L’origine del fenomeno religioso, storico e sociale passato alla storia sotto il nome di Riforma va ricercato nella crisi della Chiesa (sin dal grande scisma che vide il papato diviso fra Avignone e l’Italia) e nella frattura intervenuta nel corso dei secoli fra società e corpo ecclesiastico. Anche se già nell’aria precedentemente, l’aspirazione ad una renovatio ecclesiae si avvertì in modo più intenso dalla seconda metà del Quattrocento in poi e raggiunse il punto culminante con la protesta di Martin Lutero nel 1517. La perdita d’autorità morale dell’istituzione – direttamente proveniente dal suo essersi lasciata soggiogare dalla potenza temporale dei re europei e dal suo allontanamento dal messaggio cristiano – ha contribuito al sorgere e al diffondersi di comunità che, per reazione alla potenza e alla ricchezza del papato e del clero, ambivano a tornare alla semplicità e alla povertà del Vangelo1. Accanto all’esistenza di questi gruppi e sette, la diffusione dei libri metteva alla portata di tutti la possibilità di forgiarsi un’opinione sui conflitti di religione e sull’incendio che divampava ormai in Germania. Fu così che queste idee nuove riscontrarono un terreno fertile nella Penisola, particolarmente presso gli umanisti2, e numerosi dunque furono gli Italiani colti che, tramite la diffusione e le traduzioni di tesi luterane, ebbero accesso alle dottrine protestanti già dagli anni 1520-1530 in poi. Molti intellettuali, molti membri della società civile e perfino diversi ecclesiastici presero allora in considerazione un ritorno alla morale evangelica quale veniva praticata dagli apostoli e dai primi padri della Chiesa.
Nel XVI secolo, tra questi movimenti spicca quello dei seguaci di Juan de Valdés, erudito e umanista spagnolo nato a Cuenca nel 1499 e morto a Napoli nel 1541. Indubbiamente influenzato dagli scritti di Erasmo3 e di Lutero, rivendicava una religione interiore illuminata dallo Spirito Santo e dalla lettura dei testi sacri e pubblicò un Dialogo della dottrina cristiana che gettava l’anatema sulla corruzione della Chiesa romana, attirando su di sé in questo modo l’attenzione dell’Inquisizione spagnola. Valdés abbandonò quindi la Spagna per rifugiarsi in Italia dove fu accolto presso papa Clemente VII prima di trasferirsi a Napoli nel 1534 dove organizzò dei coloquios espirituales ai quali parteciparono alcune delle figure più in vista della società napoletana, uomini come donne, laici come ecclesiastici, nonché diversi vescovi italiani. Difatti, fra le persone a lui più vicine si contavano delle nobildonne come Giulia Gonzaga4 e Vittoria Colonna5, degli ecclesiastici ai vertici delle istituzioni religiose come il predicatore e generale dei capuccini, Bernardino Ochino6, il vescovo di Bergamo, Vittore Soranzo7, o anche, dopo lo scisma anglicano, il cardinale inglese Reginald Pole8, in breve alcuni degli esponenti più in vista della vita religiosa del Cinquecento.
Fig.01
Giulia Gonzaga
Un tentativo di periodizzazione della diffusione dell’evangelismo sul suolo italiano9 fa risaltare quattro momenti:
- il primo che coincide con la morte di Juan de Valdés (1541) e corrisponde alla diffusione delle idee riformate;
- il secondo, compreso fra gli anni 1542 e 1560 è determinato dalla crisi dell’evangelismo e dalla fuga di alcune delle personalità di spicco del movimento;
- una terza fase, fra il 1560 e il 1580, vede sorgere una seconda generazione di evangelisti nella Penisola;
- un periodo detto « minore » del movimento, si colloca tra la fine del XVI secolo e l’inizio di quello successivo (1580-1624), quando le iniziative dei singoli individui prendono ormai il sopravvento sulla diffusione collettiva delle idee.
Nessuna Chiesa valdesiana propriamente detta si costituì a causa del pensiero stesso del Valdés che, nell’insistere sul principio di una riforma interiore, conduceva ad una religiosità prettamente individuale o di gruppi ridotti e comunque inadeguata alla formazione di un vasto movimento diffuso in tutti gli strati sociali10. Ciò nonostante, le idee del valdesianesimo si propagarono grazie ad una rete di conoscenze dovunque in Italia e nel Sacro Romano Impero Germanico. La loro notorietà è probabilmente dovuta ad un sentimento più o meno confuso e vago di rifiuto delle pratiche esteriori del cristianesimo e ad una aspirazione alla purezza della religione. Praticamente fino alla fine del concilio di Trento e, in tutti i casi, fino al 1542, anno di istituzione formale dell’Inquisizione11, tale esigenza di ritorno ad una purezza originaria (avvertita anche da una parte del clero cattolico) alimentata da tesi importate dalla Germania, erasmiane o luterane, era contraddistinta da una certa indeterminatezza e da una scarsa intelligibilità12, così da non sboccare necessariamente in soluzioni radicali, a tal punto che molti credenti cercavano, non tanto di creare una nuova Chiesa, ma più semplicemente di migliorare quella già esistente, moralizzando i comportamenti del clero. Alti prelati vicinissimi al pontefice come il patrizio veneziano Gasparo Contarini13 e il nobile inglese Reginald Pole, entrambi membri della commissione che emanò il Consilium de emendanda Ecclesia (1537), esprimevano le esigenze di emendazione del corpo ecclesiastico. A tal punto pure che nel leggere e commentare ai propri fedeli le Epistole ai Romani di san Paolo, alla base della riflessione di Lutero, Valdés predicava certo i principali precetti della Riforma – ritorno alle origini evangeliche, ad una morale cristiana direttamente ispirata all’insegnamento di Cristo, supremazia dell’interiorità cristiana rispetto alle manifestazioni e agli sfarzi della religione cattolica, critica degli abusi commessi dal clero e dalla curia romana – ma, contrariamente ai protestanti, non incitava in alcun modo gli auditori ad allontanarsi dalla Chiesa in quanto, per lui contavano solo la vita spirituale, la devozione, la meditazione mistica. Non si curava di riformare la Chiesa e neppure la vita ecclesiastica, ma solo di emendare l’uomo14. In una situazione ancora confusa all’inizio del secolo – sarà solo più tardi, dopo il decesso del Valdés quando il Carnesecchi15 viene processato per la seconda volta, che le posizioni degli uni e degli altri divergono e i riformatori cattolici (il vescovo Gian Matteo Giberti16, il cardinale Seripando17, Reginald Pole, Vittoria Colonna ed altri ancora) prendono le loro distanze da coloro che raggiungono il campo dei riformati – tranne caso d’immediato pericolo, Valdés sconsigliava ai suoi seguaci di fuggire in territori protestanti e preconizzava il nicodemismo18, vale a dire la dissimulazione delle proprie convinzioni religiose sotto apparenze ufficiali convenzionali. Tale atteggiamento permetteva di continuare segretamente a propagare le proprie idee e a praticare la propria fede evitando inutili polemiche e il rischio di essere processati dalla Santa Inquisizione.
