Meticciato e memoria culturale in Kkeywa. Storia di una bimba meticcia, di Carla Macoggi

Résumés

Se la memoria è uno dei fattori essenziali per costruire l’identità, sia individuale che collettiva, essa ha un ruolo importante anche nell’integrazione di un individuo in un dato gruppo sociale o etnico. L’articolo analizza l’influenza del meticciato – categoria storica e sociale emblematica della colonizzazione – sulla costruzione della memoria culturale in Kkeywa. Storia di una bimba meticcia di Carla Macoggi. Kkeywa è una bambina divisa tra le origini di suo padre e quelle di sua madre. La relazione tra la bambina e gli adulti rappresenta un momento privilegiato in cui si verifica l’assimilazione delle nozioni e delle conoscenze riguardanti l’identità. Imparare è un momento durante il quale si svela la difficoltà che può suscitare in un bambino la doppia appartenenza culturale. La protagonista vive da un lato la cultura di suo padre, già militare dell’esercito coloniale italiano in guarnigione nell’Africa Orientale e, dall’altra, quella di sua madre, etiopica. Essendo meticcia, la bambina è divisa tra due culture e non può integrarsi interamente a nessuna delle due. Da une parte subisce la violenza legata alla lacerazione identitaria – suo padre muore e sua madre si separa da lei mentre è ancora una bambina – e, d’altra parte, essendo stata educata come un’italiana, si accorge di aver respinto la cultura etiopica. Attraverso i ricordi dell’infanzia, la protagonista cerca di ricomporsi un’identità e di capire da dove viene.

This paper attempts to analyse how the hybrid identity of a little Ethiopian girl has been formed in Kkweya. Storia di una bimba meticcia by Carla Macoggi. The novel analysed is set in post-colonial Ethiopia, once occupied by Italian Colonial Empire. Macoggi tells the story of Fiorella, a little girl born from the union of an Ethiopian woman and an ancient Italian officer. Her personal and social hybrid identity is shaped all along the tale between two culture groups of her origin: the Ethiopian and the Italian one. The girl undergoes the violence of her two culture groups connected by unequal relationships structured by colonial heritage. If according to Anzaldúa the half-blood is the supreme subject crossing different cultures, Macoggi explores the ambivalence and the difficulty of shaping an hybrid identity.

Plan

Texte

Circa due anni fa, mi sono imbattuta nel testo Kkeweya. Storia di una bimba meticcia, romanzo scritto da Carla Macoggi. Mi è sembrato da subito un testo molto interessante, che forniva utili elementi di riflessione sull’educazione interculturale, ed al contempo permetteva di ritornare su alcune problematiche proprie alla letteratura postcoloniale italiana. Sebbene recente, tale letteratura è già stata oggetto di studi importanti, tra cui vanno ricordati i lavori di Ponzanesi1 ed il volume di Comberiati2 che raccoglie nove interviste ad altrettante autrici legate ai paesi colonizzati dallo stato italiano3.

Se in linea generale per letteratura postcoloniale si intende un approccio di costruzione e produzione del discorso che prende in considerazione, e dà finalmente spazio alla voce dei dominati, permettendo così di rileggere eventi storici da prospettive inedite e spesso negate, il testo di Macoggi ci sembra mettere in luce una ulteriore componente, appunto, delle dinamiche coloniali. Nelle pagine di questo racconto non troviamo solamente la voce di vissuti taciuti ma ripercorriamo le dinamiche che hanno soffocato tali voci impedendo loro di esprimersi e di sviluppare la propria identità. Si sottolinea così uno degli aspetti che caratterizza la colonizzazione e che consiste nell’annientamento, lento ma costante ed inesorabile, delle identità scomode, ovvero tutte quelle identità che potrebbero indebolire l’ordine imposto, inficiandone così gli interessi e la coerenza monolitica su cui si basa.

Come già Fanon aveva evidenziato, i disagi e le psicopatologie sviluppate dalle persone che avevano fatto esperienza dei regimi coloniali, derivavano soprattutto dall’impostazione dei rapporti relazionali costruiti in un contesto – quello coloniale – anomalo, anaffettivo, parziale nel riconoscimento dei diritti e delle libertà. È in tal senso che il razzismo – secondo le parole di Balibar – prima di essere ideologia, prima di essere senso comune e prima di essere teoria, è innanzitutto un rapporto sociale e svolge la sua precipua funzione in quanto strumento di organizzazione dei rapporti di potere. Il testo di Macoggi mette in luce proprio questo percorso di formazione identitaria, percorso costretto a svilupparsi in un contesto storicamente post-coloniale ma ancora fortemente impregnato di pregiudizi razziali che vigevano all’epoca dell’Impero. L’autrice mostra il processo di inferiorizzazione dell’identità locale a scapito di un’identità italiana, la cui interiorizzazione progressiva ed ineluttabile, annichilisce e svilisce le specificità individuali, mettendo in luce le dinamiche relazionali che generano disparità nei rapporti di potere. Le disuguaglianze raccontate da Macoggi si rivelano aggravate dalla giovane età e dalla particolare posizione etnica occupata dalla protagonista, Fiorella, nata dall’unione tra una donna etiope ed un militare italiano, arrivato in Etiopia con l’esercito italiano e poi rimastovi dopo la fine dell’impero.

