenza e di esplorazione, si inserisce quella di traduzione come mezzo di far dire qualcosa di nuovo alla lingua, far nascere qualcosa di nuovo. Infine, in questo senso plurimo dell’espressione italiana mettere in crisi, si trova anche l’idea di stato di accusa. Tradurre significa mettere in discussione la lingua, metterla sul banco degli accusati.

Violenza, esplorazione, creazione della novità, stato di accusa: ecco le situazioni attraverso cui siamo passati con Stéphane Resche, traducendo Fuorigioco. Ma tutti questi significati dell’espressione « mettere in crisi » suggeriscono anche tre posture traduttive di fronte a quel genere di problemi che potremmo sintetizzare su piccola scala prendendo l’esempio del titolo del mio intervento. Come tradurre in francese « mettere la lingua in crisi »?

La prima soluzione sarebbe stata quella di far violenza alla lingua e di scegliere come titolo: « Traduire Fuorigioco: mettre la langue en crise ». Voleva dire fare un italianismo, una violenza alla lingua ma che permetteva tuttavia di essere in sintonia con il titolo della giornata di studi « Teatro e crisi ». Perché no? Bisogna ricordare che il francese si è creato all’epoca della Pléiade, a colpi di latinismi e che ancora ai nostri giorni gli anglismi plasmano la lingua odierna. Si può scegliere di gridare allo scandalo o allora accettarlo come un segno di una lingua realmente viva.

La seconda possibilità di fronte a questo titolo italiano, era l’accusa. « Questo titolo è intraducibile », il francese non possiede una traduzione soddisfacente dell’espressione italiana « mettere in crisi ». L’alternativa era quindi « Far sprofondare la lingua in una crisi » (ma è un titolo pesante e veramente brutto) o perdere la parola crisi, e uscire dal tema della giornata di studi. Si perdeva immediatamente qualcosa. Mi restava solo una soluzione: cambiare il titolo.

La terza possibilità era quella dell’esplorazione, quella che sto facendo qui mostrando i significati dell’espressione « mettere in crisi » e che mi ha permesso di elaborare un embrione di riflessione su ciò che è la traduzione. E ho alla fine scelto il titolo « Traduire Fuorigioco: mettre la langue en émoi », ossia « Tradurre Fuorigioco: mettere la lingua in subbuglio ». Perdevo la sintonia con il titolo della giornata di studi, ma trovavo l’idea di emozione, vibrazione, ritmo.

Tradurre, mettere la lingua in subbuglio?

Prima di procedere, vorrei spendere due parole sul dispositivo traduttivo adottato per la pièce di Lisa Nur Sultan. Nella traduzione a quattro mani con Stéphane Resche, ci siamo distribuiti i personaggi (Stéphane, Adriano e Anna ; io, Laura e Mario) e abbiamo proceduto a tappe. Ognuno di noi traduceva le battute dei personaggi per qualche pagina, poi le inviava all’altro che traduceva le battute mancanti dei suoi due personaggi per completare il testo e intanto rivedeva la traduzione ricevuta. Poi ci confrontavamo mutualmente sulle scelte fatte. Quel che ha arricchito molto il nostro lavoro è il fatto che, benché entrambi di lingua materna francese, e « bilingui » in italiano, Stéphane vive a Parigi e ha di conseguenza una relazione più immediata con lo stato contemporaneo della lingua francese, mentre io vivo a Roma da 15 anni, il che mi offre una relazione più intima e immediata con la lingua italiana nella pratica quotidiana. Bisogna infine segnalare che abbiamo sottoposto il testo a Antonella Capra, direttrice della collana Nouvelles·Scènes-Italien che si trova in una situazione speculare alla mia poiché è italiana e vive a Tolosa da una ventina d’anni (ha dunque l’italiano come lingua materna e pratica il francese con una competenza quotidiana bilingue). Correttrice pignola, ha saputo spingerci oltre i nostri limiti e permesso così di migliorare la nostra traduzione. E come ho già detto il testo di Lisa Nur Sultan metteva spesso « in crisi » la nostra capacità inventiva e traduttiva. Ora, nelle nostre discussioni, il criterio sul quale ci fondavamo per compiere delle scelte e decidere se il problema incontrato fosse stato risolto dalla soluzione che avevamo finito col trovare, si riassumeva in fin dei conti a dire: « va bene », « funziona ». Tuttavia sotto l’apparente banalità di quest’espressione, la constatazione è ben meno semplicistica di quel che può sembrare.