Il vocabolo « nicodemismo » era stato coniato da Calvino per indicare l’atteggiamento dei protestanti che, onde evitare le persecuzioni, fingevano pubblicamente di essere cattolici partecipando pure agli uffici religiosi, ma continuavano a praticare e mantenere salda la loro fede. L’espressione proviene dal nome di Nicomedo, il fariseo che, stando al Vangelo secondo Giovanni (3, 1-21), veniva di notte ad ascoltare Gesù, mentre di giorno, simulava un perfetto rispetto per i precetti ebraici. La pratica del nicodemismo si diffuse negli anni 1534-35 dopo la distruzione della « Nuova Gerusalemme » in altri termini di Münster, città tedesca, divisa fra cattolici e luterani e agitata da predicatori19 all’origine di una vera e propria epidemia di fervore seguita da una dittatura teocratica fino a quando il movimento venne represso nel sangue. Il nicodemismo si diffuse poi verso il 1542 nella penisola italiana20, al momento della fuga d’Ochino e di Vermigli21 precisamente quando il fallimento degli incontri di Ratisbona22 segnava al tempo stesso la fine delle speranze di riassorbimento dello scisma aperto dalla protesta di Lutero e l’inizio della Controriforma23. Si trattava di un problema solo italiano: difatti, poiché la Riforma non aveva preso il sopravvento in Italia, la domanda che si poneva era quella di sapere se bisognava affrontare il martirio o salvarsi tramite la fuga – come fece il vescovo Pier Paolo Vergerio – o se non conveniva invece rimanere e sfuggire agli inquisitori tramite un’accorta strategia di dissimulazione24. Tale questione innescò una vera e propria polemica che oppose gli emigrati tra i fautori della dissimulazione religiosa da una parte e quelli della fuga all’estero o del martirio dall’altra25. Coloro che divennero nicodemiti lo fecero sia per non mettere a repentaglio la propria posizione sociale coll’esiliarsi, sia perché erano convinti di essere stati scelti da Dio agli occhi del quale contavano meno le azioni delle intenzioni. Da quel momento in poi, scelsero di celare le loro convinzioni e di esprimersi liberamente solo con altre menti illuminate, usando un linguaggio in codice per i terzi. Gli esempi più clamorosi sono quelli di Ochino prima della fuga o, alcuni anni dopo di Fra Paolo Sarpi26 che dichiarava:
« Io fo molte cose contro il mio volere, come dir messa: la dico al più di rado ch’io posso… Noi tenemo il metodo di dir bene la verità dell’Evangelio, ma senza dir « la chiesa romana dice il contro », o di condannarla; ma semplice dicendo, talmente che i soli protestanti se n’avvidero, e gli altri si contentarono di nostre prediche. La falsità non dico mai, ma la verità non a ogni uno »27.
Nel 1541, Valdés morì e i suoi discepoli si ritrovarono allora a Viterbo attorno al cardinale Pole e all’erede spirituale28 dell’esule spagnolo, il Flaminio29, che predicava l’importanza dell’imitazione di Cristo, dell’umiltà dei cristiani e dell’accettazione della sofferenza vista come un dono divino. Il gruppo è conosciuto sotto il nome di Ecclesia Viterbiensis e si situava fra i movimenti che anelavano alla riforma del cattolicesimo senza necessariamente sfidare il dogma né tanto meno raggiungere il protestantismo.