La presenza di protagonisti bambini si ritrova frequentemente nei testi che trattano di meticciato, diventando sempre più una specificità del postcoloniale italiano, sia per il tema trattato che per la prospettiva adottata. Innanzitutto, il meticciato è una categoria raramente raccontata, sia come classificazione storica e sociale creata dagli imperi coloniali sia come esperienza vissuta da parte dei soggetti così categorizzati. In secondo luogo, in molti testi narrativi postcoloniali italiani, il meticciato viene raccontato attraverso la voce, i vissuti ed i ricordi dei bambini4. La scelta di raccontare il meticciato da una prospettiva infantile potrebbe da una parte interpretarsi come tentativo di trasmissione di una memoria storica di situazioni sociali passate. La trasmissione di tale memoria riguarderebbe tutto il pubblico dei lettori, con particolare attenzione ai lettori più giovani, dato il frequente incoraggiamento ad utilizzare questi testi in ambito scolastico. Letti dalle generazioni più giovani al fine di contribuire a un’educazione interculturale, i vissuti generati dalla condizione del meticciato permettono di interrogarsi sulla fondatezza delle discriminazioni cui erano soggetti i bambini nati da coppie miste e di attualizzarne la validità mettendo a confronto le discriminazioni passate con quelle attuali. D’altra parte, raccontare il meticciato mettendo in risalto le esperienze dei bambini è un modo per denunciare l’incidenza dei regimi autoritari sulla formazione identitaria e sul senso di appartenenza, prendendo in considerazione l’infanzia in quanto momento chiave dello sviluppo della percezione e della rappresentazione di sé. Raccontare il meticciato così come viene esperito dai bambini diventa allora un tropo postcoloniale poiché rievoca un aspetto fondamentale ma spesso taciuto dei colonialismi – ovvero il divieto di ogni promiscuità tra dominanti e dominati – attraverso la narrazione delle esperienze di bambine e bambini – (s)oggetti di discriminazioni e privati della possibilità di raccontare.

Questo testo sembra essere inoltre un monito a riflettere sull’attuale scenario socio-politico italiano. Una ricerca condotta ormai vent’anni fa dall’antropologa Tabet5 mostra come siano ancora presenti e vivi, nell’immaginario comune, molti stereotipi di stampo razzista. Attraverso l’analisi di temi redatti in classe da bambine e bambini delle scuole elementari e medie di tutta Italia, Tabet ha potuto mettere in evidenza la paura del diverso, in particolare se africano, e la convinzione ancora radicata di una naturale inferiorità del diverso, ancora una volta soprattutto se africano. Su tali presupposti si fonda la necessità – evidente nei testi degli scolari – di civilizzare il diverso e di emanciparlo. In questa ricerca emergono anche preoccupanti esempi di connivenza da parte degli insegnanti nei confronti delle suddette posizioni razziste, sollecitando una riflessione riguardante i fini ed i principi che guidano l’azione scolastica. La scuola è sempre stata una delle istituzioni preposte alla formazione cognitiva ma anche identitaria dei bambini, e non esiterei a dire che i due aspetti sono fortemente interdipendenti. Il ruolo svolto dalle istituzioni scolastiche ricorre inoltre in altri testi che trattano di meticciato e di discriminazione in epoca coloniale. È il caso de L’abbandono di Dell’Oro o ancora di Nuvole sull’equatore di Ramzanali Fazel, entrambi testi in cui lo spazio scolastico occupa un posto centrale nelle rappresentazioni delle dinamiche di esclusione e di svilimento attuate dalle autorità dominanti nei confronti delle bambine, evidenziando un duplice abuso di potere: sulla popolazione locale in generale e in modo ancor più incisivo sulle generazioni che l’abiteranno in futuro.

Partendo dal testo Kkweya. Storia di una bimba meticcia, vorrei in questo articolo mettere in evidenza le pratiche e le dinamiche attraverso le quali la diversità viene impartita e trasmessa, una diversità identitaria stante a significare non libertà di individuazione soggettiva bensì segregazione, inferiorità ed esclusione. Inizierò con un’introduzione al concetto di meticciato, essendo il meticciato tema e motore principale del racconto di Macoggi. Successivamente, mi soffermerò sui rapporti che la protagonista intrattiene con le figure adulte del racconto. A partire da tali rapporti sarà possibile riflettere sui processi di formazione identitaria vissuti dalla protagonista e sui sentimenti di appartenenza comunitaria generati da tali rapporti.