Cosa significa tradurre? Su scala ridotta, la parola, tradurre è semplicemente sostituire un significante di una lingua X (calcio) con il significante di una lingua Y (football) per esprimere lo stesso significato: un gioco collettivo a 22 giocatori in cui si utilizzano i piedi per passare il pallone. Ma su scala più ampia, la frase, la replica o il testo, la traduzione non consiste in una pura sostituzione trasparente di significanti per passare da una lingua all’altra. In realtà la traduzione è piuttosto una ricreazione di un sistema significante all’interno di una lingua, la ricreazione all’interno di una nuova lingua di un sistema significante che tenta di riprodurre un « significato » vicino quanto possibile a quello che esiste nella lingua di partenza.

Che cosa si intende per « significato »? È al contempo l’effetto di senso creato da un’associazione di significanti all’interno del sistema linguistico da loro composto e quello che l’autore del testo ha « voluto dire ». Il significato è in fondo un « voler dire », un « qualcosa da dire » che si dice in una lingua, che prende forma all’interno di questa, che si mette a esistere, a vibrare in quella lingua stessa. Tradurre, è ricreare nel modo più « analogo » possibile quel « qualcosa da dire » in un’altra lingua e in questa farlo vibrare. Ed è proprio il fatto di essere riusciti a ricreare quella vibrazione che ci faceva dire « va bene », « funziona », quando constatavamo insieme di aver finalmente risolto un problema di traduzione, di aver superato la crisi dell’intraducibilità di certe trovate dell’autrice del testo italiano.

Ora quella vibrazione del senso, del significato che si mette a rivivere in un nuovo sistema significante costruito in un’altra lingua ha veramente qualcosa che ha a che fare con il senso di subbuglio. È così che mi sembra che tradurre sia mettere la lingua in subbuglio: riuscire a (ri)far vibrare il senso delle parole.

Se tradurre è quindi mettere la lingua in subbuglio, questo è ancora più vero per la traduzione teatrale, in cui la lingua deve avere un’efficacia immediata, senza « giri di parole ».

Finzione teatrale e finzione traduttiva

L’esigenza propria alla traduzione teatrale consiste proprio nel carattere fittizio del dispositivo della rappresentazione scenica. E nella traduzione teatrale, il patto di finzione teatrale si trova quindi amplificato dal patto della finzione traduttiva.

Ciò che chiamo finzione teatrale è il mistero della rappresentazione. All’interno di un dispositivo artificiale, quello di uno spazio dove uomini e donne sono seduti a guardare altri uomini e donne che stanno su un palcoscenico, si crea una fragile illusione di verità, quella di credere – per prendere un esempio dalla pièce di Lisa Nur Sultan – che ci si trova a Roma, dove due coppie si incontrano sul cornicione di un palazzo la sera della semifinale tra Italia e Germania degli Europei 2012. E siccome l’autrice e il regista e gli attori sono tutti molto bravi, si crede a questa fragilissima illusione che, insomma, « funziona ».

Ma se si vuole tradurre la pièce in un’altra lingua, si domanda allo spettatore di sottoscrivere anche ad un altro patto, quello della finzione traduttiva. Ci si trova la sera della semifinale tra Italia e Germania degli Europei 2012, sul cornicione di un palazzo, in Italia, a Roma... e tutti parlano in francese. Ma ancora una volta, se oltre all’autrice, al regista e agli attori, i traduttori hanno fatto bene il loro lavoro, allora « funziona ». È un patto fragilissimo, ma ci si crede. E perché funzioni, i traduttori sono nell’obbligo di tenere costantemente a mente il problema, ossia la necessità di preservare la finzione traduttiva. Nel caso di una pièce come Fuorigioco, particolarmente legata alla realtà culturale italiana, l’introduzione di una forma di adattamento è stata un passo obbligato.

Traduzione e adattamento

Nella traduzione teatrale interviene sempre un certo grado di adattamento. Conviene però – in un primo tempo – fare le dovute distinzioni tra queste due operazioni. Un possibile adattamento della pièce sarebbe stata la completa trasposizione in un ambiente culturale francese. Riprodurre quindi il dispositivo di quattro personaggi sul cornicione di un palazzo ma cambiando città, partita, contesto politico e sociale e di conseguenza riscrivendo totalmente la pièce. Niente d’illegittimo in una simile operazione (fin tanto che l’autore è d’accordo), ma è un altro esercizio. Per quel che ci riguarda, abbiamo fatto una traduzione, non un adattamento. Si trattava di trasporre la pièce in un’altra lingua contrattando con lo spettatore un patto di finzione traduttiva.