Appare d’altronde necessario distinguere il protestantismo dall’evangelismo: difatti, mentre il primo ha un’origine storica ben precisa e definita poiché nasce in Germania nel 1517 nel momento in cui Martin Lutero, dopo anni di ricerche spirituali, riscopre il messaggio del Vangelo ossia che la salvezza dell’anima non potrà mai essere ottenuta grazie alle azioni meritorie compiute su questa terra, ma questa giustizia viene offerta in dono – senza esser stata meritata – a colui che crede in Gesù Cristo, l’evangelismo invece rappresenta un fenomeno nel contempo più complesso da definire e meno facile da delimitare. Esso indica un ritorno alla semplicità e alla purezza dell’insegnamento di Cristo e vari tentativi in questa direzione sono stati effettuati sin dalla comparsa stessa del Vangelo. Esiste quindi un evangelismo di stampo cattolico anteriore a Lutero; si pensi per esempio ai francescani e particolarmente, dopo la morte del fondatore, a quella parte dell’ordine, gli « spirituali », che ambivano di continuare a conformarsi alla predicazione di San Francesco e al voto di povertà assoluta. Nella maggior parte dei casi, questi movimenti religiosi furono riassorbiti in seno alla Chiesa, ma in caso d’impossibilità, questa ricorse alla repressione (come avvenne ad esempio coi valdesi).
Nel XVI secolo, tramite la lettura e la meditazione delle Epistole paoline e dei Vangeli (nonché della lezione del Valdés) l’evangelismo implica la ricerca di una risposta ai problemi fondamentali della giustificazione30, una certa indifferenza alle discipline, alle modalità e ai dogmi, un desiderio d’unità di tutti i cristiani sulla base della morale evangelica31, il rifiuto di un’autorità normativa in sede teologica32, nonché un movimento di ritorno ad una più rigida osservanza delle regole33. Quindi anche se, per comodità, parleremo qui di evangelisti per designare quei letterati o ecclesiastici, talvolta cattolici, talvolta sedotti dalle tesi luterane, che comunque anelavano ad una riforma dell’istituzione nel senso già indicato precedentemente, appare ovvio che il vocabolo è ben lungi dall’essere univoco. Ogni definizione limitativa è resa per giunta delicata dal fatto che alcuni personaggi, tra i quali si conta ad esempio un Juan de Valdés, si confondono con coloro che vengono denominati « spirituali », vocabolo col quale si designavano delle persone aventi un particolare rapporto con Dio, capaci d’insegnare al prossimo, di rivelare la volontà divina, nonché di essere toccati dalla grazia tramite visioni e illuminazioni.
Che si tratti di protestantismo o di « riformismo », in tutti i casi, le prime inquietudini del potere pontificale sulla dilagazione di fermenti eterodossi si manifestarono sin dal 1524 con i brevi di Clemente VII ai monaci di Venezia e di Napoli, così come al vescovo di Trento affinché lottassero contro la diffusione degli scritti riformati34. Sul territorio della Serenissima, la repressione contro i luterani cominciò già dal 1526 con un processo contro un insegnante, Francesco da Casteldurante, che riuscì a salvarsi solo abiurando. Nel 1536, un altro breve papale si preoccupava della diffusione dell’eresia riformata e, in seguito, i segnali d’allarme si fecero sempre più numerosi35. Nel 1539, al momento della redazione e della pubblicazione del Beneficio di Cristo36 e, nel contempo, dell’istituzione nel luglio del 1542 da parte di Paolo III, della Congregazione del Sant’Uffizio, la lotta contro le eresie prese veramente l’avvio prima di intensificarsi allorquando Gian Pietro Carafa salì al soglio pontificio nel 1555.
Fra i discepoli del Valdés, Bernardino Ochino fu tra i primi ad essere inquisito e convocato davanti alla Congregazione. Dopo aver esitato, decise di fuggire e di rifugiarsi a Ginevra dove venne accolto da Calvino. La sua fuga provocò un vero e proprio scandalo e compromise alcuni suoi amici37. Nel 1542, il predicatore agostiniano, Pietro Martire Vermigli, fu costretto ad abbandonare il pulpito e a seguire l’esempio d’Ochino38 rifugiandosi pure lui all’estero, a Zurigo, perché denunciato dai teatini (che collaborarono ampiamente alla « caccia » agli eretici) al viceré di Napoli, Don Pedro di Toledo. Nel 1544, Pier Paolo Vergerio39, vescovo di Capodistria, venne a sua volta inquisito per aver favoreggiato la diffusione del Beneficio di Cristo in seno alla propria diocesi. Abbandonate in un primo tempo, le persecuzioni contro di lui ripresero nel 1546, egli dovette allora riparare nel cantone protestante dei Grigioni nel 1549 e fu condannato in contumacia lo stesso anno. Nel 1551, toccava ad uno dei maggiori esponenti della nobiltà napoletana, il marchese Galeazzo Caracciolo40 di dover chieder asilo a Calvino. Nel 1551, dopo un lungo conflitto con Michele Ghislieri, grande inquisitore e futuro Pio V (1566-1572), il vescovo di Bergamo, Vittore Soranzo, fu arrestato e assolto in un primo tempo ma di nuovo inquisito nel ’57. Nel 1552, il cardinale Giovanni Morone41, sospetto per il suo sostegno a Jacopo Sadoleto nonché per il suo interesse in favore della Riforma, non riuscì ad evitare un’inchiesta dell’Inquisizione nei suoi confronti. Dopo l’elezione del Carafa, fu accusato di eresia e imprigionato a Castel Sant’Angelo da cui uscirà solo dopo la morte di Paolo IV nel 1559. Per non aver voluto fuggire, dopo due processi, un altro valdesiano, Pietro Carnesecchi, amico di Giulia Gonzaga, morì sul rogo come eretico recidivo nel 1567.