1. Il meticciato.

Nell’America colonizzata dagli spagnoli, i mestizos erano figlie e figli nati dall’incrocio tra individui classificati in razze diverse, appartenenti a classi sociali impari, culturalmente e soprattutto economicamente incompatibili. Da allora, il meticciato ha continuato ad essere impedito e discriminato, perché considerato una minaccia per l’equilibrio di tutti i colonialismi. Il colonialismo italiano non fa eccezione. Documenti istituzionali non troppo lontani ne sono testimonianza. I dieci articoli del Manifesto della razza – apparso per la prima volta il 5 agosto 1938 nel primo numero della rivista La difesa della razza, rivista vicina al regime fascista di Mussolini e pubblicata fino al 1943 – contengono la classificazione gerarchica dei cittadini stabilita dal regime fascista in base alla loro appartenenza razziale. La rivista La difesa della razza afferma ripetutamente che il meticciato è « un delitto contro Dio, contro la vita e l’umanità »: a differenza dell’omicidio, che « distrugge soltanto l’individuo », esso « distrugge o contamina tutta la discendenza ». Nella seconda metà degli anni trenta l’unione tra un italiano e una donna africana abitante delle colonie – ed è importante sottolineare come non si prenda neppure in considerazione l’ipotesi opposta e cioè l’eventuale unione di una donna bianca con un uomo locale – è considerata un crimine che spinge antropologi e legislatori a demonizzare le unioni miste, soprattutto per gli effetti devastanti che l’unione con le indigene avrebbe avuto sulla prole, destinata, secondo antropologi e biologi eugenisti dell’epoca, a ereditare i caratteri fisici e psicologici della madre piuttosto che del padre6.

Recentemente l’etichetta discriminatoria di meticcio è stata riabilitata ad esprimere l’irriducibile pluralità che ogni identità porta con sé. Gloria Anzaldúa sprona a mettere in discussione la concezione binaria soggiacente all’idea razzista di meticciato, incoraggiando invece a prendere coscienza degli aspetti misti e conflittuali di ogni identità ed ad usare questi angoli di visione per aprire nuove prospettive di analisi. Il meticciato diviene dunque emblema della colonizzazione con una duplice valenza: da un lato esso è prodotto dalle classificazioni coloniali imposte alle popolazioni locali dai dominatori; in tale contesto esso è simbolo di un incontro pericoloso, un campanello d’allarme, segno evidente di una penetrazione materiale troppo intima del dominatore. Dall’altro lato il meticciato è – come sottolinea Ponzanesi riprendendo Lionnet – un tropo postcoloniale che permette di esprimere l’intreccio di posizioni, cultura, genere sessuale, lingua, storia7. Se come sottolinea El Moncef Bin Khalifa riprendendo Anzaldúa, la donna meticcia è il soggetto che meglio incarna la contaminazione tra culture8, Kkweya. Storia di una bimba meticcia mostra che la presa di coscienza di tale intreccio – ed ancor più dei rapporti di forza che intercorrono tra le culture coinvolte – può rivelarsi violenta e sofferente.

2. Storia di una bimba meticcia.

Il testo considerato – edito una prima volta nel 2004 con il titolo La via per il paradiso e riedito nel 2011 – tratta di carenze, che giorno dopo giorno strutturano la soggettività della protagonista: carenze di tempi per essere bambini , carenze di rapporti affettivi leali perché costantemente normati, carenze di spazi per incontrarsi, conoscersi, esprimersi.

La storia è ambientata negli anni ‘70, in un’Etiopia postcoloniale ancora fortemente divisa al suo interno e dove venti di nuove rivoluzioni s’intrecciano a residui di vecchie segregazioni e sopraffazioni. In apertura del libro, si trova riprodotto un documento ufficiale risalente al periodo coloniale in cui viene attribuita la medaglia al valor militare ad un colonnello dell’esercito italiano che ha combattuto nell’Africa Orientale Italiana. A questo documento, segue la storia forse immaginata di Kkweya, figlia ipotetica del colonnello e di una donna etiope. In effetti, più che una ricostruzione precisa e dettagliata degli eventi coloniali, le pagine di Macoggi restituiscono il clima comportamentale di sudditanza e cesura prodotto anche, e soprattutto, da atteggiamenti di comunicazione non verbale, atteggiamenti attraverso i quali si attuava, ed ancora oggi si attua, una divisione all’interno delle relazioni instillando nelle bambine e nei bambini un senso di inferiorità. Un dispositivo coloniale9 perpetuamente attivo ed attivato perché incorporato tanto dai colonizzatori quanto dai colonizzati, come già aveva denunciato Fanon.10