Ma anche in una « traduzione », è necessario un certo grado di « adattamento ». Prendiamo l’esempio di quando Adriano parla di Dio ed evoca a questo proposito un giornale italiano, il settimanale Internazionale.

Io Dio me lo immagino come uno che il sabato, davanti a un caffè, si legge Internazionale. Al tavolino di un bar al sole, con calma, si tiene informato. « Scoppiata una bombola in una gelateria a Caracas. » « Sciopero dei tassisti del cartello di Huarez. » « Università di Manila: trovato il gene dell’infedeltà nel gorilla bonobo ». Lui legge, fa: « Ma pensa... Ma tu guarda... ». Non fa una minchia, come tutti quelli che leggono Internazionale, però si sente a posto, « che sa ». (p. 108)

Tradotta semplicemente in francese, l’inizio della battuta avrebbe dato: « Moi, Dieu, je me l’imagine comme un mec, le samedi, devant un café, qui lit Internazionale ». Ma in questo modo, l’effetto di complicità con lo spettatore non funziona più, presentando un doppio rischio. Da un parte, la finzione teatrale e traduttiva viene spezzata: lo spettatore potrebbe dirsi « Ah è vero, si svolge in Italia, ci sono dei giornali che non conosco, ok ». E d’altra parte la battuta non è più divertente, mentre la è in italiano e molto. Per uno spettatore francese, bisognava dunque far leggere un altro giornale a Dio. Bisognava « tradurre » il nome del giornale. Internazionale è un eccellente settimanale italiano, ispirato al Courrier international, che, come questo, pubblica delle traduzioni di articoli della stampa d’altri paesi. Un giornale con una linea editoriale molto chiara e delle scelte iconografiche molto belle. Possiamo quindi dire di aver avuto fortuna.

Vada quindi per il Courrier International. Inoltre, altro colpo di fortuna, più avanti nella stessa scena i personaggi evocano la rubrica dell’oroscopo d’Internazionale, tradotta da un americano di nome Brezny: Courrier International pubblica in effetti la stessa rubrica tradotta dall’inglese. Ma Internazionale è in realtà un po’ di più dell’equivalente di Courrier International. Si tratta di un giornale iconico in Italia. Come potrebbe essere, mi sembra, Le Monde diplomatique. In realtà, in francese, la battuta funzionava meglio con Le Monde diplomatique. Ecco qui la traduzione:

Moi, Dieu, je me l’imagine comme un mec, le samedi, devant un café, qui lit Le Monde Diplomatique. À la terrasse d’un bistrot, au soleil, tranquille, il s’informe. « Explosion d’une bonbonne de gaz dans une pâtisserie à Caracas ». « Grève des taxis du cartel de Huarez » « Université de Manille : le gène de l’infidélité identifié chez le gorille bonobo ». Il est là, il lit : « Regarde-moi ça... C’est dingue... ». Il ne bouge pas le petit doigt, comme tous ceux qui lisent Le Monde Diplomatique, mais il a la conscience tranquille, « il est au courant ».

Inoltre, il quotidiano italiano Il Manifesto pubblica ogni mese una traduzione in italiano de Le Monde diplomatique; di conseguenza, in un certo qual modo, la finzione traduttiva era salva. Il problema era questa rubrica « oroscopo » di Brezny evocata un po’ più avanti. Ora, non c’è oroscopo ne Le Monde Diplomatique. Sicché, in fin dei conti, abbiamo scelto Courrier international, per poter evocare questa rubrica che ci serviva qualche linea più giù. Una scelta di adattamento più radicale sarebbe stata il conservare Le Monde diplomatique e tagliare le tre repliche su Brezny. Anche in questo caso si tratta di una scelta, perché ogni traduzione comporta una parte di adattamento.