Fig.02
Pietro Carnesecchi
Un noto riformatore, l’umanista Aonio Paleario42, fu quanto a lui accusato d’eresia a tre riprese: sin dal giugno del 1542 sul territorio di Siena, poi nel febbraio del 1560 a Milano e ancora nel 1567, allorché si trovò di nuovo nel mirino dell’Inquisizione milanese per via dei suoi scritti. Fu condannato e messo a morte nel 1570. Fra il 1561 e il 1563, fu una vera guerra contro i valdesi insediatisi in Calabria che si svolse col suo macabro corteo di massacri contro popolazioni civili inermi reputate eretiche. Le popolazioni evangeliste più lontane dal potere romano non sfuggirono alla polizia della fede e, nella sua Brevis historia et descriptio della Sardegna, l’avvocato sardo Sigismondo Arquer, descrisse nelle tinte più fosche le procedure inquisitoriali che dovette in seguito sperimentare in prima persona43. A contrario, quando il processo d’istituzionalizzazione della Riforma raggiunse il suo apice, nel 1553, lo stesso Calvino non esitò a mandare al rogo lo Spagnolo Michele Serveto, colpevole di aver espresso dubbi sul dogma della Trinità44.
Data la complessità e la diversità dei movimenti sorti dalla protesta di Martin Lutero o innescatisi su di essa (le origini possono essere molteplici e qualche volta secolari) – oltre ai riformatori cattolici e ai luterani, vi furono dei calvinisti, degli zwingliani, degli antitrinitari o ancora dei sociniani45– la massima prudenza è d’obbligo per evocare i rapporti esistenti tra la Controriforma e gli intellettuali italiani, tra il Concilio di Trento (o gli anni immediatamente precedenti) e la storia letteraria del periodo corrispondente. Lo stretto legame che qualche anno prima della metà del Cinquecento univa l’evangelismo italiano e la nuova letteratura in lingua volgare è stato evidenziato in particolare da Dionisotti46. Da allora, alcuni critici hanno riaperto il dibattito analizzando a loro volta gli eventuali possibili collegamenti fra letteratura e evangelismo dopo la crisi provocata dal fallimento dei colloqui di Ratisbona47 e hanno dimostrato che, nonostante l’inasprimento della censura e delle persecuzioni, il movimento evangelista sopravvisse, così come una certa libertà di tono e di espressione48, in particolare nell’epistolografia in lingua volgare fino agli anni 1550 circa dopo i quali:
They [the lettere volgari] were replaced […] by religiously oriented correspondence from members of the rising generation, letters expressing carefully orthodox Tridentine piety49.
Per quanto riguarda il valdesianesimo e i suoi rapporti coi letterati, un fatto per lo meno sembra accertato, cioè che dopo l’arrivo del Valdés a Napoli, nel 1534, in quegli anni in cui si propagavano le dottrine luterane e in cui si scopriva il contenuto spirituale potenzialmente sovversivo delle Epistole paoline, molti intellettuali raggiunsero i ranghi dei fautori di una riforma religiosa e promossero alcune iniziative editoriali concretizzando in tal modo le connessioni dell’evangelismo con gli ambienti letterari.
Tali pubblicazioni includevano soprattutto delle raccolte epistolari perché, dopo la performance dell’Aretino nel 1537, il nuovo genere conobbe un gran successo legato da una parte all’esistenza di un lettorato in espansione crescente sin dalla comparsa della stampa e dall’altra al numero quasi illimitato di argomenti che potevano essere trattati nelle lettere. Queste condizioni propizie fecero sì che il genere epistolare si distinse immediatamente dagli altri producendo opere legate ai problemi contemporanei al punto da essere utilizzate come fonti d’informazione sugli eventi politici e religiosi di quegli anni e non più soltanto come modelli di lingua e di scrittura. Si ritiene oggi che numerosi Italiani del Cinquecento leggevano raccolte epistolari per gli stessi motivi per i quali noi compriamo i giornali50. Siccome, per giunta, i luoghi dell’eresia ben spesso coincidono con quelli della cultura laica e del sapere, fu così che in quegli anni fra il 1540 e il 1560 circa, i florilegi si fecero i portavoce della crisi religiosa in atto con delle inflessioni dottrinali che non tardarono a suscitare i sospetti e la repressione delle autorità ecclesiastiche.
Alla vigilia del Tridentino, la prima antologia ad ospitare dottrine irenistiche, nonché auspici di cambiamento della Chiesa, uscì dai torchi del figlio del celebre Aldo Manuzio, Paolo, il quale pubblicò nel 1542 le Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni, libro primo, la cui dedica51 è ben nota:
« […] mi sono imaginato di raccogliere et far stampare alcune lettere d’huomini prudenti, scritte con eloquentia in questa lingua volgare italiana […] E certo con ragione perché se ne i rinchiusi concetti dell’animo è posto il fondamento del sapere, senza dubbio chi con parole o con la penna bene gli spiega, possede una bellissima parte di prudentia. Et questa lingua è bella et nobile et nostra; et questa parte di scrivere cade ogni dì in uso. Però mi persuado che gli auttori di queste lettere non havranno a male ch’io dimostri al mondo i fiori dell’ingegno loro con utilità comune, perché così porgeranno ardire all’industria di quei che sanno: et quei che non sanno gli haveranno obligo, potendo da questi essempi ritrar la vera forma del ben scrivere… »52.
Apparentemente quindi, l’opera altro non era che una semplice raccolta destinata a promuovere l’uso del volgare e a fornire modelli da imitare a tutti coloro che ne avessero bisogno53. In realtà poi, il contenuto dell’edizione veniva quasi immediatamente a smentirne la presentazione in quanto vi si incontravano ardite prese di posizione, fra le quali l’elogio di Fra Bernardino [Ochino] di Siena e del Valdés, cioè di personaggi a quella data più che sospetti. L’edizione comprendeva ugualmente commenti ostili alla Chiesa romana e annoverava autori notoriamente legati alla storia dell’evangelismo come Vergerio e Paleario, così come, fra i destinatari, figure ben note dell’epoca fra le quali Vittoria Colonna, Margherita di Navarra54, Luigi Alamanni55. Unita a tutti questi elementi, la presenza di testi di Flaminio, Ochino, Carnesecchi, Vergerio, di cui alcuni sulla giustificazione ex sola fide, attirarono ben presto l’attenzione del Sant’Uffizio.