Raccontato in prima persona da Fiorella, soprannominata da sua madre Kkweya che in amarico significa « la rossa », il testo si divide in due parti: una prima parte contiene i ricordi della protagonista relativi al periodo della sua vita trascorso al fianco della madre; nella seconda parte avviene il distacco dalla madre, la quale la affida alla proprietaria della pensione in cui il padre della bambina viveva prima di morire. La ragione di questa scelta non è spiegata e resta un enigma anche per Fiorella. Si può ipotizzare che sia motivata dalle preoccupazioni della madre legate alle crescenti tensioni politiche che facevano presagire già la guerra con l’Eritrea. In questo clima di conflitto imminente, una possibile partenza per l’Italia potrebbe permettere a Fiorella di continuare a studiare e vivere in un paese in pace. Questo affido però è un tacito patto col diavolo che impedirà successivamente ogni contatto tra madre e figlia: secondo le leggi vigenti al tempo del colonialismo – dunque un tempo cronologicamente precedente al tempo della narrazione ma socialmente ancora presente e riscontrabile in rapporti di forza specifici – le donne non avevano alcun diritto sui figli avuti con uomini italiani. Una volta trasferitasi al « Lombardia » – questo il nome della pensione gestita da una signora italiana arrivata in Etiopia con i primi colonizzatori – Fiorella viene obbligata a lavorare gratuitamente per la proprietaria e soprattutto a tagliare ogni tipo di legame e rapporto con la famiglia materna. Solamente sull’aereo in partenza per l’Italia, immagine con cui il libro si chiude, Fiorella prenderà coscienza di questa grande violenza non solo simbolica che ha subito.

Mentre la prima parte del libro – come già accennato – contiene i ricordi del tempo passato con la madre, ricordi di momenti spensierati raccontati con tono affettuoso, è nella seconda parte che la protagonista inizia a interrogarsi più profondamente sulla sua identità. La convivenza con la proprietaria della pensione però non permette a Fiorella di andare alla ricerca della propria soggettività, instillandole invece la convinzione dell’inaffettività della madre, svilendone quindi la figura e utilizzando questo come strumento per svalutare la cultura materna. L’atto di inculcare nelle bambine e nei bambini l’incapacità delle loro madri di accudirli ed amarli ricorre in altri testi postcoloniali, già citati in apertura, quali L’abbandono di Dell’Oro e in modo ancora più esplicito in Nuvole sull’equatore di Ramzanali Fazel.

3. Il ruolo degli adulti e la memoria culturale.

Sebbene l’analisi delle figure materne si riveli di estremo interesse al fine di sondare la portata postcoloniale di questi testi, vorrei in questo contesto estendere l’analisi alle figure adulte presenti nel testo, senza limitarmi – in questa sede – alla sola figura materna. Prendendo spunto dall’analisi condotta da Klosek sulle dinamiche di formazione identitaria nei quattro protagonisti de L’abbandono di Dell’Oro, vorrei soffermarmi sulle relazioni che Fiorella intrattiene con gli adulti delle due comunità culturali che la circondano, quella etiope e quella italiana. Queste figure sono importanti poiché è attraverso i ricordi di questi momenti che Fiorella riflette sulla sua identità. È importante tenere presente che le figure adulte presenti nel testo appartengono a due comunità distinte e soprattutto che queste due comunità sono fra loro legate da un’esperienza coloniale che le ha contrapposte. Se secondo Assmann11 la memoria culturale « si riferisce all’apprendimento di nozioni e conoscenze che l’individuo interiorizza per assorbimento di esperienze esterne », analizzare i rapporti di Fiorella con gli adulti permette di rilevare alcune delle esperienze esterne che hanno contribuito a formare non solamente la memoria culturale della protagonista ma soprattutto la sua percezione identitaria e di appartenenza comunitaria. La memoria culturale infatti « si riferisce al concetto identitario di specifiche collettività ed è ricostruttiva perché non compie una ricognizione del passato alla ricerca di una verità generica, bensì parte dal bisogno di identità del presente per trovare criteri stabilizzanti »12. È prevalentemente nei rapporti con gli adulti che la memoria culturale della protagonista viene alimentata, contribuendo alla costruzione della propria identità.

In un primo tempo prenderò in considerazione i personaggi adulti presenti nel testo ed appartenenti alle due comunità, cominciando con gli italiani e proseguendo con gli etiopi. Successivamente mi concentrerò sulla rappresentazione delle figure genitoriali, ovvero la madre e il padre, includendovi anche la figura della proprietaria della pensione dove Fiorella cresce. Tale scelta è dettata da due ragioni. In primo luogo tale figura svolge un ruolo fondamentale nella formazione identitaria di Fiorella. In secondo luogo questa figura sostituisce la madre della protagonista ed al tempo stesso fa le veci del padre, sia perché italiana e sia perché proprietaria del luogo in cui il padre abitava prima di morire. Essa rappresenta dunque l’unica persona che ha conosciuto il padre di Fiorella e che avrebbe potuto essere un ponte, un canale di esperienza e ricordi da trasmettere e raccontare alla bambina.