Questo breve passaggio presentava ugualmente vari altri problemi di traduzione che abbiamo risolto lavorando al contempo sul ritmo e la parte di adattamento peculiare alla traduzione. Abbiamo così scelto di tradurre « gelateria » (in francese glacier) con pâtisserie. Quello che gelateria evoca qui è un locale che si trova ad ogni angolo di strada: la parola pâtisserie permetteva meglio di attivare il tratto semantico della vicinanza/frequenza. In seguito, non abbiamo rispettato il livello di lingua dell’espressione « non fa una minchia ». Una frase che comportasse « minchia », termine corrente e volgare per designare il sesso maschile, si sarebbe potuta tradurre con « il n’en branle pas une », dove il verbo « branler » rispetta lo stesso livello di lingua per designare la masturbazione.

Ma l’espressione francese presenta un’idea di pigrizia, mentre l’espressione italiana in questa replica insiste piuttosto sull’inattività nel senso di mancanza di impegno. Per questo abbiamo scelto di tradurre « il ne bouge pas le petit doigt », corrispondente a « non muove un dito ». L’espressione « si sente a posto » può essere tradotta in modi diversi, ma « il a la conscience tranquille » (« ha la coscienza tranquilla ») ci sembrava la più appropriata qui. Così per la traduzione delle esclamazioni « Ma pensa… Ma tu guarda… ». In francese si perde l’anafora di « Ma » a profitto di due esclamazioni che ci sembrano « funzionare »: « Regarde-moi ça… C’est dingue… ».

Gli ultimi due problemi dipendono da quel che potremmo chiamare il « ritmo ». Innanzi tutto le tre parole che precedono l’espressione appena trattata « Lui legge, fa »; parola per parola, la traduzione darebbe « Lui il lit, il fait », ma abbiamo deciso di non rispettare la traduzione letterale per evitare l’allitterazione cacofonica delle [l] e riprodurre invece la scansione ritmica della proposizione italiana a cinque sillabe con un forte accento tonico sulla terza e la quinta: « Il est là, il lit ». Difficile dire perché, ma anche in questo caso avevamo l’impressione che « funzionasse ». Stessa cosa per la prima frase – « Io Dio me lo immagino come uno che il sabato, davanti a un caffè, si legge Internazionale » – che parola per parola si sarebbe potuto tradurre così : « Moi, Dieu, je me l’imagine comme quelqu’un qui, le samedi, devant un café, lit Courrier international »; spostando il pronome relativo e sostituendo « un mec » a « qualcuno » si otteneva un frase ben più fluida « Moi, Dieu, je me l’imagine comme un mec, le samedi, devant un café, qui lit Courrier international » (p. 109). E siccome la traduzione non è una scienza esatta, avremmo forse potuto sostituire il « caffè » – iconico in Italia – con « un demi » (una birra media in francese), o addirittura un bicchiere di bianco...

Rimettere la lingua in subbuglio traducendo Lisa Nur Sultan ha richiesto quindi da parte nostra una parte di adattamento, una grande attenzione al rispetto del ritmo e un’inventività che permettesse di ristabilire una complicità con quelle parole che ho definito « iconiche ».

Le parole iconiche

Icona è un termine ereditato dal vocabolario religioso, e più precisamente dalla tradizione ortodossa. L’icona è molto di più che una semplice « immagine sacra ». La parola è un prestito dal russo « ikona », che ha sua volta viene dal greco eikona, eikon, che significa appunto « immagine ». Ma l’icona non è la semplice rappresentazione (o la ri-presentazione) di un personaggio divino. L’immagine religiosa ha di per sé un carattere sacro. In termini linguistici, si potrebbe dire che il significante si fa carico delle virtù del significato (nel caso dell’icona religiosa il carattere sacro), il che annulla lo scarto con la sua rappresentazione e carica il significante di una grande e immediata efficacia.

Ho parlato, a proposito del settimanale Internazionale, di un giornale « iconico » in Italia proprio perché evoca, per qualsiasi italiano, tutto un immaginario (sociale, culturale, giornalistico, ecc.). Quel che definisco come parole iconiche, sono quindi parole che portano con sé tutto un mondo e che operano con efficacia immediata e trasversale all’interno di un gruppo linguistico. A causa dell’annullamento dello scarto linguistico che mettono in atto tra significante e significato, queste parole sollevano sistematicamente dei problemi di traduzione. Perché passando in un altro sistema culturale e linguistico, perdono spesso il loro potere evocativo, che deve quindi essere reinventato dal traduttore. Nel testo di Lisa Nur Sultan ve ne sono in grande quantità.

Prima di tutto si incontrano dei personaggi iconici. Citiamone tre: Mario Balottelli, Giacomo Leopardi e Pier Ferdinando Casini.