Sotto il pretesto della non ancora obsoleta questione della lingua si celava quindi probabilmente la volontà di un certo ambiente culturale di intervenire a favore degli « spirituali »56, volontà poi non tanto occulta in quanto gli autori delle lettere discorrevano non solo di problemi linguistici ma anche di argomenti religiosi legati alle inquietudini del presente57. Il Manuzio dava così modo di esprimersi ad uomini e donne che erano o che stavano per essere sospettati, se non addirittura perseguitati dall’Inquisizione, e ciò in un momento in cui, dopo la pubblicazione della bolla Licet ab initio, la situazione era già tesa. Il successo dell’iniziativa è attestato da numerose riedizioni58 e da un’ondata di pubblicazioni di lettere volgari, sotto forma di antologie59 o di raccolte individuali di Nicolò Franco60, Anton Francesco Doni61, Nicolò Martelli62, Claudio Tolomei63, Orazio Brunetto64 e Bernardo Tasso65 per citare solo i più noti. Tale fenomeno editoriale che univa agli ideali umanisti una volontà di renovatio ecclesiae segna particolarmente gli anni 1542-1560.
Stampato nel 1545 da Antonio, il secondo florilegio epistolare dei Manuzio s’inserisce in questa continuità e, con la concentrazione di scritti eterodossi ivi contenuti, rende palesi le intenzioni della famiglia e di tutta una classe di letterati. Difatti, al di là del preambolo di Paolo Manuzio sulla bellezza e l’utilità della lingua italiana, il volume conteneva numerosi sottintesi agevolmente percettibili66 e presentava lettere che celebravano la giustificazione per sola fede, una delle quali trascriveva addirittura interi passi del Beneficio di Cristo. L’analisi di questo secondo libro delle Lettere volgari permette di scoprire un progetto complesso col quale il lettore veniva messo a contatto con argomenti di stampo religioso in modo forse ancora più chiaro che in precedenza, valga per tutti l’esempio della pubblicazione, fosse pur sotto il tenue velo dell’anonimato, di una lettera di Fra Bernardino [Ochino] da Siena67.
Un po’ più tardi negli anni 1564-67, spettò ad Aldo il giovane di pubblicare il terzo volume delle Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini, con un’iniziativa editoriale che poteva oramai sembrar desueta rispetto ai cambiamenti che si erano prodotti nel genere epistolare dal 156068, tanto più che la scelta dei testi non era guari lontana da quella che ornava le edizioni del ’42 e del ’45. Difatti, il terzo libro assomigliava per molti versi ai due precedenti in quanto rendeva ancora conto di tematiche « spirituali » ed evocava nomi legati al valdesianesimo come quelli del Carnesecchi, di Vittoria Colonna e di Giulia Gonzaga. Il dedicatario altri non era che il figlio di Galeazzo Caracciolo, Vico Colantonio Caracciolo, che venne a sua volta processato nel 156469. In un momento quindi in cui la questione della lingua era non solo risolta, ma perfino superata – e d’altronde la dedica non menzionava neanche più la funzione originaria delle antologie, quella di porgere modelli di scrittura in lingua volgare – si trattava probabilmente di approfittare di un momento favorevole – la morte di Paolo IV (agosto 1559) e l’assoluzione del cardinal Morone da parte di Pio V – in modo da proteggere gli « spirituali » o anche da riabilitare i defunti riformisti, ma si trattava anche assai verosimilmente di un tentativo per salvar Pietro Carnesecchi processato nel 1566 e sul punto di essere giustiziato. Seguendo in tal modo la tradizione familiale, Aldo appoggiava gli opponenti alla Chiesa postridentina, lanciando fra le righe un singolare appello per strappare alla morte il protonotario e riproponendo, non senza le dovute cautele70, una posizione religiosa evangelica71.
« Paolo e Antonio Manuzio avevano dunque aperto la strada fin dai primi del ’40, ad un collegamento tra letterati e spirituali »72 e i loro volumi fecero echo alla propaganda valdesiana, pur rendendo conto della svolta incarnata dal Flaminio e dall’Ecclesia Viterbiensis. Prima però che Aldo seguisse le loro orme, altri autori a loro volta sfruttarono simile filone linguistico e religioso. Fu il caso per esempio del Gherardo che fece uscire nel 1544 un Novo libro di lettere volgari de i più rari autori e professori della lingua volgare italiana che, stando ad alcuni, nasconde una profonda polemica antiromana e porge dottrine devianti73, mentre per altri, come il curatore della nuova recente edizione dell’opera74, essa contiene tutt’al più alcune lettere eterodosse, ma nessun’intenzione esplicita di propaganda filoriformista e si limita a testimoniare della richezza e della diversità degli scambi all’interno dei circoli intellettuali veneziani75.
In tutti i casi, se si considerano il legame che esisteva de facto tra riforma religiosa e affermazione della lingua volgare76 e il contributo al Nuovo libro (la seconda edizione) di letterati quali Giovanni Antonio Clario77, anch’egli vicino agli ambienti evangelisti (subì un processo dell’Inquisizione nel 1547), Lodovico Dolce78 (che aveva già elogiato Erasmo e Melantone nel 1536) e Lodovico Domenichi79 (a sua volta condannato e imprigionato nel 1552), risulta che tale florilegio partecipa comunque, anche se in minima parte, ad una stagione editoriale particolare.