Tra i personaggi etiopi rilevanti per la storia della protagonista troviamo una giovane domestica che si occupa di Fiorella durante l’assenza di sua madre, assenza dovuta probabilmente al parto13; questo ricordo s’imprime nella memoria della bambina in quanto primo distacco prolungato dalla madre. Vi sono poi la zia, lo zio e i cugini, tutti parenti della madre. I ricordi di Fiorella legati ai momenti trascorsi con la famiglia della madre sono ricordi positivi. Attraverso il ricordo di tali momenti, si percepisce che la protagonista cresce felice circondata dall’affetto familiare in un ambiente che non la discrimina per il suo aspetto esteriore, per suoi capelli, per il colore della pelle o per il modo in cui mangia. Un’altra figura appartenente alla comunità etiope e molto importante per Fiorella è il suo insegnante di lingua amarica, corso facoltativo che la protagonista frequentava alle scuole elementari ma che abbandona rapidamente a seguito delle pressioni da parte della proprietaria del Lombardia. Quest’insegnante viene ricordato come colui che per primo le parlò del significato della parola anima. Infine, i dipendenti della pensione. Sebbene essi rappresentino delle presenze positive per Fiorella perché le vogliono bene e si occupano di lei – come il cuoco che le prepara la colazione con la noce di burro fresco arricciata – è proprio nel suo rapporto i dipendenti della pensione che si può vedere chiaramente la lacerazione che allontanerà la protagonista dal mondo materno. Innanzitutto la violenza presente nell’impedire a Fiorella di parlare la lingua della madre con colore che ne condividono la stessa appartenenza etnica è uno dei dispositivi con i quali vengono recisi i legami con la cultura materna. La rigida e crudele mutilazione che distanzierà Fiorella dalla cultura di origine agisce però anche e principalmente attraverso canali non verbali. Imponendo per esempio alla bambina « il compito sgradevole »14 di pagare i dipendenti – tutti etiopi e per lo più dell’età dei suoi avi – al centesimo, senza deroghe né eccezioni, la padrona dell’albergo impedisce che tra i lavoratori e la bambina si sviluppi una qualsiasi sorta di solidarietà: sia una solidarietà di classe, in quanto anch’essa è impiegata e sfruttata dalla struttura alberghiera, sia una solidarietà generata dalla comunanza linguistica ed etnica dei lavoratori con il gruppo materno. Il ruolo di guardia che le viene assegnato crea un terzo spazio nel quale la protagonista viene marcatamente differenziata dagli altri dipendenti restando tuttavia sospesa tra due condizioni : da dipendente, distribuisce le paghe, e si trova dunque in una situazione di superiorità rispetto agli altri dipendenti, senza tuttavia accedere a pieno diritto alla sfera del potere patronale, poiché su quelle paghe che distribuisce non ha alcun diritto di intervento.

Tra gli italiani vanno annoverati – oltre al padre ed alla proprietaria della pensione – le compagne di scuola di Fiorella e le rispettive famiglie. La frequentazione delle sue coetanee la spinge ad interrogarsi sul perché suo padre non dormisse mai a casa con lei e sua madre, mentre i padri della sue compagne tornano sempre a casa la sera. Nel testo si trovano poi ricordi legati alle gite a cui Fiorella partecipa con queste famiglie, ricordi piacevoli oscurati però dalle minacce della zia, che la vorrebbe sempre segregata nella pensione a lavorare. Vanno infine ricordati i croupiers del casinò locale, definiti come « gli ospiti più eleganti […] impomatati, impeccabili in smoking e farfallina »15. Queste presenze sembrano tuttavia presentate con un tono ironico. Fiorella è infatti convinta ch’essi si rechino in un mondo di favola, mentre la loro eleganza è dovuta alla divisa da lavoro che sono costretti ad indossare.

3.1 Le figure genitoriali : la madre

Durante l’infanzia, l’unico punto di riferimento di Fiorella era sua madre. Una madre dipinta come sorridente, sempre di buon umore, molto attenta e scrupolosa riguardo alla crescita della figlia: la incoraggia a studiare, impedendole di aiutarla nella faccende lavorative legate alla sua attività ristorativa, le compra abiti nuovi ad ogni occasione ed accetta che sua figlia mangi con la forchetta anche i piatti etiopi che tradizionalmente vengono consumati con le mani. Sebbene questo periodo sia più volte ricordato come il più felice che Fiorella abbia trascorso, ci sembra importante rilevare che la madre non prende mai la parola. Solamente in tre delle riflessioni che accompagnano il testo, Fiorella attribuisce uno dei suoi pensieri alla madre: quando si ricorda del madbet16 – cucina attigua alla casa – ; in riferimento al fidel17 – l’alfabeto sillabico amarico –, e infine quando spiega il significato della parola kkeywa18. Ad esclusione di tali momenti, non ci sono altri episodi in cui la madre prenda la parola e soprattutto la prenda direttamente, per esempio in un dialogo, come invece accade per il padre, il cui sguardo narrativo è presente nei primi due capitoli del testo. Quando la madre si assenta definitivamente, Fiorella crede di essere stata abbandonata e fino alla fine del libro, fino al momento in cui salirà sull’aereo che la porterà in Italia, resterà alla ricerca di una ragione che spieghi l’assenza della madre, senza tuttavia trovare una risposta. Questa separazione forzata grava infatti pesantemente sul processo di formazione identitaria della protagonista. L’allontanamento dalla madre implica una separazione netta ed immediata dalla cultura materna, dalla lingua materna, dalla famiglia e dalla comunità etnica materne. Alla separazione si accompagna l’impossibilità di parlare con la propria madre e poter elaborare tale allontanamento. L’impossibilità di parlare con la propria madre si riflette anche nell’assenza di parole pronunciate dalla madre. Il silenzio materno ricorre in altri testi; lo possiamo ritrovare ne L’abbandono di Dell’Oro, in cui Sellass ripete costantemente la frase « Come ha potuto ? » prendendo però raramente la parola per esprimere quel che sente. Anche in Nuvole sull’equatore si ritrova un lungo momento di silenzio da parte della madre della protagonista corrispondente al periodo che quest’ultima trascorre in collegio. Tormentata dal sentimento di abbandono da parte della madre, Giulia è alloggiata in un istituto religioso gestito dalle suore, le quali non esitano ad alimentare il vissuto di abbandono delle bambine, sottolineando l’inadeguatezza delle loro madri. Solo dopo essere riuscita ad avviare una propria attività economica solida, la madre di Giulia potrà riprendere con sé la figlia, spiegandole le ragioni che l’hanno spinta a lasciarla in collegio.