Il primo personaggio è un giocatore di calcio di colore, molto controverso in Italia, autore del primo goal della semifinale che fa da sottofondo alla pièce, il che rende semplicemente impossibile la sostituzione del suo nome. È evocato in un passaggio discorsivo che rende il compito del traduttore più facile. Inoltre, gioca anche in Francia, il che aumentava le probabilità che lo spettatore lo conoscesse. Per quanto riguarda il secondo personaggio, Giacomo Leopardi, rinvio alle note di traduzione presenti nell’edizione pubblicata presso le PUM. Interessante, invece, il terzo personaggio – Pier Ferdinando Casini – che appare in una frase cortissima e molto comica, in un passaggio abbastanza serio del testo in cui i personaggi guardano la morte in faccia e parlano del loro funerale, e in cui Adriano evoca la tomba di famiglia. È una scena dall’umorismo nerissimo, in cui l’autrice rilascia la tensione con una battuta comica che fa allusione a un politico italiano, Pier Ferdinando Casini, appunto: « Tuo zio, quello che votava Casini » (p. 114).

Nella sequenza delle battute, questa replica suscita il riso proprio perché il personaggio e da un punto di vista linguistico la parola « Casini » trasportano con sé tutto un immaginario. Casini, personaggio politico di secondo piano degli anni Berlusconi in Italia, ha iniziato la sua carriera nella Democrazia Cristiana, prima di raggiungere l’avventura berlusconiana, fondare un partito centrista, l’UDC (che ha ospitato qualche personaggio poco raccomandabile), per poi allontanarsi da Berlusconi con il governo Monti. Perciò è passato nell’opinione pubblica come un politico senza vere convinzioni e come colui che ostenta la difesa dei valori cattolici che non applica personalmente nella sua vita privata (è divorziato). Il riso nasce dall’assurdità apparente di votare (e dunque fare una scelta) per un uomo che sembra senza convinzioni. Un uomo politico che, trasposto nella realtà politica francese, potrebbe trovarsi a metà strada tra François Bayrou, Christine Boutin e Jacques Chirac.

Abbiamo esitato molto, perché per creare un effetto di complicità equivalente, sarebbe stato necessario inserire il nome di un uomo politico francese che suscitasse in un modo o in un altro un immaginario simile (François Bayrou? Gérard Larcher? Manuel Valls?). Ma così facendo si sarebbe rotta la finzione traduttiva. I personaggi sono italiani, che cosa farebbe un uomo politico francese in questo contesto? Abbiamo pensato di ricostruire un effetto comico della stessa natura senza ricorrere a un personaggio iconico: « Tuo zio che votava centro » o « Tuo zio che era razzista ». Ma si sarebbe perso, in gran parte, l’effetto comico. Ci voleva una figura iconica che strappasse una risata facile e che allentasse un po’ la tensione. Così abbiamo scelto il solo personaggio iconico della politica italiana che potesse suscitare un effetto di complicità con uno spettatore francese (benché deplorassimo di dover fare appello a un immaginario spesso caricaturale sull’Italia vista dalla Francia): « Tuo zio che votava Berlusconi ».

L’efficacia iconica di certe parole non rimanda però unicamente a dei personaggi pubblici. Esistono anche oggetti, idee iconiche. Si pensi per esempio a un complemento alimentare molto diffuso in Italia per lottare contro il caldo, il Polase. Laura racconta un episodio che la mette in scena con Adriano e spiega perché due atei inveterati come loro sono entrati in una chiesa: « Era luglio, eravamo dispersi in Sicilia, siamo entrati solo perché avevamo finito il Polase e credevamo di collassare » (p.104). La nostra versione francese è forse un po’ meno efficace dal punto di vista espressivo: « On était en juillet, au fin fond de la Sicile, on est entrés pour la simple raison qu’on mourait de chaud et qu’on n’en pouvait plus » (p. 105). Ma impossibile conservare il riferimento iconico a un complemento alimentare totalmente ignoto in Francia.

Infine ci sono parole iconiche. Ce n’è una che è precisamente evocata come tale nel testo; è alla fine della prima metà della pièce, quando Anna si decide infine a chiedere a Laura e Adriano la ragione della loro volontà di suicidarsi. Laura rifiuta in un primo tempo di lanciarsi in noiose spiegazioni (« No ma è un discorso talmente lungo… » p. 58) prima che Adriano riesca a tagliar corto grazie a una sola parola, che soddisfa pienamente le richieste di spiegazioni degli altri due personaggi (Mario: « Eh... vi capiamo fin troppo bene »; Anna: « ’o sapevo » p. 58). Adriano l’introduce peraltro con una formula che sintetizza la definizione che abbiamo tentato di dare della parola iconica che, con un solo termine, contiene tutto un mondo di discorsi che è quindi inutile esplicitare: « Ve lo dico in una parola, e poi non diciamo altro: la CRISI ».