Fig.03
Erasmo
L’analisi delle pubblicazioni di raccolte epistolari nel Cinquecento evidenzia quindi lo stretto collegamento allora esistente tra meditazione religiosa e riflessione letteraria80 e dimostra come, col pretesto di diffondere modelli di scrittura, questa moda di pubblicare libri di lettere volgari cominciava, in quegli anni dopo Ratisbona, a celare contenuti religiosi sorprendenti. La prova a contrario va ricercata nei profondi rimaneggiamenti che quelle stesse opere subirono dopo la pubblicazione dell’Index librorum prohibitorum81 e perfino già dal 1544 come lo comprovano le riedizioni del primo libro delle Lettere volgari, dal quale sono espunti alcuni scritti ritenuti troppo compromettenti82.
Dieci anni dopo, quando l’accresciuta potenza del Sant’Uffizio condizionava oramai l’attività degli stampatori e più largamente dei poligrafi italiani, veniva alla luce una nuova raccolta di Dionigi Atanigi83 intitolata Lettere volgari di XIII huomini illustri e organizzata in tredici capitoli che contenevano ognuno le lettere di un unico autore. Il volume offriva alla lettura scritti di Gian Matteo Giberti, di Jacopo84 e Paolo Sadoleto85 e dello stesso Flaminio, cioè proprio di uomini sui quali s’addensavano i sospetti d’eresia e che nel corso degli anni 1550-1560 furono poi sottomessi a inchieste e processi. Si trattava sempre di personalità note facenti parte della gerarchia ecclesiastica, il cui nome già compariva (per alcune di loro) nelle raccolte degli anni ’40 e i cui testi erano divenuti modelli epistolari ricercati e attesi. Fra di loro vi era anche Bernardo Tasso, non particolarmente sospettato dalle autorità ecclesiastiche, ma le cui lettere avevano già avuto più edizioni86. Questa antologia dell’Atanigi, apparsa circa dodici anni dopo la grande stagione degli anni ’42 e seguenti, non perveniva alla tonalità polemica del decennio precedente, ma offriva lo stesso di nuovo una possibilità di discussione agli intellettuali e, nonostante una certa rassegnazione87, dei testi non solo destinati a fungere da modelli. Non è indifferente in merito che dei tredici uomini illustri evocati, quattro siano stati amici del Giberti, e che l’Atanigi abbia inserito nella sua antologia non meno di ventuno scritti inediti del Flaminio, precisamente in un momento in cui quell’erudito (morto ormai da qualche anno) era fatto oggetto di gravi accuse d’eresia nel quadro di una violenta offensiva contro i valdesiani e gli « spirituali »88. Trattavasi probabilmente di un tentativo di riabilitazione degli evangelisti, ma la prudenza e il nicodemismo erano di rigore come sta a dimostrare la presenza in seno alla raccolta di una lettera dell’erudito e molto cattolico senese Claudio Tolomei89 che segna in un certo qual modo i limiti di un’edizione in cui coesistevano posizioni e giudizi divergenti.
L’ambiguità di questa operazione editoriale viene sottolineata un anno più tardi da Pier Paolo Vergerio che, dal suo esilio transalpino, sembra aver avvertito la necessità di rispondere all’Atanigi con un Giudicio sopra le lettere di tredeci huomini illustri90. Le sue critiche vertevano non sulla qualità della scrittura ma su quella della fede dei tredici autori selezionati:
« […] solo dirò quanto (a giuditio mio) quasi tutti quei 13 chiamati illustri sieno lontani dalla cognitione della vera pietà et doctrina cristiana ».
Gli epistolografi che rientravano perfettamente nel quadro dell’ortodossia vigente erano praticamente esclusi dal discorso del Vergerio che si accaniva invece contro coloro che non avevano potuto o forse saputo andare fino in fondo ai principi teologici da loro professati. Così alcuni di loro sono sconfessati, mentre altri che avrebbero dovuto essere a conoscenza della verità evangelica vengono duramente condannati. Se il Flaminio sfugge parzialmente alla sua ira91, il cardinale Pole è violentemente attaccato, probabilmente a causa della dura repressione antiprotestante da lui scatenata in Inghilterra92. È quindi sorprendente che di tutti questi personaggi noti dell’evangelismo, se si esclude il Flaminio, si salvi solo parzialmente un letterato, Bernardo Tasso93, la cui appartenenza al valdesianesimo, o a qualsiasi altro gruppo criptoriformato, non è dimostrata e a proposito del quale Vergerio scrive:
« […] tra le quali [lettere] ve n’è una al signor Bernardin Rota, la quale porge qualche odore et qualche speranza che nell’autore vi sia la cognitione [della « vera » dottrina] ».