3.2. Le figure genitoriali : il padre

Il padre di Fiorella muore quando la bambina è ancora piccola, restando tuttavia una presenza costante nei suoi ricordi e nel suo racconto attraverso commenti e frasi che la protagonista gli attribuisce ipoteticamente: Questo avrebbe detto mio padre. Sebbene dunque la voce del padre sia presente accompagni la narrazione attraverso le frasi che la protagonista gli attribuisce in via ipotetica, frasi ch’egli avrebbe pronunciato se fosse ancora in vita, è tuttavia la proprietaria della pensione ad avere il ruolo più importante nel percorso identitario delle protagonista. Alla fine del secondo capitolo, il padre fa a Fiorella un’importante raccomandazione: la esorta a conservare sempre memoria di sé stessa. La proprietaria del Lombardia invece non fa che distruggere tale memoria giorno dopo giorno, operando una soppressione, accanita ed implacabile, di ogni riferimento al mondo materno, soppressione attuata – ancora una volta e prima di tutto – attraverso canali non verbali: è il caso già citato dell’obbligo affidato alla bambina di pagare i dipendenti della pensione al centesimo e senza eccezioni.

La separazione così imposta si concretizza dapprima in un rifiuto a parlare la lingua materna: « Giorno dopo giorno mi aveva spiegato che mia madre era un’habəša come gli altri, mi aveva tenuta con sé soltanto finché sapeva di poter aver i soldi di mio padre, e che, ora che lui era morto, non le importava più niente: però io ero una bimba molto fortunata, e c’era lei, la zia, a darmi tutto quello che avevo. […] Dopo il discredito di mia madre avvertivo in modo così sottile il disprezzo per essere habəša che cominciai a rispondere in italiano, con visibile soddisfazione della a chiunque mi rivolgesse la parola nella lingua locale.»19

4. Considerazioni conclusive.

Macoggi è nata in Etiopia ed è arrivata in Italia molto giovane. La storia che narra è forse di ispirazione autobiografica. O forse no. Ciò che interessa è da un lato il rapporto tra dimensione individuale e collettiva della memoria presente nel testo: se – come sostiene Marchetti – « tutte le memorie sono per definizione collettive, perché è nella società che il singolo si appropria di esse, è vero anche che in certi casi l’individualità del soggetto che narra diventa imprescindibile »20. La storia di Fiorella mostra le difficoltà ch’essa incontra nel confrontarsi con i suoi ricordi, difficoltà legate anche alla mancanza di un gruppo d’appartenenza con il quale condividere e perpetuare tali ricordi. In questo senso – come sottolinea Cattunar riprendendo Jedlowski – la memoria collettiva è fondamentale per la costruzione dell’identità del gruppo stesso ma anche in quanto fattore di integrazione. Come abbiamo visto, la protagonista del racconto cresce tra la cultura della madre e quella del padre. La trasmissione culturale, cui partecipano le due culture, è complicata dall’assenza del padre – le cui veci culturali vengono fatte dalla rigida proprietaria della pensione in cui il padre viveva – ma soprattutto è ostacolata dai rapporti di forza iniqui che legano le due culture, etiope ed italiana, segnate nella loro reciproca interazione dall’esperienza coloniale. In un tale contesto essa si trova sospesa tra l’inculturazione21, ovvero quel che ogni generazione trasmette alle generazioni successive, e un’acculturazione, ovvero l’incontro tra culture diverse. Se « la memoria collettiva trae la sua forza dai rapporti affettivi che legano un individuo a un determinato gruppo », la protagonista del racconto di Macoggi contesa tra due comunità contrapposte è privata della possibilità di integrarsi pienamente. L’individualità della protagonista ed il suo percorso biografico sono in questo caso imprescindibili, poiché è proprio la particolare posizione etnica e sociale che occupa ad influenzare i suoi vissuti esperienziali.

Anche l’individualità dell’autore è però imprescindibile per comprendere il valore del testo. Autobiografico o meno, il racconto di Macoggi mette in luce uno spaccato di storia etiope strettamente intrecciato con la storia italiana. Il testo dà infatti voce a « memorie postcoloniali »: memorie individuali attraverso le quali è possibile immaginare e cogliere le esperienze delle segregazioni passate ma anche valutare diversamente gli eventi attuali22.