Qui, come la parola crisi/crise evoca un immaginario comune ai nostri paesi, alle nostre due comunità linguistiche, non pone alcun problema di traduzione. Al contrario, un altro termine ci ha dato filo da torcere; si tratta della parola « pendolari ». Essa è introdotta in occasione della prima discussione tra Adriano e Laura. Laura gli rimprovera di aver rifiutato di accettare la sua proposta di suicidarsi buttandosi da un ponte della ferrovia. « Se esiste l’inferno, guarda è pieno di quelli che muoiono sotto i treni » (p.42) replica Adriano, che, alla domanda di spiegazioni di Laura (« E perché? ») risponde: « Per le maledizioni che gli tiran dietro i pendolari! » (p. 42). In italiano la parola « pendolari » viene dal gergo geografico di « spostamenti pendolari » ed è di uso molto corrente. Designa quelli che in francese si chiamerebbero « banlieusards », abitanti della periferia, o « usagers de train de banlieue », utenti dei treni di periferia. Abbiamo avuto molte difficoltà a tradurre questa battuta.

Proprio perché « pendolari » è una parola iconica, una parola che porta con sé tutto un mondo di rappresentazioni legate alle difficoltà delle condizioni di lavoro, all’organizzazione geografica centro/periferia delle nostre città, agli episodi di sciopero dei trasporti di cui sono le prime vittime, al loro « essere tenuti in ostaggio ». In francese, ci è sembrato che la parola banlieusard non « funzionasse » in questo contesto, evocando una realtà troppo parigina. Abbiamo tentato altre soluzioni con la parola « usager », utente, che porta con sé un immaginario urbano e lavorativo, ma da solo non « andava bene ». Siamo passati attraverso l’espressione « usagers des trains de banlieue » che però, troppo lunga, rallentava il ritmo. Perché la soluzione che abbiamo trovato alla fine ci ha convinto? Ancora una volta, è difficile spiegarlo. Probabilmente perché siamo riusciti a calcare in parte il ritmo sillabico della battuta (7/6/5 in italiano, 7/7/5 in francese) e a ricreare in 6 parole un effetto visivo, una situazione iconica, quella di « recarsi al lavoro ». Insomma, a ridare alle parole, in francese, una vibrazione comica. A mettere la nostra lingua in subbuglio.

LAURA Je te l’avais dit !
ADRIANO Quoi ?
LAURA Qu’il valait mieux faire ça d’un pont.
Adriano Laura écoute, on ne va pas passer les dernières minutes de notre vie à s’engueuler sur comment il fallait nous tuer, hein !
LAURA Oh, ça va !
ADRIANO Le pont je t’ai expliqué, je trouve ça triste.
LAURA Même un pont de chemin de fer ?
ADRIANO Arrête c’est encore pire. Si l’enfer existe, crois-moi, il est peuplé de gens qui sont morts sous des trains.
LAURA Et pourquoi ?
ADRIANO À cause des malédictions que leur lancent les voyageurs qui vont au boulot !

Note de fin

1 Lisa Nur SULTAN, Fuorigioco / Hors-jeu, traduzione di Frédéric Sicamois e Stéphane Resche, Collection Nouvelles Scènes-Italien, Presses universitaires du Midi, Toulouse, 2017. Le repliche qui citate sono seguite dal numero di pagina che rinvia a questa edizione.

2 La traduzione di queste locuzioni verbali – che è fornita solo a titolo indicativo – ha dato del filo da torcere alla traduttrice, che ha accettato di buon grado la sfida di trovarsi nella stessa situazione dell’autore dell’articolo.

Citer cet article

Référence électronique

Frédéric Sicamois, « Tradurre Fuorigioco: mettere la lingua in subbuglio », Line@editoriale [En ligne], 9 | 2017, mis en ligne le 06 février 2024, consulté le 25 avril 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/950

Auteur

Frédéric Sicamois

fsicamois@yahoo.fr

Traducteur

Antonella Capra