La scelta della lettera in questione si rivela ancor più sorprendente in quanto questa breve missiva del segretario di Ferrante Sanseverino, comparsa prima fra le lettere dell’Atanigi94 e posta da Bernardo alla fine della edizione del 155995, contiene solo poche frasi apparentemente convenzionali :
L’infinita pietà di Cristo, Signor mio osservandissimo, alcuni peccatori co’ flagelli e con le pene, alcuni con le prosperità e con le grazie richiama a sé e gli fa rivedere de gli error loro. Perché usi questi così diversi e vari modi di grazia e di pena non si conviene a noi di cercare. Egli è somma providenza e sa ciò che fa ; se io volessi far paragone de le cose divine a le profane, forse direi ch’a guisa di dotto e d’avveduto cavalcatore che conosce la natura de’ cavalli ch’egli ha ad insegnare, con uno usando gli sproni e la verga, con l’altro il calcagno solo e la mano fa un medesimo effetto in tutti due.96
Per altro, il ricorso all’immagine della verga e degli sproni rimanda ad una tonalità alquanto pragmatica che si ritrova in una lettera dello stesso Bernardo destinata a esigere la riscossione di un credito:
Questi miei debitori e massimamente quello amorevole amico mio, sono come cavalli che senza sprone non caminano. Però, poiché la mia necessità lo richiede e alla loro tarda natura si conviene, spronateli, e se non basta lo sprone, operate la verga e il bastone […]97
Ciononostante, una ricerca più approfondita sul lessico dell’evangelismo98 autorizza ad ipotizzare anche in questo caso l’ambiguità di stampo nicodemista che vige in altre lettere del medesimo autore come quella indirizzata alla marchesa di Pescara, ossia Vittoria Colonna, che ricorda ancora più esplicitamente il messaggio valdesiano.
« La lettera di Vostra Signoria, piena d’amore e di carità, ha destato nell’animo mio alcuni spiriti di virtù e di religione e se così fusse pronta la carne com’è lo spirito, io farei così presto a ubidirvi, come voi amorevole a persuadermi. Ma questo spirito dalla massa della terra che lo circonda aggravato, non può senza l’aiuto del suo redentore sollevarsi dalle miserie di questa vita e da i falsi piaceri di questo mondo […] è di mestieri che quello che col suo preziosissimo sangue lavò le nostre colpe e ne cavò dalla servitù del peccato e della morte, mi porga anco la mano del suo favore e della sua grazia e mi sollevi del fango dell’umane calamità; e come sua creatura che crede e spera nell’infinita bontà sua, rompa questi lacci che la carne ad ogni ora tende contra lo spirito e col lume della sua grazia sgombri tutte le nebbie del peccato che adombrano il sereno di questa anima poverella che ad ora ad ora l’ali dimenando, cerca d’uscir di questo fango e d’indrizzar tutti i suoi pensieri e le sue voglie a quello che l’ha creata. Voi che sete in grazia di Dio […] mostratemi la strada per la quale così secura caminate all’eterna salute; e pregate colui che vi scorge per questo camino »99.
Questo scritto presuppone che il mittente o la destinataria, o entrambi, facciano parte di una « élite » toccata dalla grazia divina e comporta difatti temi valdesiani come il dualismo fra spirito e carne, la necessità di elevarsi sopra le contingenze terrestri liberandosi del proprio corpo, non senza alludere ugualmente ad un altro dei concetti chiave del valdesianesimo, quello dell’illuminazione interiore100. Anche se, per via delle sue relazioni101, si può congetturare che B. Tasso sia in realtà stato abbastanza vicino ai valdesiani, non è possibile, sulla base dei documenti attualmente disponibili, emettere un giudizio certo circa una sua eventuale deviazione dalla fede cattolica. Sembra invece ormai accertato che, tramite la pubblicazione del suo primo libro di Lettere, egli abbia voluto porgere al pubblico non solo modelli di redazione in lingua volgare, ma anche esempi di « virtù » nell’accezione umana e religiosa del vocabolo.
Fig.04
Bernardo Tasso
Qualunque sia stata la posizione di B. Tasso, in tutti i casi, la reazione del Vergerio dimostra che aveva pienamente colto il significato della raccolta epistolare e non si era fermato al puro pretesto della questione della lingua. Il successo della pubblicazione, quindi, indirettamente, del messaggio in essa implicito, viene confermato dalle numerose imitazioni che fiorirono alcuni mesi dopo la sua comparsa sul mercato editoriale. Difatti, nel 1555 viene pubblicata l’antologia di Lettere di Lodovico Dolce, ispirata a quella di Dionigi Atanigi e organizzata anch’essa per autori, la cui ambiguità trapela dalla coesistenza di scelte coraggiose – testi del Flaminio non più proposti al pubblico da un decennio e contenenti ampie citazioni del Beneficio di Cristo, lettere di Iacopo Bonfadio – e di presentazioni vaghe e prudenti. Allo stesso modo, gli scritti spirituali scompaiono dietro un mare di lettere se non proprio insignificanti, per lo meno poco significative in termini d’eterodossia102. Al di là della portata commerciale dell’iniziativa, è abbastanza probabile che la prudenza imponga questa forma di nicodemismo e non è privo di significato l’allinearsi immediato di Lodovico Dolce sulle posizioni della Chiesa dopo la pubblicazione dell’Indice nel 1559103 nonostante gli amici frequentati, i testi pubblicati e il suo interesse palese per le inquietudini religiose del periodo.
Due anni dopo, nel 1556, spettava a Girolamo Ruscelli104 di pubblicare a Venezia una riproduzione dell’edizione dell’Atanigi, con alcune varianti tuttavia, cioè l’aggiunta di un quattordicesimo e poi di un quindicesimo libro probabilmente in modo da sfruttare il successo commerciale di un’opera già famosa facendola passare per una novità, una summa in qualche sorta delle antologie precedenti. Il suo intento era palesemente quello di riproporre al pubblico un florilegio contenente dei testi evangelici, in quanto nell’ottavo libro manteneva l’integralità o quasi delle lettere del Flaminio aggiungendovi altre cinque epistole che trattavano della giustificazione ex sola fide tratti dal Beneficio di Cristo. Inserì per di più nel quattordicesimo libro tre lettere di Vittoria Colonna mutuate dalle Lettere Volgari di Paolo Manuzio il che porta a credere che condivideva probabilmente le speranze degli « spirituali »105.