Va rilevato che in un buon numero di testi ricorre l’ottica di narrazione infantile. E’ il caso di Macoggi, ed anche delle citate Dell’Oro e Ramzanali Fazel. In questi testi la condizione infantile è marcata dal disagio, disagio ricondotto principalmente al razzismo vigente all’epoca coloniale. Tuttavia, ricondurre la discriminazione unicamente al razzismo significherebbe sottovalutare altri fattori di esclusione altrettanto importanti, quali ad esempio le condizioni socio-economiche. A questo proposito, ci sembra importante portare l’esempio dei figli del generale Pollera23. Funzionario coloniale, Pollera soggiornò quarantacinque anni tra Etiopia ed Eritrea ed ebbe tre figli da una donna eritrea, ch’egli sposò in punto di morte. Essi hanno potuto studiare ed hanno beneficiato dell’importante posizione socio-economica occupata dal padre. La figlia è stata inoltre nominata unica erede dei beni paterni, essendo Pollera cosciente delle difficoltà cui una donna meticcia poteva andare incontro. Questo esempio permette di rilevare che la discriminazione sociale e scolastica verso i bambini nati dall’unione di donne africane e italiani, fondata su ragioni razziali, era aggravata da fattori di tipo economico. In secondo luogo, ci sembra importante sottolineare – proponendoci di approfondire questo aspetto in lavori futuri – che nei testi di queste tre scrittrici, sebbene la figura della madre sia centrale lungo tutto l’arco narrativo, essa è una figura che tace, non spiega le sue ragioni, è assente. L’assunto postcoloniale di dare voce ai subalterni, non sembra valere per le donne interessate dal fenomeno del madamato, che compaiono nelle narrazioni, ma ne restano, rese ancora una volta come oggetto e non come soggetto relazionale. I tre testi si chiudono invece con la ricerca della figura paterna da parte delle protagoniste.

Il tema del meticciato, ricorrente nei testi della letteratura postcoloniale italiana recente, permette di rileggere l’esperienza coloniale italiana da prospettive inedite per lungo tempo trascurate o peggio taciute. In un contesto come quello coloniale, il meticciato non è simbolo dell’incontro bensì segnale d’allarme di una pericolosa penetrazione materiale del dominatore che rischia così di sperperare la propria superiorità. Se come scrive Klosek citando Venturini24 i bambini meticci possono beneficiare di opportunità negate ai loro genitori, la storia narrataci da Macoggi mostra le difficoltà in cui questi bambini incorrono, difficoltà legate ai contesti sociali specifici in cui i processi di formazione identitaria infantile hanno luogo.

Il testo di Macoggi fa emergere la persistenza dei dispositivi coloniali che continuano ad essere presenti e attivi dopo la fine amministrativa del colonialismo. Nello specifico, esso sottolinea che il meticciato in quanto intreccio – quale lo sollecita Anzaldúa – non è una condizione immediata del post-coloniale cronologico. Esso è invece fortemente legato alle condizioni di ascoltabilità – come dice Butler25 – in cui avvengono gli incontri, i passaggi e gli scambi tra una cultura ed un’altra, tra una soggettività ed un’altra. Il meticciato diventa allora emblema della postcolonialità. Come spiega Marchetti, il termine « postcolonialità » viene usato « per intendere qualcosa di diverso, anche se non in contraddizione, rispetto al più comune « postcolonialismo ». Mentre il termine « postcolonialismo » si riferisce ad una serie di analisi e di approcci intellettuali validi principalmente sul piano estetico e letterario, con « postcolonialità » – secondo la definizione di Huggan Graham ripresa da Marchetti – si allude all’esistenza di un « regime culturale » radicato nell’eredità del colonialismo, che determina le condizioni di valore e scambio per ogni tipo di merce all’interno del contesto tardo-capitalistico e globalizzato, compresi gli scambi e i contatti culturali. » 26.

Nota bene : il contenuto di questo articolo riprende parzialmente il materiale utilizzato per una comunicazione al convegno « Passeurs de cultures et transferts culturels » tenutosi a l’Università di Nancy 2 dal 4 al 6 ottobre 2012.

Bibliographie

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Silvia CONTARINI , « Matria, Patria, Dismatria », in Nazione Indiana, 12 agosto 2012. In linea <http://www.nazioneindiana.com/2012/08/23/matria-patria-dismatria/>.

Erminia DELL’ORO, L’abbandono. Una storia eritrea, Torino, Einaudi, « Collana », 1988.

Frantz FANON, Peau noire, masques blancs, 1952, rééd., Le Seuil, col. « Points », 2001

Wieslava KLOSEK, « Dinamiche identitarie nel contesto coloniale ne L’abbandono. Una storia eritrea di Dell’Oro», Romanica Silesiana, n. 6, 2011, p. 50-65.

Carla MACOGGI, Kkweya. Storia di una bimba meticcia, Cuneo, Sensibili alle foglie, « Collana Ospiti 72 », 2011.

Carla MACOGGI, La nemesi della rossa, Cuneo, Sensibili alle foglie, « Collana Ospiti 72 », 2012.

Sabrina MARCHETTI, Ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazioni postcoloniali, Roma, Ediesse, 2011.

Sandra PONZANESI, « Il postcolonialismo italiano. Figlie dell’Impero e letteratura meticcia. », Quaderni del Novecento, IV, 2004, p. 25-34.

Shirin RAMZANALI FAZEL, Nuvole sull’equatore. Gli italiani dimenticati. Una storia, Cuneo, Nerosubianco, « Le Golette », 2010.

Salah EL MONCEF BIN KHALIFA, « Nomadismes et identités transfrontalières – Anzaldúa avec Nietzsche », Amerika [In linea], 2 |  2010, in linea dal 18 dicembre 2011, consultato il 05 marzo 2013. URL : http://amerika.revues.org/1163

Note de fin

1 Sandra PONZANESI, « Il postcolonialismo italiano. Figlie dell’Impero e letteratura meticcia. », Quaderni del Novecento, IV, 2004, p. 25-34.

2 Daniele COMBERIATI, La quarta sponda, Roma, Caravan edizioni, 2009.

3 A questo proposito, si veda anche il volume « Coloniale e postcoloniale nella letteratura italiana degli anni 2000 », Narrativa, n. 33-34, Presses Universitaires de Paris Ouest Nanterre 2012.

4 Ne sono esempio : Martha VIARENGO NASSIBOU, Memorie di una principessa etiope, Vicenza, Neri Pozza 2005; Shirin RAMZANALI FAZEL, Nuvole sull’equatore, Cuneo, Nerosubianco 2010; Erminia DELL’ORO, L’abbandono, Torino, Einaudi 1988 ; Cristina Ubax ALI FARAH, Madre piccola, Milano, Frassinelli 2007; Igiaba SCEGO, Oltre Babilonia, Roma, Donzelli 2008.

5 Paola TABET, La pelle giusta, Torino, Einaudi, 1997.

6 www.istoreto.it

7 S. PONZANESI, op. cit.

8 Salah EL MONCEF BIN KHALIFA, « Nomadismes et identités transfrontalières – Anzaldúa avec Nietzsche », Amerika [In linea], 2 |  2010, in linea dal 18 dicembre 2011, consultato il 05 marzo 2013. URL : http://amerika.revues.org/1163

9 S. PONZANESI, op. cit.

10 Frantz FANON, Peau noire, masques blancs, 1952, rééd., Le Seuil, col. « Points », 2001.

11 Elena AGAZZI, « Memoria culturale », Cultural Studies, [in linea] consultato il 05 marzo 2013. URL : http://www.culturalstudies.it/dizionario/pdf/memoria_culturale.pdf

12 E. AGAZZI, op. cit.

13 Questo dato sarà confermato solamente nel secondo testo di Macoggi, La nemesi della rossa, recentemente pubblicato, il quale completa l’opera oggetto delle nostre analisi.

14 C. MACOGGI, op. cit., p. 73.

15 C. MACOGGI, op. cit., p. 75.

16 C. MACOGGI, op. cit., p. 45.

17 C. MACOGGI, op. cit., p. 47.

18 C. MACOGGI, op. cit., p. 47.

19 C. MACOGGI, op. cit., p. 86-87.

20 S. MARCHETTI, Ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazioni postcoloniali, Roma, Ediesse, 2011.

21 Alberto Maria CIRESE, Cultura egemonica, culture subalterne, Palermo, Palumbo 1979. «Con il termine inculturazione si suole indicare in modo generale il processo, o meglio il fascio di processi consapevoli o inconsapevoli, spontanei o organizzati, attraverso il quale i nuovi nati di un dato gruppo socio-culturale vengono integrati nella cultura del gruppo stesso, e cioè sono portati ad accertarne i valori e i modelli, ad assorbirne le conoscenze, ad adottarne le concezioni e i comportamenti. » (p.106).

22 S. PONZANESI, op. cit.

23 Barbara SORGONI, Etnografia e colonialismo: l’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera (1873-1939), Torino, Bollati Boringhieri 2001.

24 Wieslawa KLOSEK, « Dinamiche identitarie nel contesto coloniale ne L’abbandono. Una storia eritrea di Dell’Oro», Romanica Silesiana, n. 6, 2011, p. 50-65.

25 Judith BUTLER, « Sostengo un giudaismo non associato alla violenza di Stato», Il lavoro culturale, 3 settembre 2012. In linea : http://www.lavoroculturale.org/spip.php?article315

26 S. MARCHETTI, op. cit.

Citer cet article

Référence électronique

Teresa Solis, « Meticciato e memoria culturale in Kkeywa. Storia di una bimba meticcia, di Carla Macoggi », Line@editoriale [En ligne], 4 | 2012, mis en ligne le 02 mars 2017, consulté le 29 mars 2024. URL : http://interfas.univ-tlse2.fr/lineaeditoriale/477

Auteur

Teresa Solis

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