Così questo breve scorcio dell’edizione italiana dal 1542 al 1560 circa mette in evidenza l’emergenza quantitativamente notevole106 di raccolte epistolari in lingua volgare, la loro capacità di accogliere contenuti molto diversi, di trattare argomenti d’attualità (anche religiosa) dell’epoca e, per alcuni autori o editori, la loro strumentalizzazione a fini eterodossi sotto il velo di un sottile nicodemismo. Questo può ricoprire forme assai diverse: lettere in difesa della volgar lingua che mirano alla diffusione di un modus scribendi per proporre contenuti dalle esplicite o meno connotazioni eterodosse, dediche a personaggi illustri, che fungono « da schermo e da protezione »107; edizioni clandestine, « diffusione di testi in manoscritti (più difficilmente controllabili che non le stampe) »108, accumulazione di un gran numero di lettere per celare certi scritti in seno ad una moltitudine di altri, oppure ancora inserzione in alcuni di loro di opinioni devianti seguite da vigorose denunce e condanne dell’eresia luterana. In quest’ultimo caso, l’alternanza appare d’altronde abbastanza comprensibile fino all’inizio del Concilio di Trento, in un periodo in cui vigeva ancora una certa incertezza in materia di tematiche evangeliche. Le pratiche di dissimulazione appaiono quindi numerose e ben si capisce allora come, in un contesto di dubbio e d’inquietudine, la scelta della raccolta epistolare si sia imposta in quanto supporto non unico, ma privilegiato, del dissenso religioso e del nicodemismo. Difatti, trattandosi prima di tutto di un genere letterario, la sua nocività nei confronti del dogma non venne percepita prima del decennio apertosi col 1560, tanto più che queste raccolte permettevano una facile autocensura fra due edizioni di una stessa opera grazie alla eliminazione o sostituzione di lettere divenute pericolose con altri scritti109. La raccolta offriva poi il vantaggio della discrezione, sia perché le lettere dei riformatori si alternavano con altre a carattere letterario o filosofico, sia perché alle antologie collaboravano autori celebri il cui scopo era quello di proporre testi con funzione modellizzante.
Tali pratiche editoriali di dissimulazione permisero di garantire un minimo di libertà d’espressione religiosa prima dell’Indice di Paolo IV e a numerosi letterati di sfuggire bene o male alla Congregazione del Sant’Uffizio. D’altronde se dovesse sussistere ancora un dubbio, se pur minimo, sul dissenso religioso veicolato dai florilegi epistolari verso la metà del Cinquecento, un semplice confronto fra quello che veniva pubblicato prima e dopo l’Index librorum prohibitorum del 1559110 appare alquanto rivelatore poiché tutte le lettere del Flaminio, ma anche quelle di altri « spirituali », scomparirono dalle riedizioni, talvolta anche dalle edizioni precedenti111 in modo da proporre al pubblico solo volumi accuratamente ripuliti112. Come già accennato113, lo stesso Paolo Manuzio, pure all’origine del collegamento fra questione religiosa e questione linguistica in seno al genere epistolare, non esitò ad eliminare alcuni testi le cui scelte dogmatiche non gli sembravano più poter esser condivise o alcuni autori inquisiti o giudicati dal Sant’Uffizio. Dopo questi tagli (qualche volta nell’accezione primitiva del termine poiché alcuni esemplari venivano materialmente mondati dei testi incriminati), queste antologie potevano effettivamente spacciarsi per semplici volumi in difesa della lingua volgare.
Dopo la metà del XVI secolo e la pubblicazione dell’Indice di Paolo IV, censura e autocensura si confusero in seno ad una produzione scritta in cui ogni discussione sul dogma non era più neanche concepibile. Il controllo dell’istituzione ecclesiastica sulla produzione scritta divenne quasi totale in quanto il trionfo delle posizioni intransigenti del Concilio di Trento e il potere sempre più incontestato del Sant’Uffizio portarono all’eliminazione di testi ormai inaccettabili. Tale intransigenza stroncò le velleità d’unione fra ambienti letterari e religiosi e fece praticamente scomparire ogni libertà d’espressione. Le referenze agli eventi contemporanei furono soppresse dai libri di lettere che si avviarono a diventare delle mere compilazioni di formule e concetti a valore normativo e modellizzante utili in diverse occasioni e che non rappresentavano più nessun pericolo per la Chiesa114. Agli albori del XVII secolo, mentre il protestantismo aveva ormai conquistato tutto il nord dell’Europa, nella Penisola invece, da prassi prudenziale, il nicodemismo si avviava a diventare atteggiamento vitale per i superstiti del movimento valdesiano.
Illustrazioni:
- figura 1: Sebastiano del Piombo, Ritratto di Giulia Gonzaga, Museo del Palazzo ducale di Mantova (su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali)
- figura 2: Domenico Puligo, Ritratto di Pietro Carnesecchi, Galleria degli Uffizi di Firenze (Inv. 1890, n. 1489; su concessione del Ministero per i Beni e le Attività culturali)
- figura 3: Quentin Metsys, Ritratto di Erasmo da Rotterdam, 1517, Gallerie Nazionale di Arte Antica a Roma (su concessione della Galleria Nazionale di Arte Antica)
- figura 4: Moretto da Brescia, Bernardo Tasso, Pinacoteca Civile Tosio Martinengo di Brescia (su concessione della Pinacoteca Civile)